I followers dicono no all’ingordigia degli influencer

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Gli influencer italiani sono diventati i venditori per eccellenza nel mondo digitale. Specializzati in tutto e nulla, passano con disinvoltura dal recensire film e ristoranti al consigliare l’ultimo fondotinta provato o l’hotel in cui sono stati ospitati. I loro contenuti, spesso, sono solo di una manciata di secondi, il tempo di una storia sul social network più utilizzato, Instagram.

La velocità di questi contenuti li rende particolarmente efficaci nel catturare l’attenzione degli utenti, ma solleva una questione: quando i social media sono diventati un canale di televendita?

Il fenomeno dell’influencer marketing riflette una dinamica più ampia della nostra era digitale, in cui la superficialità e la rapidità dei contenuti prevalgono su una riflessione più profonda. Gli influencer sfruttano questa rapidità per alimentare una cultura del consumismo, ma non possiamo ignorare la nostra responsabilità: siamo noi a decidere di seguire questi contenuti, contribuendo alla loro popolarità. La capacità di queste figure di influenzare le nostre scelte quotidiane riflette non solo la loro abilità nel presentarsi come autorità su vari argomenti, ma anche il nostro comportamento di consumatori di contenuti. È dunque una questione di equilibrio tra il controllo che esercitiamo sul nostro feed e il modo in cui permettiamo che queste figure definiscano le nostre percezioni e preferenze.

La quotidianità di un influencer è una continua cascata di recensioni, promozioni e codici sconto. Ogni giorno ci troviamo di fronte a brevi clip in cui uno di questi personaggi cerca di convincerci a comprare l’ultimo prodotto in commercio. La scena è spesso accompagnata dall’affermazione che non ne trae alcun guadagno, lo fa per amore dei suoi follower quello di mostrare prodotti testati personalmente e esperienze vissute.

A differenza dei media tradizionali, con queste figure si può negoziare un baratto in cambio di una recensione o di un po’ di pubblicità: un weekend in un hotel, un set di pentole, una cena gratuita o addirittura una vaschetta di gelato. Il risultato è un incessante carosello di pubblicità, spesso mascherata dietro gli hashtag #gifted, #supplied e #sponsored, che si mescolano in un mix confuso di unboxing, regali e codici sconto.

Le critiche non sono ben accette da questi personaggi, e possono portare a dispute pubbliche, esemplificate da storie o da commenti difensivi in cui chi osa sollevare un’osservazione viene etichettato come “invidioso sociale”. Tuttavia, si tratta di una tattica poco produttiva, poiché il successo degli influencer è direttamente proporzionale alla soddisfazione dei propri follower.

Sono proprio questi ultimi a contestare sempre più spesso il comportamento dei loro beniamini. Sul web, ultimamente, il clima è molto teso e qualcuno sostiene che sia giunto il momento che gli influencer facciano i conti con i loro privilegi e con l’ostentazione del lusso. In un’epoca caratterizzata da crisi abitativa, economica e sociale, la vita sfarzosa di queste figure può sembrare particolarmente distante dalla realtà quotidiana di molti italiani che affrontano difficoltà concrete.

Il caso di Chiara Ferragni ha attirato particolare attenzione tra gli utenti dei social media, sollevando interrogativi soprattutto sulla pratica del “supplied”, ossia il fornire beni gratuiti agli influencer in cambio di visibilità sui loro profili social. Molti si sono chiesti come gli influencer ricevano e gestiscano tali prodotti, in particolare per quanto riguarda l’etica e la trasparenza di questi scambi.

Il “supplied” è un accordo commerciale in cui un influencer promuove un prodotto, un hotel o un ristorante sui suoi social in cambio di beni o ospitalità gratuiti. Questa pratica, che rappresenta una forma moderna di baratto, è in uso da anni e ha preso piede in modo evidente: alcuni influencer rinnovano l’arredamento della propria casa ogni sei mesi in cambio di post sponsorizzati, altri ottengono cene senza pagare. La situazione è diventata talmente diffusa che si vedono sempre più spesso foto di vacanze “scroccate”.

La pratica del supplied è ora malvista da molti follower, esasperati dallo sfoggio continuo dei privilegi degli influencer. Dopo lo scandalo che ha coinvolto Chiara Ferragni, i follower hanno iniziato a manifestare il loro malcontento, e i commenti sui post degli influencer sono passati da elogi e complimenti a richieste di spiegazioni sul perché non si finanzino le proprie vacanze come tutti gli altri.

La critica si estende anche alle strutture e alle aziende che ospitano gratuitamente i creator. Diversi brand hanno chiuso la sezione commenti sui loro profili social per evitare polemiche e commenti sgradevoli.

Uno degli ultimi casi che aiuta a comprendere meglio la situazione riguarda Aurora Ramazzotti, che sta trascorrendo alcuni giorni di vacanza al Mangia’s Brucoli, in provincia di Siracusa, grazie a un accordo commerciale con la struttura. Ciò che doveva essere una buona pubblicità per il luogo ha generato l’effetto opposto: molti utenti hanno dichiarato di non voler più soggiornare in strutture che offrono servizi gratuiti agli influencer, esprimendo disappunto con commenti come “stop adv stop supplied”. Alcuni si sono anche lamentati del fatto che gli influencer non dovrebbero ricevere soggiorni gratuiti, sottolineando che tali costi vengono poi trasferiti sui clienti paganti.

In generale, c’è un crescente malcontento verso gli influencer, accusati di trarre vantaggio da queste situazioni. Secondo alcuni esperti di marketing, molte imprese stanno iniziando a chiedersi se questa strategia sia ancora efficace o se sia giunto il momento di adottare un nuovo approccio. A risentirne sono proprio gli influencer, la cui credibilità sembra essere sempre più messa in discussione.

Anche i matrimoni di questi personaggi sono stati criticati per la stessa ragione: nonostante le spose abbiano grandi possibilità economiche, non hanno pagato nemmeno l’abito da sposa. I follower sono esasperati dalla continua ostentazione di beni e privilegi, soprattutto in un periodo in cui il Paese affronta gravi problemi di precarietà.

Inoltre, c’è un problema fiscale rilevante: mentre i lavoratori dipendenti pagano le tasse sui benefit ricevuti dal datore di lavoro che di fatto vengono considerati parte del reddito personale (buoni pasto, rimborso spese, auto aziendali), i beni ottenuti dagli influencer non sono tassati. Molti influencer mostrano i beni ricevuti gratuitamente come se fossero guadagni esentasse.

Un esempio potrebbe essere un influencer che mostra la cucina della sua nuova casa, completamente arredata grazie ai supplied. Se gli elettrodomestici e i mobili forniti hanno un valore di 15 mila euro, l’influencer riceve beni di tale valore senza dover pagare tasse su questo “guadagno”. Inoltre, spesso questi beni vengono rivenduti, generando un ulteriore guadagno che rimane esente da tassazione. 

In sintesi, il fenomeno del “supplied” è diventato una delle tante scintille che alimentano il malcontento sociale, e potrebbe essere il momento di riflettere su come tassare adeguatamente queste moderne forme di scambio commerciale.

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