Come Roma diventa Roma

Viaggio nelle fasi fondamentali della stratigrafia architettonica della Capitale

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Roma è una delle città storicamente e architettonicamente più interessanti d’Europa e del mondo. So benissimo di non aver scoperto l’acqua calda ma sono quasi sicuro che questo dato sia spesso dato per scontato erroneamente. Spesso chi vive la città e la visita ignora che Roma non è eterna solo per le viste romantiche dei grandi monumenti antichi o per il susseguirsi di scorci tipicamente barocchi ma anche per molte architetture meno conosciute che nel corso delle varie fasi storiche ne hanno cambiato radicalmente la morfologia urbana. 

Dall’antichità fino ad oggi edificare a Roma ha infatti significato aggiungere livelli di costruito a una stratigrafia che racchiude indizi preziosi sullo sviluppo del tessuto cittadino nel corso dei millenni, con passaggi non scontati ma che si possono ritrovare attraverso le architetture tipo di ogni periodo. 

I resti antichi compongono il sostrato sul quale si poggiano le zone centrali di Roma e testimoniano una città che ha il ruolo inconfutabile di capitale amministrativa. Gli edifici pubblici sono il fulcro dell’Urbe, non solo per le funzioni che ospitano ma anche per il potere che rappresentano. Sono infatti monumenti maestosi, connubio perfetto di tecnica ed estetica. L’importanza della funzione pubblica di questi edifici giustifica l’esproprio di vaste zone già densamente costruite e l’”atterraggio” di strutture dalle forme euclidee, di dimensioni enormi, con un impatto che oggi probabilmente paragoneremmo a quello di un ecomostro, ma che all’epoca si sono integrati l’un l’altro formando una scacchiera continua. 

Un esempio rappresentativo di questa tipologia è sicuramente il complesso delle Terme di Diocleziano, aperte nel 306 d.C. in una zona altamente popolosa fitta di insulae che corrisponde all’area antistante l’odierna stazione Termini. Un complesso di dimensioni enormi che permane ancora oggi attraverso tracce visibili della sua esistenza anche nelle parti andate distrutte, dando per esempio forma agli edifici di Piazza della Repubblica che per economia strutturale si addossano ai resti dell’esedra delle terme per garantirsi fondazioni vantaggiose e sicure.

L’edificio delle Terme di Diocleziano

Quel che resta oggi dell’Urbe romana: le insulae

Con la caduta dell’Impero Romano e la graduale e inevitabile rovina delle grandi strutture pubbliche, l’edilizia spontanea inizia a delineare una nuova forma di città. L’abbandono dell’Urbe fa sì che gli spostamenti di chi rimane in città avvengano non più attraverso il tessuto squadrato delle strade e piazze romane ma attraverso la spontaneità del percorso più diretto e agibile. Tra macerie e vegetazione incolta si delineano i sentieri che con il tempo diventeranno le strette vie del centro storico. 

Durante il Medioevo, infatti, nasce la tipologia abitativa più comune di Roma: la casa a schiera, destinata a forgiare un centro storico di vicoli che si susseguono lasciando spazio ogni tanto a scorci di piazze. Per casa a schiera non si intende la villetta ripetuta in serie quasi infinite che tanto abbondano nelle nostre periferie, bensì una schiera di case che per economia strutturale condividono i muri di spina. 

È molto facile riconoscerne la versione matura: tre piani fuori terra (se sono di più è probabilmente un accrescimento successivo); un portone di bottega; una porta d’accesso a un vano scale; un marcadavanzale a scandire le altezze e infine due finestre per piano, incorniciate con semplicità e sempre addossate ai muri di spina.

L’insula romana dell’Ara Coeli, in via del Teatro di Marcello

Si potrebbe girare per ore i vari rioni del centro avendone sempre in vista un esemplare. Il fattore che caratterizza la nascita di questi edifici è l’economia di spazio e di materiale che viene declinata nei modi più deliziosamente spontanei, tipici di un’età povera come il Medioevo. Spesso queste case sfruttano le strutture rimaste dai crolli dei maggiori edifici romani, come dimostrano gli edifici cresciuti addossandosi al teatro di Pompeo. Iniziano la loro vita come cellule minimali dalle dimensioni vincolate alla lunghezza delle travi di legno (6 m circa) per poi accrescersi prima in altezza, aumentando il numero dei piani, poi in lunghezza, costruendo un portico, poi ancora riempiendo tutti i vuoti rimasti.

Per sfruttare al meglio lo spazio, le finestre vengono allontanate il più possibile, così da poter realizzare, all’evenienza, due stanze da un ambiente unico. La tecnica e l’estetica dei Romani lasciano spazio a edifici che sembrano rifarsi al motto “Si fa quel che si può con quel che si ha”. Ma portando con sé una dignità intrinseca notevole se non per struttura, almeno per il merito di aver dato forma a uno dei centri storici più suggestivi al mondo. 

Questa tipologia di casa per ceti modesti è talmente vincente da venir riproposta in numerose declinazioni fino al XIX secolo quando, con l’unità d’Italia, si assiste a innesti alieni al tessuto della città papalina.

Dopo l’Unità: la Roma torinese

Roma diventa capitale d’Italia e necessita quindi di strutture capaci di ospitare le funzioni amministrative tipiche di una capitale, nonché di spazio residenziale adeguato all’élite di importazione torinese. Nell’ottica sabauda queste esigenze si risolvono attraverso un poderoso restyling della struttura urbana con sventramenti, riconversioni di palazzi storici (esclusivamente non religiosi), e con la creazione di nuovi quartieri a saturare terreni volti all’agricoltura ancora presenti all’interno delle Mura Aureliane. 

Il quartiere sviluppato dal Colosseo all’Esquilino, fino alla basilica di Santa Croce in Gerusalemme atterra infatti come un elemento alieno al tessuto urbano tipicamente romano, con una graticola infallibile di strade disturbata solamente dalla morfologia movimentata del terreno. Gli isolati delimitano le strade con edifici tipici della cultura edilizia torinese. Piazza Vittorio Emanuele II all’Esquilino rappresenta quasi con il suo nome e i suoi portici un’ambasciata sabauda in un territorio appena conquistato. Dal 1870 in poi cambia la cultura edilizia romana e il tessuto urbano che si adeguano sotto spinta reale a quelli delle altre capitali europee cambiando successivamente i confini fisici della città che si spinge fuori dalla cinta muraria per colonizzare il restante terreno agricolo che diventa un fitto alternarsi di nuovi quartieri.

I portici di Piazza Vittorio Emanuele II

Il fascismo: il ritorno agli antichi fasti

Il successivo grande sconvolgimento dell’Urbe coincide temporalmente con il periodo del regime fascista. La città viene trasformata secondo i dettati dell’ideologia mussoliniana che innalza il “Popolo Italico” a discendente diretto dell’Impero Romano, degno dunque della stessa magnificenza che caratterizzava Roma antica nel suo periodo di massimo potere.

Scaturisce, quindi, la necessità di alcuni interventi: il recupero delle antiche rovine in alcune aree del centro storico, nuovi impianti di palazzi e quartieri rappresentativi del nuovo Impero Italiano e una nuova struttura viaria adatta alla città del XX secolo.

Dagli anni ’30 assistiamo quindi a grandi opere di esproprio e demolizione di quartieri quali l’Alessandrino, la Spina di Borgo, l’area attorno al mausoleo di Augusto e molte altre aree più ridotte in dimensioni. La spinta imperiale viene corroborata quindi da nuovi assi viari non necessariamente indispensabili alle esigenze cittadine ma fondamentali per l’ideale espansione della Capitale: da Piazza Venezia verso i monti con Via dell’Impero e verso il mare attraverso Via del Mare.

L’insieme di edifici chiamato Spina di Borgo, abbattuto per far posto a Via della Conciliazione

Anche i nuovi impianti architettonici sono manifestazione di propaganda politica. Dal quartiere E42 al Foro Italico, e ancora dalla città universitaria fino ai più piccoli palazzi amministrativi rivediamo quello che nel barocco era il concetto esasperato di stupire per assoggettare. I palazzi massicci con le loro geometrie e allineamenti vogliono rappresentare la grandezza imperiale.

Un’ideologia così forte da saper enfatizzazione il potere anche in edifici dalle funzioni più modeste. Un grande impegno architettonico viene investito infatti nelle sedi postali sparse per Roma, con due esempi notevoli quali il palazzo di Mario Ridolfi a Piazza Bologna che cela un’ardita struttura in calcestruzzo e l’edificio progettato da Adalberto Libera su Via Marmorata. Quest’ultimo, in particolare, ha l’ardire di ricalcare il modello del palazzo rinascimentale, rivisitandolo con una corte centrale illuminata dall’alto abbracciata da massicce ali in travertino, con interni di particolare cura e pregio. Il potere di un’ideologia per quanto contestabile e pericolosa ha portato in questo caso a una ricerca architettonica e urbana che ha lasciato in pochi decenni un segno profondo nella struttura di Roma.

L’edificio postale di Via Marmorata

La Roma postbellica

La fase di cambiamento edilizio più recente e probabilmente ancora in atto corrisponde all’Italia della ricostruzione postbellica e del miracolo economico. La mancata attuazione della Legge Urbanistica 1150/42 (sostituita da piani di ricostruzione creati ad hoc) e il forte incremento demografico sono i fattori principali dell’inizio di una speculazione edilizia che a Roma, come nelle maggiori città italiane, porta alla costruzione indiscriminata di edifici residenziali, con l’unico obiettivo da parte dei proprietari terrieri di ricavare il più possibile dagli appezzamenti posseduti.

L’attività economica principale diventa la costruzione di residenze. Esplode il fenomeno delle lottizzazioni abusive che assieme all’ abusivismo di necessità portano alla costruzione di quello che oggi è più di un quarto del patrimonio edilizio romano.

Nascono interi quartieri dall’insolita morfologia legata all’appezzamento di terreno lottizzato. Che siano isolati periferici di villette o quartieri di palazzine ai limiti della città consolidata, i fattori che non mancano mai in questi luoghi figli della speculazione edilizia (abusiva e non) sono la totale mancanza di servizi pubblici (non redditizi) e la viabilità stradale ridotta all’osso per massimizzare il terreno edificabile. Questa è l’infelice fase storica nella quale stiamo vivendo e che probabilmente lascerà il segno maggiore nella stratigrafia di Roma. 

Il patrimonio architettonico e urbano della Capitale fortunatamente non si riduce alla fase storica in atto, ma si rigenera con il sovrapporsi di livelli urbani che sfruttano gli strati precedenti come fondazioni per costruire altro; a dimostrazione che Roma non tollera distinzione tra città barocca, città romana, città fascista e via dicendo ma è invece eterna per la sua natura intrinseca di custode e collezionista di una fitta stratigrafia architettonica tra le più preziose e interessanti al mondo con un costante potenziale di accrescimento futuro.

Autore

Friulano, classe 1997. Durante il liceo linguistico ho passato dieci mesi in Texas e non ci sono più tornato. Mi sono trasferito a Roma per l’università, provando Medicina, Economia, Lettere Moderne, per approdare poi ad Architettura. Ho una passione scostumata per l’edilizia storica e amo da poco la montagna.

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