Il discorso di Biden ha senso. Dal punto di vista dell’America

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Che Joe Biden non sarebbe stato ricordato come il presidente più carismatico della storia statunitense, lo si era capito fin dall’inizio: i dibattiti avevano mostrato un uomo di buona volontà, molto preparato, ma messo all’angolo da avversari più carismatici. Prima era stato il turno di Kamala Harris, poi di Donald Trump. Malgrado questo, Biden è stato il presidente più votato in quasi 250 anni di storia, ha alle spalle una lunghissima carriera politica e ha rimesso in piedi in pochi mesi una nazione che sembrava destinata a soccombere sotto i colpi del covid e degli assaltatori di Capitol Hill.

Il rischio, però, è che di lui ci si ricordi per la disastrosa gestione del ritiro dall’Afghanistan. Cosa anche fisiologica: è difficile associare il volto di un presidente a una campagna sanitaria o di sicurezza interna; molto meno a una militare, essendo lui il commander-in chief. A peggiorare tutto, il discorso del 16 agosto. Una debacle comunicativa mostruosa: il Wall Street Journal, in un editoriale firmato dall’intera redazione, dice: «Il comunicato di sabato, con cui il presidente Biden dimostra di lavarsene le mani dell’Afghanistan, merita di essere ricordato come uno dei più vergognosi della storia di un commander-in-chief che deve condurre il ritiro delle sue forze armate» e che «le giustificazioni date lo scorso sabato esemplificano la sua disonestà».

Detto che comunicativamente e strategicamente il presidente ha fatto un disastro e che dobbiamo a tanti profughi afghani un visto per USA e UE, dopo che si sono esposti così tanto per noi, cosa vogliamo dire sui contenuti del discorso? Biden è stato cinico, forse un po’ troppo. Però, a ben vedere, la posizione del Wall Street Journal sembra più una presa di posizione per una questione di principio.

Biden ha ricordato il numero di morti americani nella guerra: 2.311 vittime. Aggiungiamo che i feriti (inclusi quelli che avranno un’invalidità permanente) sono circa 20.000. Numeri bassi, se paragonati alla popolazione americana nel suo complesso. Però questo ha avuto un impatto pazzesco sull’opinione pubblica statunitense: diversi sondaggi, alla vigilia della “riconquista talebana”, restituivano il quadro di un consenso altissimi per il ritiro. Nel mentre, l’agenzia di sondaggi Gallup fotografava un testa a testa fra chi pensava che la guerra afghana fosse un errore e chi una buona scelta: 46-47%. Nel 2001 i favorevoli erano il 93%. Anche dalle parti di Kabul la popolarità degli eserciti occupanti è in calo: nel 2005, un sondaggio presentava il 90% dell’opinione pubblica contro i talebani e il 77% sollevata per l’intervento americano. A fine 2020, invece, il 46% degli intervistati in un sondaggio voleva gli americani «immediatamente fuori dal loro territorio, appena trovato un accordo coi talebani»; il 33% voleva che restassero. In un clima d’opinione del genere, rilanciare l’intervento in Afghanistan, dopo 20 anni, diventava difficile. 

Per questo, nel suo discorso, Biden è stato indelicato, ma sincero: l’accordo era già stato stipulato da Trump e rinegoziarlo sarebbe stato praticamente impossibile, a maggior ragione con delle truppe americane scarsamente motivate e senza alcun potere reale al di fuori di Kabul. «Gli americani non possono combattere una guerra che gli afghani non vogliono combattere» è una frase un po’ melodrammatica (oltre che prematura): quali afghani non vogliono combatterla? E, in ogni caso, l’esercito che doveva battersi contro i talebani era stato scelto, equipaggiato e addestrato dagli occidentali. Perciò, o c’è stato un errore pazzesco nella valutazione delle forze e nelle persone degli aspiranti soldati, oppure non gli si è dato abbastanza supporto.

Riguardo al fatto che gli Usa «non sono venuti in Afghanistan per portare democrazia, ma per mettere al sicuro il loro paese dal terrorismo», sarebbe interessante sapere cosa ne pensa l’opinione pubblica europea. Sicuramente il discorso di Biden è più credibile delle promesse (poi non mantenute) fatte al popolo afghano da George W. Bush. In compenso, la domanda che noi italiani, francesi, britannici etc… potremmo porci è: noi cosa ci facciamo qui di preciso? 

Ed è proprio questo che dovremmo chiederci sempre di più. In un contesto in cui l’America è sempre più restia a fare il “difensore del mondo libero”, quanto senso ha ancora andargli dietro a livello strategico e militare? Se gli statunitensi provano ad autoconsolarsi dicendo «almeno il nostro Paese è più sicuro», a noi cosa resta? All’indomani dell’elezione di Biden, la presidente della Commissione europea, Ursula Von Der Leyen, e il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, avevano parlato di «Nuovo inizio, rinnovata collaborazione anti-cinese fra americani ed europei». Allo stesso tempo, però, il suo predecessore Trump ha insistito per diversi anni sul fatto che «Se l’Europa non ha voglia di difendersi da sola, perché dovremmo difenderla noi?». A parte le prese di posizione più estreme, un dibattito sul tema esiste anche negli Stati Uniti: di come il rapporto costi-benefici per la difesa dell’Europa sia sempre più sbilanciato per loro e di come manchi una volontà politica forte per ridare slancio alla tradizione militare europea. Le conclusioni sono però troppo lineari per il dibattito culturale italiano: l’UE dovrebbe diventare una potenza militare e iniziare a difendersi da sola in Medio Oriente, Europa orientale, Nordafrica. Allo stesso tempo, però, dovrebbe accettare di dirigere tutta questa forza verso i rivali degli Stati Uniti e accettare di fare da spalla degli USA sul fronte cinese, anche a costo di penalizzare i propri interessi. Una cosa difficile da accettare, anche per un alleato storico come Bruxelles. 

Così, il discorso di Biden è severo ma sensato, sebbene comunicativamente fallimentare. Il presidente è sceso al suo minimo storico di consensi e adesso prova ad aggiustare il tiro, dicendo che gli americani non se ne andranno finché «non verranno evacuate tutte le persone a rischio». Ma è in difficoltà come non mai. In compenso, quello che Biden dice è perfettamente logico rispetto all’interesse popolo americano. Peccato che in gioco ci siano le vite di milioni di afghani e la memoria di tanti soldati europei caduti in battaglia «per proteggere l’America dal terrorismo».

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Amo il data journalism, la politica internazionale e quella romana, la storia. Odio scrivere bio(s) e aspettare l'autobus. Collaboro saltuariamente con i giornali, ma mooolto saltuariamente

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