Esistono dei momenti nella storia che fungono da cesura, come una linea di demarcazione al di là della quale nulla sarà più come prima. Nell’Italia del Secondo dopoguerra, di questi momenti ce ne sono stati e come, ma tutti drammaticamente legati, in qualche modo, con ciò che successe quel pomeriggio del dicembre 1969. È l’attentato di Piazza Fontana, quindi, che segna l’inizio della Strategia della tensione: una serie di attentati avrebbe sconvolto il Paese e avrebbe creato i presupposti per un Colpo di Stato, che in alcuni ambienti – extraparlamentari e non – era tutt’altro che una chiacchiera da bar.
Gli ambienti extraparlamentari, appunto. Come sappiamo, l’attivismo politico, giovanile, operaio e studentesco, aveva raggiunto vette incredibili nel biennio ‘68/’69, e qualcuno, in quella bomba, vide la fine dei suoi sogni. Altri, però, al proprio sogno rivoluzionario – pieno, certo, di utopie e contraddizioni, ma anche consapevole di una realtà estremamente conflittuale – non vogliono rinunciare. Mario Moretti, capo storico delle Brigate Rosse, nel suo libro-intervista a Carla Mosca e Rossana Rossanda, commentò quell’attentato dicendo che «le bombe di Piazza Fontana tolgono ogni illusione su uno sviluppo lineare e pacifico delle lotte».
Per la prima volta si percepisce dunque che la strage è di Stato, che, per qualcuno, diventa dunque una sorta di nemico. E nell’impossibilità di garantire una verità ufficiale su quella strage, molti gruppi prenderanno le armi e ne cercheranno una propria.
Piazza Fontana, per sommi capi
Per capire l’eredità di questo attentato bisogna però cercare almeno di ricostruirlo. Era il 12 dicembre del 1969 quando alle 16:37, nella Banca dell’Agricoltura di Piazza Fontana, a Milano, esplose una bomba che causò, complessivamente, 17 morti e 88 feriti. Contemporaneamente a Roma esplosero altre due bombe: una in Via Veneto e l’altra al Milite ignoto. Nessun morto, ma i feriti furono 16.
Le indagini si orientarono subito verso i circoli anarchici: fu arrestato Pietro Valpreda, anarchico romano, e un ferroviere milanese di nome Giuseppe Pinelli, animatore del circolo anarchico milanese Ponte della Ghisolfa. Proprio Pinelli, la notte tra il 15 e il 16 dicembre, durante gli interrogatori che si svolgevano ininterrottamente dalla notte della bomba, volò dal quarto piano della Questura di Milano.
In verità ben presto l’indagine sulla pista anarchica iniziò a sgretolarsi: emerse, invece, l’ombra dell’eversione nera veneta legata a Franco Freda e Giovanni Ventura, questo ambiguamente legato a Guido Giannettini, informatore del SID.
Il neofascismo, trame oscure che confondono lo scenario e riconducono direttamente ai servizi segreti, depistaggi. Le istituzioni repubblicane nel 1969 erano sull’orlo del collasso, anche a causa di un iter giudiziario che si sarebbe trascinato per anni e con colpi di scena assurdi. Nel 1987 la Cassazione confermerà l’assoluzione per Freda e Ventura per il reato di strage. Quando nel 2005 viene riconosciuta ufficialmente la responsabilità dell’estrema destra in quella circostanza, riconoscendo nel gruppo di Ordine Nuovo gli esecutori della strage, non si poté procedere per un principio giuridico chiamato Ne bis idem: significa “non due volte per la stessa cosa”, e visto che nell’1987 Freda e Ventura erano stati assolti in via definitiva, non poterono più essere processati per quel fatto.
La sintesi, quindi, qual è? Che si può constatare la responsabilità ideologica della strage, ma non si può affatto dire chi è stato a mettere la bomba. L’anaforico Io so di Pasolini suggellerà l’incomunicabilità di quel drammatico avvenimento.
Chi è convinto di sapere?
Ma torniamo agli extraparlamentari, alla loro percezione dell’attentato. I militanti di Lotta Continua assunsero le posizioni più radicali e iniziarono una feroce campagna condotta dalle colonne del loro giornale contro il Commissario Calabresi, dal momento che l’anarchico Pinelli precipitò dalla finestra del suo ufficio. Gli epiteti che gli vengono rivolti parlano da soli. Viene chiamato Volo d’angelo, o descritto come un Marine dalla finestra facile. Un clima di tensione che ha il suo culmine nel maggio 1972, quando il Commissario viene ucciso sotto casa.
Adriano Sofri, ex leader di Lotta continua, condannato a 22 anni di carcere come mandante dell’omicidio Calabresi, forse un po’ grossolanamente dice che la strage di Piazza Fontana privò il movimento della sua innocenza.
Ma un passaggio ulteriore lo possiamo registrare solo leggendo i pensieri di chi, il giorno dopo la bomba, abbracciò la lotta armata: se Alberto Franceschini – ex appartenente al nucleo storico delle BR e tra i fondatori dell’organizzazione – disse che la loro violenza era da inquadrare come «una risposta a dei morti che c’erano stati precedentemente e a cui nessuno aveva dato risposta», Alfredo Buonavita, altro Brigatista della prima ora, dà una ricostruzione ancor più precisa. Dice, intervistato molti anni dopo, innanzitutto che quella bomba ha avuto un ruolo determinante nel passaggio al terrorismo e che, da un punto di vista strettamente soggettivo, ancor prima di entrare nelle BR, «da quel momento [decise] che avere in tasca una pistola non era più un reato. Non da brigatista, ragionavo da operaio di fabbrica iscritto al Pci e alla Cgil.»
Se la strategia della tensione nasce quindi come argine e risposta all’avanzamento dei processi sociali di fine anni ’60, e al sempre maggiore ingrandimento del Pci come interlocutore politico, chi scendeva nelle piazze inizia a considerare l’ipotesi che armarsi non è più un reato, ma una misura necessaria per rispondere a uno scontro che, ormai, generava non solo tensione ma anche morti.
Uno slogan molto diffuso, all’epoca, diceva infatti che «lo Stato non si cambia, si distrugge». Ogni momento, ogni corteo, ogni dichiarazione, ogni volantino, sembrava non far altro che alzare la tensione, fino a che la bomba non scoppiò davvero. Fino a che la linea di demarcazione non fu superata. Da lì in poi, gli schemi della militanza politica, per molti gruppi, sarebbero cambiati per sempre: gli ingredienti per entrare nei sanguinosi anni ’70, ormai c’erano tutti. E nessuno sarebbe più potuto tornare indietro.
Autore
Francesco, laureato in Lettere, attualmente studio scienze dell'informazione, della comunicazione e dell'editoria. Approfitto di questo spazio per parlare di politica e di dinamiche sociali. Qual è la cosa più difficile da fare quando si collabora con un magazine? Scrivere la bio.