Il “de-sexualization movement” e la necessità di ripensare il discorso sulla promiscuità del corpo umano

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Con processo di sessualizzazione (dall’inglese sexualization process) intendiamo il modo in cui determinati oggetti, persone, parti del corpo umano vengono investiti di una carica “sessuale”, di un potenziale erogeno. Non stiamo parlando di qualcosa di marginale del dibattito filosofico, ma di un processo umano che esiste sin dall’evoluzione dei primi ominidi (e probabilmente anche prima, nel mondo animale). In psicologia la sessualizzazione ha due accezioni: lo sviluppo sessuale degli elementi genitali e l’eccitamento sessuale indotto (solitamente culturalmente, dalla stampa, dai media, dalla pubblicità, dalla società). 

Dunque, anche quando crediamo di essere totalmente liberi e svincolati nelle nostre fantasie sessuali, in realtà risentiamo di numerosi flussi e in-flussiculturali e sociali. Quello della sessualità, insomma, si svela essere il campo più pubblico e comune che ci sia. Un vero e proprio paradosso, se pensiamo che in Italia è d’uso definire il sessuale con accezioni del tipo “la sfera del privato” o “l’intimità”. 

Abbiamo appena scoperto che il processo di eccitamento è istigato. Notizia sconvolgente? Forse a primo impatto, perché in realtà, se ci mettiamo a riflettere, stiamo tirando in ballo un concetto molto banale che notiamo subito avere dei forti connotati storici, facilmente identificabili. Ma procediamo per gradi.

Che cosa sono le zone erogene? La scienza ci viene incontro: alcune parti del nostro corpo, stimolate, generano piacere per via dell’accumulo di terminazioni nervose e di ghiandole ormonali, funzionali alla riproduzione. Sin da subito è stato però evidenziato, durante gli studi medici e poi psicoanalitici in materia, come numerose zone siano da considerarsi erogene nonostante esse non abbiano un collegamento diretto con la funzione riproduttiva dell’uomo.

Il discorso si intreccia a questo punto con il filone storico, culturale e, dunque, anche psicologico. Se è infatti risaputo che l’irrazionale va alla ricerca del proibito, non è difficile comprendere il perché di alcuni pensieri tanto eccitanti: il seno femminile, i piedi, le natiche, l’ombelico, le ascelle, i fianchi e così via. Alcune parti del corpo hanno solitamente più fortuna di altre quando si parla di fantasie sessuali e questo è dovuto al fatto che per secoli la tradizione occidentale ha diffuso il messaggio che fosse “decoroso” coprire tali aree. Pena? La scostumatezza (e in molti casi, per le ragazze inadempienti, una “A” sul petto, aggiungerei). È da qui che nasce la maggior parte delle fantasie maschili, legate quasi sempre all’immaginario del mistero, l’immaginario del “ciò che si nasconde sotto il vestito lungo (o sotto il burqa)”. 

Stiamo parlando di un vero e proprio processo di sessualizzazione storica, un processo tramite il quale il corpo della donna è andato sempre più, anno dopo anno, a connotarsi come una costellazione di tensioni irrisolte, una stratificazione mistica di non-detto. Ogni qual volta una di quelle “aree proibite” veniva svelata agli occhi dell’uomo, dunque, quella stessa area andava assumendo una carica sessuale altissima, non tanto dovuta ai dettami della biologia, quanto più rinforzata dalla trasgressione di una regola coercitiva repressiva della libido umana. Di questo insieme di idee la donna è stata, ed è ancora ora, vittima inerme.

Il processo di sessualizzazione nella storia non ha fatto altro che rinforzare alcuni tabù sociali che si ramificavano sull’idea di una donna il cui corpo fosse mistero segreto, un caso mai pienamente risolto, una scoperta, qualora per alcuni avvenisse, mai pienamente condivisibile. Negli ultimi anni l’opera di rivelazione del corpo femminile in Occidente ha preso piede, iniziando una graduale liberazione di tutte le donne da alcune reticenze patriarcali. Ma c’è altro: dobbiamo considerare che la sessualizzazione di alcune zone del corpo femminile non è stata accompagnata dalla sessualizzazione delle stesse zone nel corpo maschile. È così che il capezzolo della donna assume una valenza simbolica ricca di connotazione erogena mentre, il più delle volte, non avviene per quello maschile. Questa distinzione culturale e storica ci fa capire che, dunque, l’idea di sessualizzazione intesa come l’erotizzazione di parti del corpo è ricca di discriminazioni e differenze di trattamento. 

Fin qui il discorso ci ha portato a comprendere che l’immaginario erotico dell’uomo, il più delle volte, è legato ad un discorso molto più antropologico e, dunque, culturale, che biologico. È ognuno di noi, nel suo rapporto con la libido, nei suoi movimenti psicologici interni, che decide (spesso sulla base della tradizione, come evidenziato fin ora) che cosa sia rilevante di “fantasia sessuale” e che cosa no. Per me può essere eccitante un piede, per mia nonna un pene, per mio padre un braccio. Allo stesso modo per me può essere non-affatto eccitante un capezzolo, per mia nonna una natica, per mio padre una vulva.

La provocazione di Jean Paul Gaultier nel 2018

Sul finale della mia riflessione, vorrei rispondere alla domanda, che sicuramente alla maggior parte dei lettori sta sorgendo, circa il relativismo non trascurabile di tali affermazioni. Infatti, se accettiamo l’idea che qualsiasi parte del nostro corpo potrebbe essere (o non essere) zona erogena, che cosa distinguerà all’interno di una società tali simboli da altri? È una domanda ostica, perché ci fa sentire tutta l’importanza e la rilevanza che il discorso circa la tradizione ha ancora oggi nel dibattito femminista. Però bisogna ricordare che un’arma contro questo difficile enigma l’abbiamo e sta tutta in una risposta, tutta in una sola parola: consenso.

La nostra relazione con l’altro è una relazione che si basa (e si deve basare) in primis sul consenso, consenso di idee e di emozioni, di valori e di significati: nell’intimità relazionale che si sviluppa tra due persone si va così a creare un linguaggio di decodificazione, di simboli. Un linguaggio in cui ad un ogni referente si lega un significato, proprio come avviene nello studio della linguistica. È in questa sfera simbolica, così, che un pene viene ad assumere il significato sessuale di “zona erogena”, e lo stesso avviene per il seno, per i capezzoli, ma anche per i piedi e via dicendo. Ed è sempre tramite questa sfera che si viene a delineare la differenza tra pubblico e privato, tra ciò che è “dentro” la relazione sessuale e ciò che ne è fuori. E quando siamo nel pubblico siamo fuori. E quando siamo nel letto consumando l’atto sessuale siamo dentro.

Questa è la de-sessualizzazione di cui le donne hanno bisogno: riappropriarsi dei significati legati al proprio corpo, svelando le proprio zone, mostrando che non c’è niente di misterioso in una coppa di reggiseno, ma solo un pezzo di carne come un altro, un mezzo da usare quando e come si vuole. Siamo noi a disporre della sessualizzazione e non è la sessualizzazione che dispone di noi.

Autore

Maria Chiara Cicolani

Maria Chiara Cicolani

Vice Direttrice

Mi sono laureata in Filosofia a Roma. Ho vissuto per un po’ tra i fiordi norvegesi di Bergen e prima di questa esperienza mi reputavo meteoropatica, ora non più. Mi piace la montagna, ma un po’ anche il mare. Il mio romanzo preferito è il Manifesto del Partito Comunista e amo raccontare le storie.

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