Sabato 10 febbraio si è conclusa la 74esima edizione del Festival di Sanremo. Come da tradizione, ha fatto e sta facendo discutere per diversi motivi. Tra questi la partecipazione e i risultati al televoto di Emanuele Palumbo, in arte Geolier, rapper napoletano classe 2000. Il nome, preso in prestito dal francese, si traduce in “secondino”, che in napoletano indica i residenti del suo quartiere di provenienza, Secondigliano.
Il ventitreenne del Rione Gescal è stato l’artista più ascoltato del 2023, il più televotato di sempre (con il 60%), 53 dischi di platino e 23 ori. Inizialmente criticato per la scelta di portare un pezzo totalmente in napoletano, perché «Sanremo è il festival della canzone italiana» (eppure Sanremo nasce dalla canzone napoletana, e Nino D’Angelo nel ‘99 ci ha portato quel capolavoro di Senza Giacca e Cravatta), la discussione si è poi estesa, anche da parte degli stessi partenopei, sull’ortografia e la correttezza grammaticale del testo.
Ma c’è qualcosa dietro ciò che non riguarda necessariamente una problematica linguistica nella canzone di Geolier. Un qualcosa che si è reso evidente a seguito di quanto accaduto durante la serata cover, la cui vittoria è stata fortemente fischiata dal pubblico e dalla sala stampa. L’artista partenopeo aveva portato sul palco «tre mostri», come li definisce lui: Gigi D’Alessio, Luché e Gué. Il medley non è stato tanto un’espressione della musica napoletana quanto della cultura rap e delle voci con le quali Geolier è cresciuto. Entrambi i generi si distinguono perché fanno rumore se non rientrano in certi canoni, ovvero se raccontano storie dal basso. Nonostante la sua partecipazione fosse stata criticata già prima dell’inizio del Festival, quanto accaduto durante la settimana ha fatto luce su un fenomeno spesso superficializzato, ma che persiste da moltissimo tempo. Si è espresso non solo attraverso le reazioni del pubblico da casa e dell’Ariston, ma anche dalla stessa stampa, la quale si è molto lamentata dei risultati chiedendo di «non far votare più la Campania». Sembra abbastanza chiaro che l’antimeridionalismo è ancora vivo, e facciamo difficoltà ad accettarlo.
Bisogna, tuttavia, precisare qualcosa prima di affrontare il discorso: sono stati molti gli artisti di spicco sul palco dell’Ariston quest’anno. Tuttavia, è difficile non notare la mancanza di una rappresentazione forte e sentita del femminile, del mondo queer, e le difficoltà a portare avanti liberamente conversazioni o messaggi a scopo sociale (sia mai dire politico). Dagli appelli contro il genocidio palestinese a quelli a favore della solidarietà femminile o della sessualità libera, sono piccoli i passi fatti. Di fatto, è necessaria una conversazione, anche parallela, degli attacchi misogini contro le artiste in gara, l’occultamento e la censura delle richieste di cessate il fuoco a Gaza. Risulta sicuramente difficile comprendere e dar voce a più problematiche contemporaneamente, anche se necessario. Viviamo lungo una stratificazione di discriminazioni, che si intersecano fra genere, classe sociale e razza. È giusto dare voce a tutto, perché tutto è politico, qualsiasi sia la sfumatura e il contesto. Abbiamo bisogno di un approccio intersezionale.
Il 24 gennaio 2023, durante la trasmissione Le Iene, Geolier, in giacca e cravatta e con napoletano rionale, parla della rappresentazione della sua città. Nel far ciò cita Massimo Troisi, per agganciarsi poi a quello che è un discorso molto sentito, anche se piuttosto semplificato:
Massimo Troisi parlava spesso degli stereotipi su Napoli. Però non distruggeva quelli negativi, ma estremizzava quelli positivi. E alla fine faceva vedere che pure quelli erano un’invenzione di chi voleva che Napoli fosse una caricatura. A me sembra che andiamo bene solo se siamo una storia già scritta, nel bene e nel male.
C’è un elemento di questa prima parte di monologo che mi tocca particolarmente. Nel bene o nel male, Napoli è un grande palco, e porta in scena le caricature e le idee che l’Italia (e non solo) ha nei confronti di essa. Tuttavia, il problema di Geolier non è soltanto il suo sangue napoletano, perché non è una lotta “Napoli vs Mondo”, ma di essere parte di un contesto sociale poco gradito, apprezzabile solo come stereotipo romanticizzato sullo schermo. Non è sicuramente l’unico artista napoletano e/o campano nella storia di Sanremo o sul palco di quest’anno. Non è neanche l’unico a cantare in lingua, in realtà. Ma è di sicuro l’unico che quest’anno porta sul palco l’identità del Rione. La sua musica e il suo modo di fare sono estremamente legati alla sua realtà, a un contesto difficile e stereotipato. Dalla sua forte identità sociale al modo in cui fa musica e si pone, non c’è nulla che, a detta di molti, possa definirlo “un vero napoletano”. Ma esiste davvero il “vero napoletano”?
Oggi Napoli vive sotto i riflettori, un po’ per riscatto, un po’ per romanticizzazione del basso. Lo vediamo con Mare Fuori, e l’abbiamo visto in precedenza con Gomorra – La Serie. La fiction Rai, in particolare, sta ricevendo un successo internazionale, tale da vendere i diritti per remake all’estero. Per non parlare della popolarità di TikTok Napoli, un vero e proprio fenomeno mediatico. La musica e il cinema stanno puntando su artisti e sound partenopei, che rappresentano un’ottima fonte di guadagno per le grandi produzioni che li promuovono. In particolare, aumentano sempre di più le storie che trattano la criminalità organizzata, per poter rivalutarne “i cattivi ragazzi”, nonostante queste narrazioni siano raramente scritte da chi potrebbe affrontare l’argomento con le giuste conoscenze. Eppure Napoli, nonostante la fama degli ultimi anni, non è cambiata. Il turismo è quadruplicato, questo è vero, ma è difficile gestirlo, perché il resto non avanza di pari passo.
Tuttavia, questo successo si deve in parte a un’estremizzazione di vecchie narrative che alimentano stereotipi e caricature, in particolare di contesti sociali più bassi, come i rioni di periferia. Si lucra sull’ignoranza o i modi di fare esuberanti, perché divertono e aumentano l’engagement. Questa popolarità però è gradita da molti concittadini, perché si presenta come un riscatto dopo anni di irriconoscenza della propria identità culturale. Diventa sempre più sentito quell’atteggiamento un po’ ossessivo, che alcuni definiscono campanilistico, di dover far vincere e difendere Napoli a tutti i costi. Per quanto a volte possa sembrare soffocante, c’è da considerare che ciò è figlio di traumi generazionali scaturiti dalla questione meridionale, che affonda le sue radici nell’Italia pre-unitaria. Col tempo, ciò ha scatenato nell’animo napoletano, in particolare quello di un contesto più stereotipato, il desiderio di non essere più inferiori a nessuno. Di conseguenza, spesso queste caricature vengono mantenute vive dagli stessi partenopei, perché si presentano come l’unica cosa che resta per valorizzarsi.
Questo orgoglio identitario è stato considerato la causa degli ottimi risultati al televoto di Geolier, ma c’è un dettaglio: la sua musica non è amata soltanto dai campani o dal Sud in generale. Lo stesso figlio di Amadeus, quindicenne di Milano, si è dichiarato un grande fan del rapper secondino. Geolier è un fenomeno nazionale da più di un anno. Eppure le reazioni al suo successo si limitano ad accuse di vie camorristiche, battute sul reddito di cittadinanza e le rapine di telefonini pur di mandare più voti possibili. Dopo la vittoria al medley, l’artista ha ricevuto in conferenza stampa una domanda che conferma ulteriormente la presenza in Italia di antimeridionalismo. La giornalista Marzia Forni gli avrebbe chiesto se non si sentisse a disagio ad aver «rubato il premio» ad Angelina Mango. Ci sono stati molti fischi e dissensi nella storia di Sanremo, ma mai un’accusa di furto. Purtroppo, l’intervento della Forni non è finito lì: gli è stato chiesto più volte di un presunto video dove avrebbe fatto un “tutorial” su come votare il suo codice da più schede SIM possibili, finendo il tutto con una frase detta in napoletano: «Sapete già che fare». Una frase pronunciata, in realtà, da molti artisti che promuovevano il loro codice ma, ovviamente, in napoletano può voler intendere sicuramente solo qualcosa di losco. Ma, a questo punto, è davvero un problema linguistico o di gusti personali? Questi ultimi possono sicuramente dividere il pubblico e la stampa, ma la loro cornice delinea un sentimento antimeridionale ancora fortissimo.
Sui social c’è stata, tra l’altro, una confusione non indifferente sul concetto di antimeridionalismo, che dimostra quanto l’argomento sia davvero poco trattato e limitato ad una conversazione di “c’è o non c’è”. L’antimeridionalismo non è solo una questione di origine meridionale o meno, ma di un ripudio per tutto ciò che gli viene associato, scaturito dall’arretratezza economica che caratterizza il Mezzogiorno da secoli. La classe sociale gioca un ruolo fondamentale: non è solo la sua provenienza napoletana a definire Geolier, ma il contesto sociale che rappresenta. Chi “puzza di povero”, in poche parole. Una puzza che viene associata a sua volta alla criminalità e all’ignoranza. L’autodeterminazione dal basso presenta moltissime sfumature, e fa moltissima paura quando si preannuncia come un pericolo per le barriere che la limitano. Si cerca di prevenire ciò “romanticizzando” una città, trasformandola in un’immagine poetica che mostra napoletani, povera gente, trovare sempre il sorriso nonostante tutto. E mentre si condividono foto di anziani in costume sul Lido Mergellina con tatuato sul petto Tutto passa, del Vesuvio, dei Quartieri Spagnoli e della pizza, fuori dai social si deride chi ha la terza media, i pentiti, gli analfabeti funzionali, i lavoratori in nero o chi conosce solo l’illegalità.
Ma l’antimeridionalismo viene inculcato, e non solo a livello settentrionale. Da sempre insegnano a noi napoletani come renderci più apprezzabili e credibili, capaci di parlare del mondo con un certo spessore. L’obiettivo massimo è convincere che chi è indietro è destinato a restarci per sempre, a patto che non diventi qualcun’altro. Tutto questo porta a una divisione tra napoletani di serie A e di serie B, come vediamo anche dalle reazioni alla presenza di artisti rionali come Geolier. Accade, spesso, che siano gli stessi napoletani di serie B a dover dissimulare la loro condizione per non venire assoggettati, oppure zittirsi e/o autoconvincersi che l’antimeridionalismo non esista. Durante la conferenza stampa post-finale, di fatto, il rapper risponde riguardo i fischi subiti dicendo che, secondo lui, «si sia superata la questione del pregiudizio verso Napoli e i napoletani». Così la questione meridionale diventa fuffa, viene annacquata per quieto vivere.
La divisione in napoletani di serie A e B si conferma anche per quanto riguarda la correttezza grammaticale dei suoi testi e del suo modo di esprimersi. Per difendere questi ultimi c’è chi condivide un noto spezzone di un vecchio concerto a Pescara di Pino Daniele nel 1980. Il musicista, pilastro della musica napoletana, era intento a parlare in napoletano (e proprio di Napoli) con il pubblico, dal quale si distingue una voce: «Impara a parlare!». Daniele gli risponde: «Non fa niente per il parlare, l’importante è saper suonare». I commenti si esprimono con rabbia, definendo il rapper secondino «uno scappato di casa, un “camorrista», mentre l’icona del blues «era un vero signore, amato da Nord a Sud».
Nonostante entrambi provengano da contesti difficili, Pino Daniele è stato forse l’artista più citato come metro di paragone per contestare la partecipazione di Geolier, forse perché hanno preso strade musicali diverse. Il rapper viene così chiuso in una bolla di stereotipi sulla criminalità organizzata e sull’incapacità artistica, poiché fedele a tutt’altra scena musicale (e anche socio-culturale, in fondo). La visibilità della sua musica potrebbe dimostrare che, forse, ma proprio forse, le voci dal basso valgono quanto quelle di chiunque altro. Raccontarsi attraverso espressioni culturali proletarie e/o povere metterebbe in pericolo l’egemonia di un ideale culturale della classe medio-alta. Meglio evitare, no?
Ovviamente, l’antimeridionalismo da parte del Meridione stesso non è tutta critica culturale. Ricordo le reazioni generali a determinati eventi che hanno contraddistinto il primo anno di Covid-19. Molte sono state le proteste e le manifestazioni organizzate per esprimere il disagio scaturito dal lockdown. Dai piccoli commercianti ai lavoratori in nero, la chiusura totale ha causato difficoltà economiche e di sostentamento non indifferenti. Uno specifico episodio dell’ottobre 2020 ne è un esempio: alcuni dei partecipanti presenti alla protesta si sono allontanati per utilizzare fumogeni, bottiglie, petardi e non solo, o scontrarsi con le forze dell’ordine. Sui social echeggiava una frase in particolare: Questa non è la mia Napoli. Sarebbe stato bello se quest’ultima avesse indicato un forte desiderio di diminuire, o meglio ancora eliminare, i disagi socio-economici al centro della protesta. Si trattava bensì di una presa di distanza da quell’episodio violento generato, a detta loro, da un’ignoranza animalesca della Napoli analfabeta e criminale. Ma qual è la vostra Napoli?
Ci si disinteressa del degrado e delle estremizzazioni della sofferenza popolare, perché darebbe troppo peso a coloro che stanno più in basso e graverebbe all’immagine della Napoli buona, carnale, e che sorride alla vita. Ci raccontiamo una favola, la favola del “vero napoletano”. Un napoletano che può chiamarsi tale perché possiede un certo bagaglio culturale, meglio ancora un talento o una carriera che lo presenterebbero al pubblico come una figura rispettabile. Perché la possibilità che la classe dirigente possa deriderci o associarci a “chi puzza di povero” è un incubo. Rinneghiamo così noi stessi, distanziandoci l’uno dall’altro in base a ciò che ci conviene di più. In caso contrario si alimenterebbero i pregiudizi ricchi di disprezzo e ostilità contro Napoli, mantenendo vivo lo stereotipo di una città “chiagnifottista”, ingrata al Nord che l’ha “liberata”.
Ma cosa può cambiare se “chi puzza di povero” viene denigrato e lasciato a se stesso? Il napoletano di serie B si isola, perché sta bene solo con chi lo può capire, romanticizza la propria condizione degradata per darle un senso, perché esiste un solo punto di vista possibile. Per evitare ciò bisogna parlarne, informarsi, rendersi più consapevoli della questione meridionale, o restiamo vittime di una storia destinata a ripetersi sistemicamente. Tuttavia, questa consapevolezza non deve significare la deresponsabilizzazione di chi agisce a seguito di un’educazione violenta, misogina e razzista, ma deve far luce sul perché tale educazione esista in primis e sull’enorme strada ancora da fare. Negando ciò si cadrebbe nuovamente vittime dello stereotipo del napoletano povera anima, lasciato solo a se stesso, per il quale bisogna solo provare pietà, senza agire per migliorare le condizioni di una classe sociale più bassa.
Per adesso, c’è chi con Geolier a Sanremo cerca un riscatto, non tanto perché ci fosse una vittoria di mezzo, ma perché potrebbe dar vita a una consapevolezza che dal basso possa nascere un progetto culturale di successo, capace di redimere il proprio status sociale. Naturalmente, non possiamo prevedere se quanto accaduto possa cambiare qualcosa per le classi meno privilegiate di Napoli ma, intanto, spero ci siano stati ragazzini dei rioni che, almeno per qualche giorno, si sono sentiti rappresentati e grandi quanto il mondo.