Nel 1840 Flora Tristan, scrittrice e attivista francese di origini peruviane, pubblicò Promenades dans Londres. Si tratta di un testo di denuncia sociale riguardante lo sfruttamento della classe operaia e la condizione femminile nel contesto lavorativo. Descrivendo i bassifondi londinesi e promuovendo l’ideale socialista della lotta di classe, Flora Tristan anticipò di alcuni anni sia l’analisi prodotta da Engels nel 1845 in La situazione della classe operaia in Inghilterra, che i capisaldi della rivoluzione proletaria diffusi dal Manifesto di Engels e Marx nel 1848. Tra il 1888 e il 1889 Constance Lloyd, giornalista, attivista e scrittrice inglese, diresse il giornale Gazette per la Rational Dress Society di Londra, promuovendo il ripensamento di ogni moda vestiaria femminile che potesse «deformare la figura, impedire i movimenti del corpo, e essere in qualsiasi modo dannosa per la salute». Reinventando capi d’abbigliamento che permettessero alle donne vittoriane di riappropriarsi dei loro corpi e delle loro attività come banalmente l’andare in bicicletta, Constance Lloyd stava rivendicando la libertà individuale delle donne di disporre di sé. Tuttavia, ciò che oggi ricordiamo di lei è il marito, Oscar Wilde.
Lo spazio che le donne hanno occupato nella storia è stato sistematicamente svuotato e riempito dagli uomini.
Quegli spazi che ci è stato impedito di riempire in passato, è bene che siano occupati di diritto oggi anche se è una legge a imporlo. Perché mettere in discussione il mio diritto a occupare uno spazio in quanto donna se per millenni un uomo l’ha occupato in quanto uomo?
Molte donne, sicuramente mosse da comprensibili obiezioni, storcono il naso davanti all’espressione «quote rosa» quando invece dovremmo riconoscere e sfruttare al meglio le possibilità che questo strumento ci offre. Vediamo perché:
Partiamo intanto dal presupposto che sarebbe auspicabile, come suggerisce Daniela Brogi nel suo Lo spazio delle donne, utilizzare formule quali «quote pari opportunità» o «quote uguaglianza» e non «quote rosa», espressione che rimanda a un contesto infantile da battaglia tra i sessi perpetuando, non di meno, ulteriori stereotipi di genere.
Detto ciò, idealmente, nessuna donna rivendicherebbe il proprio diritto di parola o di partecipazione in quanto donna a prescindere dalle competenze, ma cosa succede quando quel diritto ti viene negato in partenza? Come spesso ripeteva Michela Murgia «nessuna chiede spazio in forza del suo utero. Semplicemente pensiamo che quelle di noi che sanno qualcosa di interessante abbiano lo stesso diritto a dirlo che avrebbe un uomo con quella competenza. Se però nove volte su dieci a dire quella cosa viene chiamato un uomo, le ipotesi sono due: o gli uomini sono effettivamente più bravi a dirla, o chi li invita ne è convinto».
Per renderci conto di questo non serve scomodare la conferenza sull’allattamento al seno organizzata dalla Fondazione Museo Storico del Trentino nel maggio 2021 in cui furono invitati solo relatori uomini, quando per la sua trasmissione (Che tempo che fa) Fabio Fazio persevera nel suo cieco paternalismo “inclusivo” a proporre panel televisivi di soli uomini riservando alle donne quasi unicamente i settori di cinema e spettacolo. Senza dimenticare che, nella puntata del 26 novembre 2023, in occasione della giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, i giornalisti chiamati da Fazio a discutere delle manifestazioni tenutesi il 25 novembre e dell’educazione affettiva nelle scuole erano tre uomini fatta eccezione per Concita De Gregorio interpellata a fatica e interrotta dalla notizia della vittoria di Jannik Sinner nella Coppa Davis 2023.
Impossibile pensare che, di qualsiasi argomento si tratti dalla medicina allo sport, dalla letteratura all’ambientalismo, gli unici esperti ritenuti autorevoli e disposti a intervenire in contesti pubblici siano uomini. Evidentemente chi organizza questi eventi ne è convinto.
La situazione non cambierà fin quando non ci renderemo conto che è proprio la mancanza di rappresentazione ad alimentare la mancanza di autorevolezza e viceversa.
Se fin da bambin3 siamo abituat3 a riconoscere come uniche voci e pareri autorevoli quelli degli uomini (dal medico di famiglia al professore universitario) non stupisce il fatto che spesso siano le donne stesse a dubitare delle competenze delle altre donne: è una semplice questione di abitudine culturale.
Illuminante, come ricorda Brogi, è l’opera di Christine de Pizan La città delle dame, datata 1404-1405, tra le prime opere a rispondere delle maldicenze scritte dagli uomini contro la natura femminile. Eccone un estratto:
Per quanto a lungo e profondamente esaminassi la questione, non riuscivo a riconoscere né ad ammettere il fondamento di questi giudizi contro la natura e il comportamento femminile. Continuai tuttavia a pensare male delle donne: ritenevo che sarebbe stato troppo grave che uomini così famosi, tanti importanti intellettuali di così grande intelligenza, così sapienti in tutto, come sembra che fossero quelli, avessero scritto delle menzogne e in tanti libri, che stentavo a trovare un’opera morale, indipendentemente dall’autore, senza incappare, prima di terminare la lettura, in qualche capitolo o chiosa di biasimo alle donne. Questa unica e semplice ragione mi faceva concludere che, benché il mio intelletto nella sua semplicità e ignoranza non sapesse riconoscere i grandi difetti miei come delle altre donne, doveva essere veramente così. Era in questo modo che mi affidavo più ai giudizi altrui che a ciò che io sentivo e sapevo.
De Pizan scriveva questo nel XV secolo, ma ancora oggi noi donne per prime facciamo fatica a mettere in discussione le opinioni degli uomini, considerati autorevoli, indovinate un po’, solo in quanto uomini. È su questa sorta di paradossale ricatto intellettuale che si regge la controproducente critica delle donne nei confronti delle «quote rosa».
Quando si ragiona di questi temi sembriamo dimenticare che il nocciolo della questione risiede nell’occasione, o meglio, nella possibilità che ciascuna di noi ha avuto di parlare. Come ci ricorda Murgia: «il prestigio delle competenze maschili si è costruito attraverso decine di occasioni di visibilità che nel tempo alle donne non sono state offerte»!
Proprio a questo allude Chiara Valerio quando osserva che «le donne devono ancora esercitare quell’intelligenza relazionale che gli uomini hanno da secoli». Gli uomini hanno condiviso sapere tra loro, parlato (sempre tra loro) e avuto l’occasione di farlo per millenni. Ciò che alle donne è stata sottratta è quella che Brogi definisce esperienza storica, aggiungerei, collettiva.
Va da sé che, in un sistema patriarcale che funziona (per gli uomini), nessuno mai (pur riconoscendone le ingiustizie) si sognerà di rinunciare ai propri privilegi; laddove rinunciarvi vorrebbe dire condividere una condizione di parità con un maggior numero di persone e, di conseguenza, veder aumentare il rischio di competizione e diminuire le probabilità di successo.
Chi mai in una competizione sportiva vedendo unə propriə rivale zoppicare direbbe: «aspetta che mi metto al tuo passo (e non approfitto del mio, seppur ingiusto, vantaggio)»?
Ecco, la situazione è la stessa.
La funzione delle cosiddette «quote rosa» è proprio quella di creare opportunità in uno spazio che, come ribadisce Brogi, «è naturalmente degli uomini, a meno che non si escogiti un’azione, uno stress aggiunto e uno stratagemma».
Le «quote pari opportunità» sono lo stratagemma, la presa di posizione, l’unica azione (seppur coercitiva) che ci permette, in un mondo a misura d’uomo, di imporci nello spazio affinché la nostra presenza diventi prassi, poi abitudine e infine cultura.
Come in questi casi ripeteva Murgia, per rendere l’idea basti pensare alla legge Sirchia: questa legge, che dal 2003 prevede il divieto di fumare nei locali pubblici, ha fatto sì che, in tempo relativamente breve, venisse meno l’abitudine di fumare ovunque a discapito del benessere altrui. Oggi nessunə entrando in ufficio si accenderebbe una sigaretta, ma senza questa legge quale fumatorə avrebbe smesso di farlo?
La legge ha creato coscienza collettiva, ha modificato il modo di pensare alimentando nuove abitudini. È questa la funzione pedagogica di tutte le politiche finalizzate all’uguaglianza di genere.
Quando ci ritroviamo a discutere di «quote rosa» ricordiamo, dunque, che nessunə (noi per prime) sta mettendo in discussione la nostra preparazione, né le nostre competenze, men che meno il nostro diritto a trovarci lì. Stiamo semplicemente esercitando il nostro diritto a farci spazio.
Riferimenti e consigli:
Da leggere:
Brogi, D. (2022), Lo spazio delle donne, Einaudi.
Murgia, M. (2021), Stai zitta. E altre nove frasi che non vogliamo sentire più, Einaudi. [da cui sono tratte le citazioni].
Woolf, V. (1929), Una stanza tutta per sé, Feltrinelli.
Da vedere:
Quote rosa for dummies, post dal profilo Instagram di Murgia (@michimurgia).
Intervista video a Chiara Valerio (@slaterpins) su Instagram per VD (@vdnews).
Autore
Elena Tronti
Autrice
Nata nel 1998, laureata in Linguistica. Amo i boschi e guardare film. Credo ancora che parlare sia l’atto più rivoluzionario di cui siamo capaci. Parlare di femminismo ancora di più.