Le strade si ripuliscono, le scuole riaprono, i sacchi di sabbia sono messi via. La vita, subito e nell’immediato, riparte. Non è permesso prendersi del tempo per capire, comprendere, studiare l’avvenuto. Sembra quasi che l’alluvione – o meglio, le alluvioni – non siano mai avvenute.
Eppure è tutta apparenza, perché c’è qualcosa che rimane e che non potrà mai più esser lavata via: il trauma. Trauma che, con il passare del tempo, cresce esponenzialmente. L’alluvione a Valencia, la siccità in Sicilia, la pioggia di fine estate o il rumore della doccia: tutto fa pensare in egual maniera ai dispersi, alla desolazione, alle case inutilizzabili e che puntualmente ogni volta che vengono risistemate vengono nuovamente ricoperte di fango, ai mesi passati a ripulire, alle difficoltà economiche, ai risparmi di una vita finiti senza neanche avere la contezza di potersene render conto. Trauma talmente intenso che si riversa su chi aiuta, studia, circonda chi ne è direttamente colpito.
È qui che è necessario introdurre alcuni termini ed alcune definizioni che, verosimilmente, da qui al futuro faranno sempre più parte della nostra quotidianità. La solastalgia – neologismo coniato nel 2003 da Glenn Albrecht – è direttamente legata all’eco ansia. Si tratta dell’angoscia, della sensazione di impotenza causati dalla perdita di un luogo o di un ambiente che è importante per l’individuo a causa del cambiamento climatico, della distruzione o della trasformazione del territorio. L’eco ansia è invece definita come la paura o l’angoscia del cambiamento climatico legata all’esistenza umana. Gli effetti psicologici diretti sono l’aumento dei tassi di depressione, di ansia, di stress post-traumatico. Sintomi frequenti riscontrati sono stati attacchi di panico, insonnia e pensieri ossessivi. Il disagio psicologico che deriva dalla paura per il futuro dell’umanità e della distruzione del pianeta può tradursi anche in una specie di lutto.
Eppure – nonostante sembri un tema secondario – non sono solo i direttamente colpiti a soffrire dei disastri climatici. Alice Facchini (giornalista per Internazionale), Cristina Cozzoli (laureanda in Criminologia e attivista per Forlì Città Aperta) e Luca Simoni (PLAT – Piattaforma di Intervento Sociale) descrivono il trauma vicario e le loro dirette esperienze con l’alluvione in Emilia-Romagna. Il termine è utilizzato per descrivere quel fenomeno di assorbimento dello stress post-traumatico da parte di chi ascolta e raccoglie testimonianze particolarmente toccanti.
Alice Facchini racconta quanto: «è stato straniante avere a che fare con un tema che mi aveva colpita, ma non lo aveva fatto direttamente. Quando piove si ha paura che torni un’alluvione così come se la si avesse vissuta, anche se non è mai successo». Anche Cristina Cozzoli lo conferma, affermando di aver percepito delle similitudini con delle sensazioni provate da degli alluvionati. Quali? Ad esempio, è stato difficile per i forlivesi recarsi nuovamente al Parco Urbano dopo la sua devastazione a maggio 2023. Lo stesso discorso è valso per lei, che ha evitato di recarcisi per evitare di notare come fosse cambiato, e quando lo ha fatto assieme a delle amiche che ne erano entusiaste è invece rimasta alquanto toccata. Luca Simoni percepiva il fango addosso una volta tornato a casa dai lavori – sensazione condivisa dalla quasi totalità di coloro che si sono attivati per aiutare massicciamente i più colpiti e le più colpite – e afferma di aver sognato per almeno tre notti di fila fango dopo che la coordinazione dei lavori a Bologna era terminata. I danni immateriali, quindi, si moltiplicano a dismisura.
In questo contesto le istituzioni non risultano essere un appiglio sicuro, anzi. Dall’esperienza sul campo dei tre intervistati risulta tangibile la necessità da parte delle persone di uno spazio in cui parlare, sintomo del fatto che questo non è stato garantito dall’alto. «Interessante è l’aspetto che sorprendentemente da parte delle persone c’è una grandissima voglia di parlare di questi temi, che toccano delle corde molto personali e significative. Non c’è difficoltà nell’aprirsi e c’è tanta voglia di raccontare. Vuol dire che gli spazi per raccontare non ci sono, ed è bene specificare che le interviste sono state fatte solo dopo la prima alluvione» – afferma infatti Cristina Cozzoli, che ha direttamente interessato soggettività colpite dai disastri naturali dopo la prima alluvione in Romagna per il suo progetto di tesi. Non si tratta solo di un’impressione degli intervistati: la gestione politica è stata effettivamente inefficiente, e non soltanto per i ritardi e le problematiche nell’erogazione dei Fondi. Sono stati garantiti degli sportelli di ascolto psicologico d’emergenza, che sono però stati degli interventi sporadici e subito rimandati al Sistema Sanitario Nazionale. «Non sono soltanto i casi “più gravi” quelli meritevoli di supporto – aggiunge Alice Facchini – ma sarebbe altresì necessario un percorso anche per chi continua ad essere funzionale ma si porta dietro un trauma e deve imparare a conviverci».
È in questo quadro che si inseriscono i questionari di inchiesta e di studio che tutti e tre i soggetti intervistati hanno contribuito a produrre, seppur toccando ed analizzando aspetti diversi. Alice Facchini ha lavorato al progetto “Resilience in the Era of Climate Change” – finanziato da Journalism Fund – in cui si è studiata la reazione delle persone davanti a troppa acqua (o troppo poca) collegata alle alluvioni in Emilia-Romagna e in Toscana e alla siccità in Catalogna.
Nell’articolo pubblicato su Internazionale il 23 ottobre lo psichiatra Matteo Innocenti (AIACC) espone i dati del questionario affermando che «gli eventi climatici e improvvisi come le alluvioni causano emozioni acute, mentre i mutamenti più lenti del paesaggio fanno insorgere emozioni che durano nel tempo. Come se la velocità di cambiamento del nostro stato d’animo rispecchiasse la rapidità della trasformazione del paesaggio che ci circonda».
Un altro tema che sottolinea è quello del trauma cumulativo, che non è più vissuto come un evento unico, ma come un processo continuo in cui la paura viene sostituita dalla stanchezza emotiva. «La salute fisica ne è influenzata: l’eccesso di cortisolo – il cosiddetto ormone dello stress – può aumentare il rischio di infiammazione e la genesi di molti disturbi psichiatrici» – aggiunge Innocenti. Interessante è anche il riscontro positivo ritrovato nel legame fra le soggettività colpite e la natura, in una sorta di terapia ecologica per cui l’atto di coltivare e proteggere l’ambiente aiuta a curare le ferite. «Non è l’ambiente ad averci tradito, siamo noi ad aver tradito lui» – afferma un’intervistata.
Il questionario di Forlì Città Aperta nasce invece – ci racconta Cristina Cozzoli – con un’esigenza. La volontà del collettivo a maggio 2023 era quella di raccogliere i bisogni delle persone colpite – atto finalizzato alla realizzazione di un progetto, di cui una delle parti era proprio il sostegno psicologico. Dall’analisi dei dati si è evinto come il bisogno fosse forte, ma come la metodologia indicata non fosse prettamente convenzionale. I percorsi di sostegno psicologico di gruppo sono stati descritti come particolarmente utili, e l’idea era proprio creare dei progetti con tecniche di psicologia dei disastri e delle comunità.
Perché sono stati così apprezzati? Perché c’era bisogno di confrontarsi e di avere un percorso di gruppo che portasse ad una condivisione dell’esperienza e ad un supporto reciproco. Interessante è stato scoprire dei gruppi whatsapp che potremmo chiamare di “mutuo aiuto”, nati spontaneamente nei quartieri ed in cui ci si scambiano ansie e paure anche solo in caso di forti piogge. Spesso c’è necessità di terapie individuali – specie nei casi più gravi in cui si necessita anche di terapie farmacologiche – ma aldilà di questi casi un approccio collettivo può risultare particolarmente utile, specie in una situazione in cui vi sono delle lacune strutturali forti e ancora forti stigma nel rivolgersi a specialisti della salute mentale. Dal questionario risulta essere particolarmente problematico anche l’arrivo delle informazioni ai diretti interessati – che spesso non sono a conoscenza dei servizi proposti – ma anche tempi di attesa eccessivamente lunghi e costi spropositati che hanno disincentivato il percorso di cura.
Dal questionario di PLAT e Bologna For Climate Justice si evincono alcune riflessioni interessanti grazie alle risposte aperte degli intervistati. Qualcuno afferma di aver provato disagio nel vedere studenti svuotare cantine di appartamenti che non avrebbero mai potuto permettersi: il tema del cambiamento climatico si lega inesorabilmente a quello della precarietà giovanile. Qualcun altro si interroga sul punto critico della gestione e sulle mancanze nelle zone periferiche. Riguardo quest’ultimo punto, Luca Simoni ci dice che «probabilmente è il piano numerico di attivazione ad essere diverso fra centro e periferie. I media e le sedi centrali delle istituzioni si trovano in centro, l’area metropolitana è privilegiata rispetto all’Appennino anche in termini di visibilità, purtroppo».
Aspetti diversi, vero, ma in ognuno vi è esplicitamente o implicitamente il riferimento a qualcosa che rimane e che è impossibile da eliminare. E se le attività e la vita ripartono, le ferite impiegano tempo per essere rimarginate e gli spazi di metabolizzazione collettiva, lo spirito comunitario, diventano sempre più importanti.
La foto di copertina è di Greta Magazzini, il cui racconto e reportage fotografico dell’alluvione del 19 ottobre a Lavinio di Mezzo può essere consultato qui: L’alluvione in Emilia-Romagna e la marginalità dei territori di provincia
Autore
Simona Marrone
Autrice
Sono una studentessa e giornalista pubblicista, da sempre appassionata di attivismo e critica sociale. Mi piace cimentarmi in tutto ciò che trovo stimolante ma, soprattutto, adoro scrivere!