In questi giorni spopola sul Web la notizia della una nuova docu-serie Netflix SANPA dedicata alla comunità di recupero di San Patrignano. Ma quanti di noi davvero sanno quali e quanti siano i fondi e le risorse che il nostro Stato riserva alla gestione dei servizi per il recupero dei tossicodipendenti?
Ripercorrendo in breve la storia del nostro Paese, potremmo dire che un aumento esponenziale del consumo di droga si è verificato in Europa a partire dagli anni ’70, quando l’eroina viene scoperta e consumata su larga scala dapprima a New York, poi in tutti gli Stati Uniti, fino ad arrivare ai Paesi del blocco occidentale.
Blue Moon: l’inizio della dipendenza
Il clima che si respira è glaciale: una “cortina di ferro”, come la definisce Churchill, è scesa su tutto il Mondo e i giovani sono al centro di questo congelamento del clima politico e sociale. A scattare, inoltre, è un’operazione, passata alla storia come Blue Moon e di cui in pochi ancora oggi conoscono l’esistenza. I servizi segreti sotto copertura si occupano della diffusione, nei Paesi occidentali, di alcune droghe pesanti, in particolare la neo-nata, ma già molto popolare, eroina americana per allentare le “tensioni sociali” provocate dai movimenti giovanili di contestazione. Lo scopo è fortemente politico ed è ben chiaro: distogliere l’attenzione dei ragazzi dalle questioni pubbliche e spostarla su qualcos’altro, qualcosa di più allettante: la droga. Con tutta probabilità, dunque, si trattava di una vera e propria operazione di marketing, con una prima fase di lancio del prodotto che prevedeva la brusca rimozione dal mercato clandestino delle droghe leggere (tra cui marijuana e hashish) e l’inserimento, in seconda istanza, di piccole dosi di eroina a basso prezzo, per indurre i consumatori a spostarsi sull’acquisto del nuovo prodotto. I risultati del Blue Moon arrivano subito, in parte anche dovuti alla disinformazione sulla nuova sostanza che pian piano si va diffondendo in Italia: i consumatori di eroina passano da un numero vicino allo zero nel 1970 a circa 300.000 nella prima metà degli anni ’80.
È dunque già dai primi anni del ’70 che sul territorio italiano ci si inizia a porre il problema della gestione di questa nuova dipendenza, che dà effetti collaterali molto più forti, e crisi d’astinenza molto più acute, rispetto al consumo della cannabis, diffusosi durante i movimenti sessantottini. Il problema del crescente numero di giovani tossicodipendenti viene gestito dallo Stato per lo più sul piano di una lotta legale, lasciando di fatto, per alcuni anni, privi di amministrazione pubblica sia il reinserimento sociale che la cura terapeutica del paziente. Le prime strutture nascono sono per lo più come iniziative private, mosse spesso dallo spirito di fratellanza religiosa di preti appartenenti alla Chiesa cattolica, o dal sentimento di impegno sociale di singoli cittadini.
SerT e metadone
Quest’assenza di un’unità statale in grado di intervenire si fa sentire ancora di più quando, a cavallo tra gli anni ’70 e ’80, compare in Italia un nuovo farmaco, proveniente dagli Stati Uniti, che doveva aiutare le comunità nella cura del paziente affetto da tossicodipendenza: il metadone. Derivato sintetico dell’oppio, il metadone viene creato per funzionare come un sostituto dell’eroina ed alleviare, così, la dolorosa condizione durante il periodo d’astinenza. Con l’introduzione di questa nuova sostanza l’intero sistema di cura, prevenzione e riabilitazione delle persone tossicodipendenti subisce delle trasformazioni, dovute soprattutto all’imminente necessità di nuovi organi statali autorizzati per la distribuzione di tale farmaco: è così che nascono i SerT (Servizi per le Tossicodipendenze). La peculiarità che sin dai primi anni contraddistingue le tecniche terapeutiche di queste strutture in Italia riguarda la forte autonomia di cui ogni singola unità territoriale è dotata. Questo fa sì che, anche a distanza di pochi chilometri, SerT diversi possano adottare modalità d’intervento, a livello locale, profondamente eterogenee. La maggior parte delle famiglie sceglie, dunque, di rivolgersi a strutture private per affidare i propri figli, nipoti, parenti ad operatori che possano occuparsi di una più completa gestione del paziente.
Siamo negli anni di piombo e l’Italia sta intraprendendo una dura politica di austerity, ovvero di risparmio economico ed energetico. Mentre altri Stati europei cercano di gettare le basi per la costruzione di quel Welfare State tanto agognato dopo la fine del Secondo conflitto mondiale, l’Italia brancola nel buio, nel tentativo di gestire un’inflazione alle stelle causata dalla crisi petrolifera e abbracciando il neoliberismo. Il risultato? Investimenti sul sociale praticamente assenti. Il problema della droga è in mano alla Chiesa e, come ancora oggi, il numero delle comunità gestite dall’ambiente ecclesiastico supera quello delle iniziative interamente finanziate dallo Stato.
«Quello che mi è sempre mancato alla fine di ogni percorso in comunità o progetto riabilitativo è stato il reinserimento sociale, nessuno mi ha dato una mano in questa fase e non avere una famiglia alle spalle non ha aiutato» dichiara Vito, 46 anni, in un’intervista per l’Internazionale. Dalle sue parole si respira la storia di chi è stato dimenticato, di chi, in uno Stato democratico, viene lasciato in fondo alla coda. «Non sono un cittadino di serie B». La denuncia di Vito colpisce dritta al cuore, nel profondo. È il cuore di una Repubblica che non ha pensato ai giovani, che non ha protetto, che non ha curato, che non ha gestito. E con Vito tanti altri, troppi altri. Persone che mai come in un momento tanto delicato della loro vita avrebbero avuto (e hanno) bisogno di cure, di attenzioni, di terapie, di mezzi, di sentirsi i primi e mai gli ultimi.
Come potersi fidare, d’altronde, di uno Stato che li ha rimessi alla bontà di qualche “benefattore”, di qualche prete o suora presi dalla voglia di fare della carità? In Italia abbiamo laureati in Scienze dell’Educazione, in Scienze del Servizio Sociale, in Pedagogia, in Antropologia, in Scienze della Formazione, in Psicologia e in Sociologia, persone che vorrebbero svolgere la loro funzione pubblica di operatori per il sociale, di educatori di comunità, e che sono invece obbligati a reinventarsi: «Si sa, sono settori in cui c’è disoccupazione». «Sei stato scemo tu a scegliere un percorso universitario del genere». «Adesso ti becchi il precariato». Di che ci meravigliamo. D’altro canto, come dice Vito, «trovare un lavoro è sempre stato il problema della mia vita».
Autore
Mi sono laureata in Filosofia a Roma. Ho vissuto per un po’ tra i fiordi norvegesi di Bergen e prima di questa esperienza mi reputavo meteoropatica, ora non più. Mi piace la montagna, ma un po’ anche il mare. Il mio romanzo preferito è il Manifesto del Partito Comunista e amo raccontare le storie.