Quante volte lamentandoci di un problema o di una difficoltà ci siamo sentiti ripetere “mantieni un atteggiamento positivo e tutto andrà per il meglio”, “Con un sorriso tutto si risolverà”? Forse quello che non sapevate è che questo tipo di psicologia spicciola ha un nome ed è quello di toxic positivity, ovvero quell’atteggiamento che vorrebbe portarci a credere che non importa quanto una situazione possa essere difficile, noi dovremmo sempre cercare di mantenere un approccio positivo per poterla cambiare o risolvere.
It’s a “good vibes only” approach to life
Kendra Cherry via verywellmind.com
Il problema non è tanto nel credere che la positività possa rendere la vita “migliore”. A creare squilibrio è soprattutto il tipo di collegamento psicologico che in questo approccio viene a stabilirsi tra l’atteggiamento positivo e la soluzione al problema. Infatti, gli esseri umani, nel corso della loro vita, si trovano a dover affrontare una quantità innumerevole di situazioni difficili, situazioni che solitamente ci mettono a contatto con sentimenti spiacevoli e dolorosi, quali sofferenza, noia, tristezza, disagio, frustrazione.
L’atteggiamento dello stay positive è particolarmente nocivo nei bambini
I bambini, durante le varie fasi del loro sviluppo, entrano mano a mano in contatto con le loro emozioni, dalle più semplici, nei primissimi anni di vita, alle più complesse, nella fase finale-adolescenziale. Il saper riconoscere tali emozioni, il saper dar loro un nome, è fondamentale per poter formare un bambino che sappia accettare ogni tipo di contesto sociale di cui si potrebbe ritrovare parte. Se, invece di spiegare che la vita può causare dolore e sofferenza, il genitore insistesse esageratamente sulla necessità di “guardare il lato positivo” e di “sorridere alle avversità”, si potrebbe generare l’effetto di educare un bambino che non sia in grado di accettare il dolore e la sofferenza come parte integrante dell’esperienza umana. Questo, a sua volta, svilupperebbe un effetto ancor più dannoso, ovvero l’aspettativa, da parte del bambino, che da ogni situazione in cui egli si troverà ricaverà necessariamente sentimenti positivi. L’effetto sarebbe quello di un vero e proprio delirio di onnipotenza, ovvero di bambini (e futuri adulti) non in grado di accettare la difficoltà come dolorosa.
La toxic positivity distrugge la relazione interpersonale
Un altro indesiderato effetto dello “stay positive, no matter what” è quello di danneggiare irreversibilmente la relazione umana e sociale. Infatti l’empatia, ovvero la capacità di mettersi nei panni dell’altro, funziona secondo la regola-base della condivisione. Questo significa che quando stiamo male o soffriamo, ciò che ci aiuta davvero nel dolore è la compassione dell’altro, intesa proprio nel suo significato etimologico di com-patire, ovvero sentire-insieme, il poter condividere la nostra emozione. Affinché possiamo sentirci capiti dall’altro c’è bisogno che l’altro si dimostri comprensivo della nostra sofferenza e ci dimostri di essersi ritrovato in una condizione simile, che lo ha fatto soffrire a sua volta. Questo filo che ci lega al dolore altrui fa sì che, durante le difficoltà, possiamo sentirci rassicurati dal fatto che, come noi, anche gli altri soffrano e che sia un evento naturale della vita umana. Il rischio di sentirsi soli nel dolore, che spesso non fa altro che acuire il dolore stesso, viene così sconfitto dalla compassione.
Chi, invece, davanti alla sofferenza altrui risponde con la “psicologia della positività” (“vedi il bicchiere mezzo pieno!”) porta gli altri a sentirsi giudicati, ignorati e diversi.
Un rimedio contro la positività tossica: accettare di dover soffrire
Spesso l’unica soluzione alla sofferenza è la sofferenza stessa. Strano ma vero. Il Buddhismo ce lo insegna da millenni e oggi la psicologia ribadisce che non c’è niente di più corretto: bisogna insegnare ai bambini a soffrire cosicché possano diventare adulti in grado di fare i conti con le difficoltà che inevitabilmente la vita pone. Il negare l’emozione negativa non fa altro che amplificarla e aggiungere uno strato di ansia non necessario al nostro stato d’animo: se ci sentiamo tristi per un fallimento, il negarci il diritto di essere tristi non farà altro che generare un senso di colpa nocivo e, dunque, non ci aiuterà affatto ad interfacciarci con il nostro dolore.
Give yourself permission to feel your feelings. Instead of trying to avoid difficult emotions, give yourself permission to feel them. These feelings are real, valid, and important. They can provide information and help you see things about a situation that you need to work to change.
Kendra Cherry via verywellmind.com
Autore
Mi sono laureata in Filosofia a Roma. Ho vissuto per un po’ tra i fiordi norvegesi di Bergen e prima di questa esperienza mi reputavo meteoropatica, ora non più. Mi piace la montagna, ma un po’ anche il mare. Il mio romanzo preferito è il Manifesto del Partito Comunista e amo raccontare le storie.