Più di 40 anni fa David Bowie cantava “ We can be us, just for one day”. Oggi, alle olimpiadi di Parigi 2024, una pugile algerina sconfigge (quasi a tavolino) la rivale italiana e i media internazionali (ma soprattutto quelli italiani) le puntano il dito contro, accusandola non di doping ma di non essere una donna.
Nel frattempo, nel vicino campo da beach volley olimpico, l’olandese Steven van de Velde gioca indisturbato la sua partita dopo esser stato condannato nel 2016 a 4 anni di carcere per aver stuprato una bambina di 12 anni. Van de Velde si giustifica dicendo: “Non sono un mostro” mentre Khelif, la pugile vincitrice, dall’altra parte dello stadio olimpico giura: “Non sono un uomo”.
Un freak show olimpionico
In questo scenario distopico – che sembra più un puntata di Black Mirror – assistiamo all’impensabile: il padre di Imane Khelif, non sapendo più come sostenere la figlia ormai all’epicentro di un’ingiusta gogna mediatica, decide di mostrare alle telecamere il certificato di nascita che ne attesta il sesso biologico: donna — e su questo si potrebbe riflettere molto: cosa definisce davvero una donna? Cosa un uomo? Possiamo davvero limitarci al sesso biologico canonicamente inteso? Evidentemente no, e proprio questo sembra essere l’interruttore in grado di mandare in cortocircuito la destra italiana – ma più in generale, tutte le persone conservatrici, omofobe e misogine che abbiano accesso ad un social network. Il punto poi, se si volesse realmente analizzare la questione da una prospettiva transfemminista (o, per i meno avvezzi, anche semplicemente rispettosa), non è tanto il sesso assegnato alla nascita, quanto il genere in cui Imane Khelif si riconosce. Solo a seguito di una breve ricerca, ci si accorgerebbe che Khelif si è sempre identificata come donna e che, quindi, non sta certo a noi mettere in discussione la sua identità di genere (e con questo intendo dire che non ne abbiamo né il diritto né la legittimità).
Intanto, complice lo sciacallaggio giornalistico, inizia a diffondersi la notizia che Khelif sia una donna intersex, senza disporre di prove scientifiche consensuali che attestino la veridicità della supposizione.
Sembrerebbe, anzi, che l’atleta non si sia mai (giustamente) sottoposta a test specifici e che, ad ogni modo, i parametri richiesti dal Comitato Olimpico Internazionale (CIO) siano nella norma e adeguati a permetterle di gareggiare nella divisione femminile.
A sostegno della pugile algerina si schiera anche la SIE (Società Italiana di Endocrinologia) che, come riportato da ValigiaBlu, rilascia un breve ma efficace comunicato: “In mancanza di adeguate informazioni cliniche non è possibile essere certi che sia questo il caso di Imane Khelif, l’atleta algerina che si sarebbe dovuta confrontare con la pugile italiana Angela Carini alle Olimpiadi in corso a Parigi, anche se è assai probabile. Non dovrebbe essere necessario ricordare che questioni di tale delicatezza dovrebbero essere affrontate solo su basi scientifiche e culturali adeguate, rinunciando a pregiudizi e posizioni ideologiche e non rendendole oggetto di speculazioni politiche”.
Chiamata in causa, anche la comunità intersex prende parola ma viene subito insabbiata da influencer di dubbia credibilità che paragonano la disforia di genere a un bambino con una crisi di mezza età al contrario.
Questa combinazione letale di intolleranza, disinformazione e malizia ricorda molto quel matto indovinello: “Alice, cosa hanno in comune un corvo e una scrivania?”. Assolutamente niente.
E forse sì, forse tutte queste cose sono completamente scollegate tra loro, oppure c’è un’origine comune alla base di questo rocambolesco – per non dire svilente, irragionevole – maremoto: e cioè una grande ignoranza in merito a questioni vitali quali queerness e identità di genere, puntualmente strumentalizzate da politica e giornalismo per fare engagement e rafforzare il proprio consenso sulla pelle delle persone, mettendone a repentaglio la salute fisica e mentale.
Lo spettro del sesso
In merito al caso Khelif – Carini, la comunità italiana intersex ribadisce che Khelif, avendo soddisfatto i requisiti stabiliti dal Comitato Olimpico Internazionale, inclusi i livelli di testosterone, è risultata idonea alla competizione di boxe femminile. Ma andiamo per ordine. Come già detto, né Khelif né altri documenti clinici attestano che lei sia una donna intersex.
L’ipotesi nasce dall’esclusione della pugile dai Campionati Mondiali di Boxe nel 2023 a seguito di un comunicato rilasciato dall’IBA (International Boxing Association) in cui si afferma che la pugile sarebbe stata sottoposta ad un test che ‘‘ha indicato con certezza che entrambe le atlete (Khelif e la Taiwanese Lin Yu-ting) non soddisfacevano i necessari criteri di idoneità e sono risultate in possesso di vantaggi competitivi rispetto alle altre concorrenti femminili” e ancora, a detta del direttore esecutivo dell’IBA Chris Roberts, il test “avrebbe rivelato che nel DNA sono presenti anche cromosomi XY (e non solo coppie XX, che contraddistinguono le “biologicamente donne”), ma poiché erano coinvolti diversi filamenti, non è possibile definire le atlete come “biologicamente maschi” ”. Qui, per evitare la diffusione di fake news, bisogna chiarire che la questione dei filamenti non sta in piedi, nel senso che non vuol dire proprio niente. Le tipologie di coppie di cromosomi sessuali sono (solitamente) 2: XX o XY, con varianti che danno luogo ad uno spettro di casi ma che sicuramente non coinvolgono presunti sfilacciamenti o pezzi di DNA in giro per le cellule.
A tal proposito, lo stesso Comitato Olimpico Internazionale ha messo in discussione la veridicità dei presunti test, di cui non si conoscono né protocolli né l’accuratezza, dimostrando l’infondatezza di queste “accuse” – per inciso, parlare di “accuse”, in questo caso, è alquanto disturbante: in che senso definire una persona intersex si tratterebbe di un demerito o di una colpa? Ovviamente non lo è, ma la narrazione mediatica ed il linguaggio scelto per descrivere il caso specifico hanno determinato l’identificazione di Khelif nella nemica contro cui difenderci.
Back to basics: un paio di definizioni scientifiche
Innanzitutto, cosa significa essere una persona intersex? E perché, se anche fosse, ciò non rende ovviamente legittimo un accanimento mediatico e una strumentalizzazione politica di questo tipo?
Nel tentativo di fare un po’ di ordine, la scienziata e divulgatrice Antonella Viola definisce che il sesso biologico è determinato da un insieme di fattori quali i cromosomi sessuali, il quadro ormonale e le caratteristiche fenotipiche sessuali primarie e secondarie. Si capisce quindi come, intrinsecamente, il sesso si manifesti non attraverso categorie immutabili e ben definite, ma attraverso un ampio spettro di casistiche. Le persone intersex possiedono variazioni di tali caratteristiche che non rientrano perfettamente nel binarismo di genere (che distingue “maschile” e “femminile”) e si identificano come donne, uomini, persone non-binary e/o transgender. Spesso, durante il corso della loro vita, subiscono decisioni non consensuali, come operazioni chirurgiche per rimuovere organi o parti di essi, con la pretesa di normalizzare i loro corpi ma con l’unico effetto di danneggiarlǝ pesantemente dal punto di vista fisico, psicologico e sociale, come ribadisce la comunità intersex.
Quindi no, Khelif non è una donna intersex e, comunque, non dovrebbe importarcene.
La strumentalizzazione politica della condizione di Khelif, usata come una pedina dai vertici del Governo Italiano allo scopo di fare audience e risvegliare uno pseudo-orgoglio patriottico ai danni della salute psicofisica dell’atleta, è semplicemente inaccettabile.
Khelif – e con lei tutte le soggettività e i corpi che sfuggono alla norma – è stata oggetto di una violenza mediatica crudele e irrispettosa che, oltre a mostrare la cattiveria e l’intolleranza di cui siamo capaci, ha anche dimostrato la problematicità del concetto di conformità in cui spesso ci rifugiamo.
Come evidenzia Giulia Paganelli, la retorica della conformità è un prodotto artificiale e culturale che esiste in contrapposizione al suo contrario, cioè la non-conformità o il mostruoso. In quest’ottica, conforme è tutto ciò che rientra in canoni e categorie ben definite, legittimando il ripudio violento verso chi o cosa in questi schemi non può e/o non vuole starci.
Così, definiamo ciò che è naturale e ciò che è mostruoso in contrapposizione, senza la volontà di comprenderne la matrice comune (siamo tutti essere umani), senza il coraggio di accettarne l’inconsistenza.
Di uomini, donne e altre creature fantastiche
Va detto che l’infelice Khelif-gate, nella sua violenza mediatica raccapricciante, ci ha quantomeno offerto un importante spaccato in materia di queerness (dove con queer si intende un termine ombrello di matrice politica rivendicato da chi rifiuta le tradizionali identità di genere e le categorie dell’orientamento sessuale), permettendoci di allargare la lente dell’analisi oltre il ring.
Al di là della questione prettamente atletica, c’è una domanda urgente che continua instancabilmente ad echeggiare: quanti cassettoni Ikea dovremo ancora acquistare prima che la nostra mania di incasellamento finisca?
Abbiamo capito che il sesso biologico, per sua natura – e lo dico chiaramente –, è uno spettro che sfugge al binarismo di genere socialmente e culturalmente imposto. Certo, in alcune circostanze può essere comodo avere due categorie invece che un insieme fluido di caratteristiche che si contaminano vicendevolmente e i cui confini sono sbiaditi, ma la vicenda di Khelif dimostra proprio il tracollo di questa ossessiva tendenza – a tratti ormai persecutoria – di voler ordinatamente riporre le persone in specifici cassetti: uomini, donne o altre creature fantastiche. Eppure lo sappiamo che siamo ben più complessǝ di un’etichetta, no? Altrimenti avremmo già ben pensato di stamparci dei codici a barre in fronte o qualcosa di simile.
Venire a patti con la nostra intrinseca complessità, a tratti contraddittoria, è un processo che sicuramente ci spaventa, a tal punto che pensiamo sia intelligente definire in modo artificiale ciò che è naturale e, viceversa, additando ciò che è naturale a mostruoso. Tutto per cosa? Probabilmente per averne il controllo, o quantomeno l’impressione.
Bisognerebbe capire però che, a volte, ridurre le variabili e semplificare le condizioni non basta e non serve a farci stare realmente meglio.
Mi piace pensare che l’essere umano (ma direi tutto l’esistente) sia un sistema complesso, che in matematica viene definito come un sistema dinamico costituito da sottosistemi interagenti le cui componenti non possono essere interamente risolte in modo analitico con le loro interazioni. Tutto un concetto complicato per dire che non si può avere la pretesa di poter risolvere e controllare tutto.
Quindi, la matematica ci insegna che a volte sarebbe più utile fare uno sforzo empatico, ponendosi in ascolto nel tentativo di intuire la complessità di chi ci circonda e che, se ci fermiamo un attimo, ci accorgiamo esistere anche dentro di noi. Spesso scegliamo di denigrare chi, in modo più o meno manifesto, non entra in un cassetto solo perché abbiamo paura di accettare che neanche noi riusciamo ad entrarci, sfuggendo alla nostra stessa pretesa di conformità e generando in noi un senso di frustrazione che spesso si sfoga violentemente contro le altre persone: in un batter d’occhio, la vita si trasforma in una gara a chi è meno sbagliatǝ.
Per quanto possa sembrare banale, ammettere l’artificiosità di questi costrutti culturali e sociali (il genere, ma non solo) è faticoso, perché significa mettere in discussione tutto il nostro sistema educativo.
Eppure, come sottolinea l’attivista intersessuale Emily Quinn nel suo TedTalk del 2018, la dicotomia di genere uomo/donna è una convenzione che abbiamo costruito nel tempo e, come altre credenze che pensavamo destinate a rimanere cristallizzate nella storia, possiamo abbatterla.
Come canta Chapell Roan “I heard that there’s a special place where boys and girls can all be queens every single day”. Questo posto (per adesso) non è un ring, ma magari possiamo lavorarci, insieme.
Autore
Mi chiamo Alice e c’ho un’anima un po’ scissa. Tra le altre cose, sono una neuroscenziata della Scuola Normale. Nel tempo libero oscillo tra attivismo, femminismo intersezionale e misantropia disillusa. Odio gli indifferenti e credo che dovremmo proprio smetterla di imporre inutili confini al nostro animo in continua espansione.