Sono passati ben cinque anni da quando seguivamo, minuto per minuto, il lavoro dei soccorritori, nel tentativo di salvare i superstiti di una tragedia che ha scosso l’Italia intera. Le ferite, ancora aperte per le terribili perdite di Amatrice, sembrano per un attimo rimarginarsi, quando si vedono sbucare, dalla neve, i bambini sopravvissuti alla strage dell’hotel Rigopiano: Gianfilippo, il primo, che mentre cerca di uscire da quell’enorme trappola continua a ripetere «Sono forte»; Ludovica, che ha perso la scarpetta e vuole ritrovarla prima di riemergere; e, infine, Samuel ed Edoardo, ora orfani di entrambi i genitori, ma questo ancora non lo hanno saputo. La tragedia di Rigopiano mi aveva toccata. Ma non potevo sapere, in quel momento, mentre mi emozionavo guardando il video del salvataggio dei bambini alla televisione, che questa storia riguardasse, in qualche modo, anche la mia famiglia.
La testimonianza del primo vigile del fuoco ad arrivare a Rigopiano
«Mi pare fosse un mercoledì, sì, era un mercoledì, e stavo facendo una passeggiata con il cane. Mi chiamano i vigili del fuoco di Belluno, chiedendomi di andare nel centro Italia, con il gatto delle nevi, per portare del fieno in alcune stalle rimaste isolate a causa della neve, in mezzo alle montagne. Arrivati a Bologna, il caposquadra riceve una chiamata da Roma, direttamente dal Viminale. Bisogna andare subito a Farindola: era venuta giù una valanga su un albergo ma non si sapeva nulla. Non c’erano notizie se ci fossero feriti o morti. Quando siamo arrivati alla prima destinazione c’era molta confusione. Non si sapeva nulla, solo che il soccorso alpino del posto e la Guardia di Finanzia si stavano già dirigendo verso l’albergo. In seguito, siamo partiti anche noi con il gatto delle nevi e abbiamo preso la strada per Rigopiano. Me la ricordo lunghissima, interminabile. Ci siamo imbattuti in questa famosa fila di camion, auto, e diversi soccorsi, tra polizia, finanza e carabinieri, che aspettavano che si pulisse la strada per proseguire. Ma la turbina, posta a capofila, faticava ad andare avanti. Siamo rimasti, quindi, bloccati. Ho pensato: “Io non sto fermo qua ad aspettare.” Ho tirato giù gli sci, gli scarponi, e sono partito. I miei colleghi mi hanno seguito. Eravamo in quattro.»
A parlare è un mio parente alla lontana. Un signore che, quando andiamo nella nostra casa nel bellunese, nel Veneto, è solito passare per un caffè o per portarci il miele che produce. Non potevo immaginare, fino a qualche giorno fa, che Luca Caviola fosse stato il primo vigile del fuoco ad arrivare a Rigopiano.
«Mi ricordo di un rumore. Era il generatore dell’albergo. Funzionava ancora. Che fossimo arrivati lo avevo capito da quel rumore e dalla presenza degli altri soccorritori, ma non da quella dell’albergo, perché dell’albergo non c’era traccia. Avevamo sciato per cinque chilometri più o meno, per arrivare lì e chiederci: “E ora cosa facciamo?”»
Il ritardo dell’arrivo dei soccorsi
Cosa si fa quando si arriva, di notte, in un luogo in cui sai esserci delle persone sotto chissà quanti metri di neve, ma dove non riesci neanche a vedere l’albergo che le intrappola? Persone che, durante la mattinata di quel mercoledì 18 gennaio, si erano spaventate dopo la prima scossa di terremoto alle 10:25 e una seconda scossa alle 11:14 di magnitudo 5.4 della scala Richter. Cosa si fa quando una valanga arriva verso le 17, portandosi con sé centinaia di metri di bosco e si abbatte su un hotel, sommergendolo? Cosa si fa quando nessuno crede alle numerose chiamate dei superstiti Giampiero Parete e Fabio Salzetta e, in seguito, del loro amico Quintino Marcella? Cosa succede quando dalla prefettura rispondono che non sia crollato nulla e che sarà una bufala perché “La mamma dell’imbecille è sempre incinta”? Cosa succede se solo dopo una certa insistenza e la caparbia di Quintino Marcella e di un volontario della protezione civile, Massimo D’Alessio, i soccorsi comprendono l’emergenza del caso, dopo più di due ore dall’incidente? Succede che comunque i soccorritori partono, con Fabio Pellegrini, istruttore di sci alpinismo, che aiuta loro ad arrivare sul posto. Sono già le 4 di notte passate. Il vigile del fuoco Luca Caviola sceglierà di raggiungerli, poco dopo, sciando.
Erano arrivati per primi, è vero. Ma davanti a loro c’era uno scenario inimmaginabile. «C’era neve, mista a cemento, mista ad alberi. A 200 metri più in giù c’erano materassi scaraventati sugli alberi per la forza della valanga. E là ci siamo messi a sondare, a cercare con le sonde. Il primo giorno e mezzo è stato terribile: ad un certo punto abbiamo deciso di scavare a mano. Io buttavo qua, lui buttava là. E abbiamo trovato il tetto. Alcuni soccorritori hanno trovato un cunicolo, con cui hanno creato l’accesso per arrivare alla stanza del biliardino: la stanza dei bambini. Continuavo a pensare che si fossero salvati solo perché erano andati lì a giocare. Continuavo a pensare che, probabilmente, si sarebbero salvati tutti se fossero andati giù nella “beauty farm”. C’era una piccola piscina lì sotto, dove ogni tanto noi soccorritori andavamo a riscaldarci.»
Il caso della salvezza
E qui entra in gioco il caso. E tu, dove ti saresti posizionato? Cosa avresti fatto dopo due scosse di terremoto? Avresti mai pensato che, raggiungendo una piscina o andando a giocare al biliardino, saresti sopravvissuto? O forse ti saresti seduto su una poltrona ad aspettare i soccorsi? «La cosa più impressionante è che sono stato io a tirar fuori le ultime quattro vittime. E questa immagine mi è rimasta impressa. Erano tutte sedute sulle poltrone in pelle: marito e moglie; marito e moglie. E uno aveva ancora le mani messe a X, incrociate, davanti alla faccia, come per cercare di ripararsi. Così sono rimasti. E così li ho ritrovati. Sono immagini che ti rimangono in testa: parti per una cosa semplicissima, portar del fieno, una cosa quasi divertente e invece ti ritrovi a cercare un albergo, sotto una montagna di neve, cemento ed alberi. Sono immagini che rimangono in testa. È stata l’emergenza più dura. Non la dimenticherò mai. Non li dimenticherò mai.»
Autore
Cresciuta nella campagna piemontese, a Rivalba, ( ti giuro, esiste! ), con la scusa di studiare lettere ho vissuto nella calorosa Roma e nella raffinata Parigi. Scrivo grandi storielle letterarie, ma scrivere il presente e il suo divenire, beh, quella sí che è una gran bella storia che vi vorrei raccontare.