La condizione dei riders oggi: un fatto di cronaca o un problema sociale?

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Quando pensiamo a chi ci consegna le pizze a casa abbiamo sempre in mente l’immagine dei giovanissimi, probabilmente ancora immersi negli studi, che si tengono occupati la sera guadagnandosi qualcosa per “arrotondare”. Stando ai dati e ai recenti avvenimenti, però, ci rendiamo conto che quello che sopravvive nell’immaginario collettivo non è altro che un antico stereotipo alquanto superato: oggi i rider sono una classe lavorativa sempre più emergente e tra loro molti considerano quest’occupazione un vero e proprio lavoro a tempo pieno. 

Nonostante personaggi come Antonella Boralevi (La Stampa) vogliano ancora cercare di convincere il lettori di un sogno da cui oggi la maggior parte di noi si è più che destata, il lavoro di chi è impegnato nei servizi di consegna a domicilio è tutt’altro che un “business” florido e vantaggioso, ma costa di sacrifici allo stremo delle forze fisiche e mentali.

Questo è quanto emerge dal racconto di Emanuele Zappalà, 37 anni, che, intervistato per La Stampa, dichiara di percorrere oltre 100 km al giorno per sopperire alla gravità di una condizione economica disagevole causata dalla disoccupazione. Quella di Emanuele è una storia di lotta contro la condizione in cui molti lavoratori precari si ritrovano oggi, aggravata ancor di più dalla crisi economica e dalla pandemia globale.

È in questa cornice che si inseriscono le esperienze dei rider over 40 come Gianni Lanciano, 52 anni, sposato e con due figli, aggredito e rapinato del suo scooter lo scorso 2 gennaio 2021, durante l’orario di lavoro. «Sono un paio di mesi che sto facendo il rider perché sono disoccupato e non posso stare fermo»aveva dichiarato, probabilmente in risposta alla generale incredulità per la sua età.

Guardando alle statiche Inps, però, ci accorgiamo che i “Gig workers” (lavoratori che svolgono mansioni “occasionali”) sono una fetta sempre più importante del nostro settore lavorativo e, per lo più, trascurata dalla legislatura in Italia come in Europa. Per la maggior parte non si tratta di un lavoretto saltuario: il 40% degli impiegati nel settore lavorano più di 4 ore al giorno (nel 2017 era solo il 25%) e la fascia di età 35-50 rappresenta il 31% degli impiegati.

Anche i dati sui titoli di studio è alquanto interessante, se pensiamo che il 30% è in possesso di una laurea di primo livello e il 20% di una laurea di secondo livello. È il 2% degli impiegati ad essere in possesso della sola licenza elementare.

Ma, nonostante l’aumento dei Gig-workers e le rivendicazioni degli stessi ad essere più considerati nel rispetto dei diritti dei lavoratori, le condizioni degli impiegati nel settore sono tutt’altro che idilliache: le paghe si aggirano attorno agli 800 euro al mese per chi lavora “a tempo pieno”, e, stando a delle ricerche delle Acli, il rischio di incidenti è elevato. Inoltre, molti sono i lavoratori che si lamentano delle nuove clausole contrattuali, imposte dalle piattaforme negli scorsi mesi: «All’inizio con Deliveroo venivo pagato in media 5 euro a consegna, adesso invece con il nuovo contratto i soldi sono diventati 2,75 per tutte le piattaforme Assodelivery. Praticamente la metà. Inoltre, mentre prima potevo lavorare fino a 40 ore settimanali, adesso invece le ore sono diventate 20», dichiara Angelo in un’intervista rilasciata per Il Centro, intento a spiegare le direttive di un contratto che non prevede neanche diritti lavorativi minimi come ferie, straordinari e indennità.

È per questo che il caso di Gianni Lanciano deve essere letto come un problema di estrema urgenza, politico e sociale, e non come un piccolo evento isolato di vandalismo organizzato, di quelli che se ne parla per qualche mese ai pranzi della domenica e che poi, dopo le prime ingenti donazioni di beneficenza alla causa, vengono cancellati dalla memoria collettiva. L’interpretazione che i media hanno proposto dell’evento è stata soprattutto veicolata attorno alla necessità di colpire i piccoli delinquenti di periferia, di “rieducare” i ragazzi (e, talvolta, con toni ancor più discriminatori, “i ragazzi napoletani”), responsabili di atti vandalici, nonostante i dati ci dicano molto di più. Una lettura mediatica che, ancora una volta, si fa espressione di quella necessità di trovare un capro espiatorio ai nostri mali sociali in cui consolarci, permettendoci così di riaddormentarci nel profondo sonno del “non-vedo-non-sento”. È questo il paradigma che vuole alimentare Antonella Boralevi, figlia di notabili toscani, ed è sempre questo il paradigma che vuole ripetere Giuseppe Cruciani, con la sua dichiarazione che, più che indignazione, solleva il desiderio di capire che cosa voglia dire oggi vivere in una società come la nostra. Dichiara Cruciani nel suo programma La Zanzara: «Piuttosto che fare il rider a Napoli vado a sparare ai palestinesi col Mossad».

Quello che in questa sede si sente la necessità di fare, allora, è proporre una lettura diversa, una lettura che inviti a collegare fra loro le vite di Gianni, Emanuele, Angelo, secondo un filo conduttore che tocca milioni di lavoratori precari a cui viene tolta la voce: allargare la veduta, spingersi al di là del singolo fatto di cronaca e interpretare i dati, dati che altro non sono che persone umane, vive, portatrici di diritti e di doveri.

Lo sciopero dei ridere a Milano

La disoccupazione in Italia sta spingendo sempre più cittadini ad optare per soluzioni “alternative”, che comprendono il trovare un impiego scarsamente retribuito, univocamente gestito negli interessi dei grandi imprenditori e dove i sindacati difficilmente riescono a permeare ponendo un freno ai colossi dell’home-delivery.

Autore

Maria Chiara Cicolani

Maria Chiara Cicolani

Vice Direttrice

Mi sono laureata in Filosofia a Roma. Ho vissuto per un po’ tra i fiordi norvegesi di Bergen e prima di questa esperienza mi reputavo meteoropatica, ora non più. Mi piace la montagna, ma un po’ anche il mare. Il mio romanzo preferito è il Manifesto del Partito Comunista e amo raccontare le storie.

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