«Però se l’è cercata!»; «è stato un gesto goliardico, sono ragazzi!»; «era ubriaca», quante volte abbiamo sentito queste affermazioni per giustificare una violenza sessuale? Troppo spesso le vittime di stupro, oltre al trauma, sono costrette a subire anche le accuse di chi le reputa “colpevoli” o “complici”. Questo meccanismo di colpevolizzazione della vittima è detto victim blaming.
Da pochi decenni la sociologia ha dato un nome a questo fenomeno. Dall’inglese “to blame” ovvero incolpare, il victim blaming rappresenta il fenomeno di colpevolizzazione della vittima in caso di stupro, violenza o femminicidio. Espressione in uso da pochi decenni, ma che in realtà rappresenta un fenomeno ben radicato e da sempre diffuso nella società. Tra tutti i reati, lo stupro è quello che più tende a ritenere la vittima responsabile; talvolta si tende a sminuire la violenza o a dare poca credibilità alle testimonianze di tutte quelle donne che hanno il coraggio di denunciare. Risulta complicato comprendere cosa inneschi questo meccanismo di colpevolizzazione, tra i vari motivi ci sono sicuramente gli antichi retaggi culturali ancora troppo maschilisti. Attribuire però il fenomeno a una tendenza di genere sarebbe troppo riduttivo.
Il caso di Artemisia Gentileschi
Un chiaro esempio di victim blaming è il caso di Artemisia Gentileschi, nota pittrice del seicento; ella rappresenta un’icona femminile di forza e ribellione. Rimasta orfana da bambina, viene cresciuta dal padre Orazio Gentileschi, noto pittore dell’epoca. Grazie al suo carattere anticonformista e alla sua forte personalità riesce ad affermarsi come pittrice in un ambiente prettamente maschile. Il sogno di una brillante carriera, però, le viene spezzato quando a diciotto anni viene stuprata da Agostino Tassi, amico del padre e anch’egli pittore. Artemisia, grazie anche all’appoggio di suo padre, decide di denunciare il suo aggressore, gesto rivoluzionario se consideriamo l’epoca in cui avviene lo stupro. Questa decisione indubbiamente coraggiosa però, come spesso accade anche oggi, non tutela la donna, ma la condanna al disonore.
Artemisia, traumatizzata, è costretta a subire, sotto gli occhi di tutti, un processo ai limiti della tortura, ma nonostante questo non ritratta in nessun modo la sua deposizione. Oltre la tortura fisica, fatta per estorcerle la “verità”, le vengono anche controllate le lenzuola per verificare la presenza di sangue ed accertarsi della verginità della donna e viene sottoposta a imbarazzanti visite ginecologiche. Secondo l’opinione pubblica Artemisia è consenziente e durante il processo, infatti, molte sono le persone che testimoniano contro di lei: c’è addirittura chi l’accusa di rapporti incestuosi con il padre Orazio.
Dopo tutto all’epoca, chi poteva dare conto a una donna che accusava un uomo? E soprattutto Tassi era noto a Roma anche per l’amicizia con il Papa. La vittima prova in tutti i modi a riscattare i suoi diritti di donna e non ritrae in nessun modo la sua deposizione. Nonostante la forza dimostrata però, lo stupro segna per lei un punto di non ritorno: è costretta infatti a ripulire la sua immagine, sposando un uomo che non ama e lasciando Roma. D’altro canto invece Tassi, potendo contare su appoggi e amicizie importanti, uscì da questa vicenda in modo molto più pulito, senza scontare di fatto mai completamente la condanna a 5 anni di esilio e tornando a Roma nel 1613.
La nostra percezione, oggi
L’ISTAT nel 2019 ha divulgato una serie di statistiche, prendendo in considerazione non solo i dati sulle vittime di femminicidio ma anche su “gli stereotipi sui ruoli di genere e l’immagine sociale della violenza sessuale”. Da questa statistica sono emersi dati allarmanti: il 23,9% degli italiani (quasi una persona su quattro) sostiene che il modo di vestire possa essere causa di violenza sessuale; il 15,1% ritiene responsabili tutte quelle donne che al momento della violenza erano ubriache o drogate; mentre il 39,3% addirittura crede una donna se vuole davvero, può sottrarsi a uno stupro. Sono dati chiari, che ci fanno capire quanto sia presente il pregiudizio che addita alla donna la responsabilità della violenza sessuale subita.
La cultura dello stupro rappresenta un grandissimo problema per l’Italia. Gli italiani sono troppo legati a stereotipi retrogradi, secondo cui una donna che si comporta in maniera “esemplare” può evitare la violenza sessuale: il 6,2% degli italiani, infatti, sostiene che le donne serie non vengano violentate e il 10,3% considera false le accuse di violenza sessuale. Questa tendenza a colpevolizzare la vittima, giustificando il carnefice, è l’emblema di una società immersa nella cultura patriarcale.
Il victim blaming è dannoso non solo per la vittima in questione, ma per tutte le donne che ogni anno subiscono stupri e violenze. A causa della “cultura dello stupro” le donne sono sempre più restie nel denunciare e tendono a sentirsi in colpa, non si sentono capite né tantomeno protette. Le vittime di violenza sessuale sono spesso costrette ad affrontare un’Odissea lunga e tortuosa: forse lo stupro è l’unico caso in cui la vittima deve mostrare di essere credibile. Oggi le donne per dimostrare la propria credibilità non sono più sottoposte a torture fisiche, come nel caso di Artemisia, ma a violenze psicologiche sì, come si può capire dai dati Istat citati precedentemente.
Subire uno stupro è un evento traumatico che segna inevitabilmente la vita della vittima, le conseguenze psicologiche, oltre che fisiche, possono essere molte e possono permanere a lungo. Immaginiamo quanto sia difficile, per una donna che è stata violata nella sua intimità e nella sua identità, denunciare o anche solo parlare di quello che le è accaduto. Le vittime temono infatti anche i giudizi di famigliari e amici, hanno paura di sentirsi accusate o di essere sottoposte a domande scomode. Proprio per questo c’è necessità intervenire non solo intraprendendo la via penale, ma investendo nelle scuole e nelle relazioni parentali.
Bisogna agire al più presto, per frenare questa cultura dello stupro e liberare le vittime da giudizi così opprimenti. Per questo dobbiamo impegnarci per produrre un cambiamento, per il bene delle donne e di una società eccessivamente retrograda e caratterizzata da troppi stereotipi.