Le parole che usiamo costruiscono la realtà

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Una delle prime cose che ci viene insegnata da bambini è quella di dare un nome a tutto. Questa è una casa, quello è un cane, queste delle matite. Fin da subito ci impegniamo, seppur in modo inconsapevole, per imparare il maggior numero di parole così da poterci esprimere in ogni situazione.

Il linguaggio è un sistema di comunicazione molto complesso, oggetto di esame di molti studiosi; non è semplice flatus vocis (emissione di voce). O meglio, non solo. Anche emettere dei suoni senza senso apparente, condurre un discorso di circostanza o privo di logica, sembrano avere una loro funzione primitiva. Il discorso ha un potere enorme, quello di creare un legame tra persone attraverso il puro scambio di parole. Gli viene riconosciuta una funzione sociale, capace di creare delle situazioni che altrimenti non esisterebbero. 

«The Art of the Brick» di Nathan Sawaya

Lo psicanalista Donald W. Winnicott definiva la prassi linguistica come «spazio potenziale», sottolinenando la sua capacità di elude l’alternativa interno ed esterno, cioè spazio soggettivo e oggettivo, privato e pubblico. L’azione verbale ha la peculiarità di essere insieme appariscente e intima; è esposta agli occhi degli altri ma allo stesso tempo è inseparabile dalla persona che la compie. È proprio questo che permette all’essere umano di agire, in un continuo passaggio tra mente e mondo. 

È evidente che il linguaggio sia molto più importante di quello che siamo soliti credere, e negli ultimi mesi il dibattito su questo tema è piuttosto acceso. Ciò nasce dalla volontà di accompagnare le battaglie sociali con delle trasformazioni pratiche che abbiano un risvolto nella quotidianità delle persone. È il caso della Francia, che qualche giorno fa ha pubblicato una notizia a proposito della scelta dei curatori dell’illustre vocabolario Le Robert. Il principale dizionario francese ha deciso di introdurre la definizione di una nuova parola: “iel”, un pronome di genere neutro che viene usato in modo analogo alle desinenze di schwa in Italia. L’idea è nata contraendo il pronome maschile “il”, francese di “egli”, e quello femminile “elle”, “ella” o “essa”. La definizione su Le Robert è:

 Pronome personale della terza persona singolare impiegato per parlare di una persona a prescindere dal suo genere.

La scelta è stata criticata dal ministro dell’Istruzione francese Jean-Michel Blanquer, sostenendo che la scrittura inclusiva non ha nulla a che vedere con il futuro della lingua francese. Il direttore generale della casa editrice Charles Bimbenet ha invece difeso l’inserimento del pronome “iel” nel vocabolario:

Da qualche mese i ricercatori di Le Robert hanno rilevato un uso crescente della parola “iel”. La frequenza d’uso di una parola è studiata facendo analisi statistiche di ampi insiemi di testi, tratti da diverse fonti. Questa attenzione costante ci permette di riscontrare la comparsa di nuove parole, modi di dire e significati. La parola “iel” è stata considerata all’inizio di ottobre in una riunione di redazione di Le Robert, durante la quale si è deciso di aggiungerla al nostro dizionario online: è vero che il suo uso è ancora ristretto (lo abbiamo sottolineato nella definizione, usando l’espressione “raro”), ma è in forte crescita da qualche mese.

Una cosa simile è accaduta al liceo classico Cavour di Torino, che ha ricevuto le critiche del leader leghista Matteo Salvini, definendo la scelta «una folle corsa verso il niente». Il liceo, infatti, ha deciso di inserire l’asterisco nelle comunicazioni ufficiali, utilizzando espressioni come “student*”, “ragazz*” e così via. È stato lo stesso preside Vincenzo Salcone a motivare la sua scelta:

L’identità e l’uguaglianza di genere sono elementi a cui attribuiamo una importanza fondamentale nella nostra comunità scolastica. E il linguaggio che utilizziamo rispecchia questo sentire. L’asterisco specifica che per noi tutti sono uguali a prescindere dalla loro identità e orientamento sessuale.

Inoltre gli studenti e le studentesse transgender, attraverso la piattaforma “Noi siamo pari” introdotta dal ministero dell’istruzione, avranno la possibilità di adottare un nome diverso da quello anagrafico, almeno all’interno della scuola.

Mi preme soffermarmi su un punto. La lingua che parliamo oggi non è la stessa che per esempio si utilizzava nell’antichità romana, né quella adottata da Dante nel 1300, né quella di cui parlava Pietro Bembo nelle Prose della volgar lingua (1525), e tantomeno quella degli anni ’60 del Novecento. La lingua ha subito profonde trasformazioni nel corso dei secoli, accompagnando i cambiamenti sociali, politici, economici e tecnologici. Per esempio, il termine “coscienza” non esiste da sempre, o comunque non come lo intendiamo noi oggi. Inizialmente sembra fosse addirittura sinonimo di consapevolezza. Entra nella lingua italiana nel XIII secolo, ma soltanto agli inizi del XVIII secolo, grazie a Liebniz, venne utilizzato nella sua accezione moderna; o la parola “boomer”, accolta dall’Accademia della Crusca tra il 2019 e il 2020, o “coronavirus”, oppure “whatsappare“: tutte parole nate dall’esigenza di stare al passo con le scoperte scientifiche, sociali, mediche e via dicendo

Le lingue ci aiutano a comprendere e a decifrare la realtà, e allo stesso tempo ci permettono di modificarla. Esse, infatti, impongono ai parlanti una certa immagine della realtà; di conseguenza meno saranno i termini a disposizione, più limitata sarà la sua conoscenza. Mi colpì molto scoprire che in giapponese esiste soltanto una parola per indicare ciò che in italiano sono “verde” e “blu”; o che nei paesi africani sembra che l’alto tasso di suicidi sia causato anche dal fatto che non esistano delle parole per esprimere un malessere psicologico. Questo fa sì che l’individuo che vive in uno stato di depressione, ansia, angoscia, non abbia le parole per poterlo comunicare agli altri, prova un costante dolore che non riesce a comunicare e dunque a riconoscere. 

Il parlante pensa in modo diverso in base alle strutture linguistiche che ha a disposizione. Secondo la psicologa Lera Boroditsky le categorie espresse da queste strutture influenzano l’immaginario che abbiamo, come la categoria spazio, quella di tempo, e anche quella di genere. Per esempio in tedesco “chiave” è maschile, mentre in spagnolo è femminile. Quando è stato chiesto agli intervistati di associare degli aggettivi al termine, è stato visto che in tedesco hanno scelto attributi più “mascolini” (pesante, dentellata, dura), e in spagnolo più “femminili” (elegante, carina, delicata). 

Come fa una parola nuova a entrare nel vocabolario?

Si pensa che affinché un neologismo entri nel dizionario sia necessaria l’approvazione di qualche commissione linguistica (l’Accademia della Crusca per esempio); questo era parzialmente vero in passato quando, in assenza di computer, si occupavano di compilare il vocabolario, avendo così il potere di scegliere cosa dovesse esserci e cosa no.

Al giorno d’oggi, invece, le cose funzionano in modo molto diverso, grazie anche ai nuovi strumenti informatici. Per stabilire quali parole inserire, le case editrici o gli enti che pubblicano i vocabolari compilano grandi raccolte di testi di ogni genere (scritti, parlati, trasmessi, letterari, ecc.) detti corpora, dai quali estraggono, con criteri statistici, tutti i termini che hanno un peso sufficiente nell’uso. La parola deve essere usata da un numero sufficientemente grande di persone, deve essere impiegata per un periodo sufficientemente lungo e, se possibile, deve ricorrere in contesti differenti. In questo modo l’inserimento è direttamente proporzionale alla sua utilità, stabilita dagli stessi parlanti. 

È evidente, dunque, che la lingua sia strettamente legata alla cognizione umana. Quello che pensiamo e l’idea che abbiamo del mondo sono direttamente connessi a ciò che diciamo, o meglio, ciò che possiamo dire.

Mi sorge spontanea una domanda: le persone che criticano l’inserimento di nuove parole necessarie affinché avvenga un cambiamento culturale e sociale vogliono impedire che questo accada? E la seconda: cosa nuoce a loro l’aggiunta di altre parole (e non la privazione), come avviene già da millenni? D’altronde, nel momento in cui vengono inserite nel vocabolario non sono costretti a utilizzarle, come già fanno per la maggior parte. Lo stesso direttore di Le Robert ha spiegato:

Ci è sembrato utile definirlo per chi incontra questa parola, sia che la voglia usare, sia che al contrario ne voglia rifiutare l’uso.

Bimbenet ha così ricordato che il compito dei dizionari è spiegare le parole per permettere di capirle, e documentare l’evoluzione della lingua, senza esprimere approvazione o adesione al significato delle parole stesse.

Qualche anno fa, in un’intervista, Andrea Camilleri disse che le parole sono pallottole e hanno il potere di cambiare il mondo, riferendosi a un sentimento d’odio diffuso rintracciabile nel linguaggio utilizzato da molte persone. Io credo che questo paragone possa essere in qualche modo ribaltato e visto da un altro punto di vista. Dire che le parole sono pallottole vuol dire anche che hanno la capacità di creare un “buco”, di rompere una tessitura, di aprire uno scrocio; ed è nei momenti di rottura che si intravede il cambiamento.

Autore

Nata e cresciuta nella periferia di Roma, sfuggita al destino di diventare un medico (come i miei genitori), sono approdata a Torino in una scuola di “Storytelling and Performing Arts”. Mangio storie e bevo prosecco. In camera ho appesi i poster di Montaigne. Credo nell’amore per il pensiero, nel potere dell’arte e nella bellezza delle parole.

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