La cultura si evolve e il futuro le va incontro. La cultura hip hop si scompone e si ricompone a seconda dei momenti storici, delle mode, dei soldi che girano, degli anni che passano. Il tempo usura, scompone, distrugge, crea e ricrea ancora.
Paola Zukar, Rap, Una storia italiana, Baldini+Castoldi, 2017.
A Paola Zukar, l’aforisma di Eraclito, secondo cui nulla si distrugge e tutto si trasforma, piace parecchio. Sarà perché lei è stata donna in cambiamento e donna del cambiamento, per eccellenza, nello scenario musicale italiano. Nel libro, ormai uscito nel 2017, si ripercorrono tutte le tappe necessarie per comprendere la cultura hip-hop e la musica rap, in Italia. È una storia che in gran parte ignoravo, e che ho riscoperto, dopo essere andata al Marrageddon, primo festival rap in Italia. E se è vero che viviamo in un momento storico in cui si fatica a ispirarsi o rimanere colpiti dal panorama culturale del nostro Paese, allo stesso tempo la cultura dell’hip-hop, dopo anni di tribolamenti, sembra essere un vero e proprio faro per una generazione di classi sociali completamente diverse.
E se è vero che «non c’è cultura se non c’è appropriazione culturale», come affermato alla fine del singolo Cosplayer, di Marracash, è altrettanto vero che ora esiste una cultura che fa ascolti record e ha la capacità di radunare oltre 80.000 persone in unico posto: la cultura hip-hop.
Il fenomeno
Il grande salto è proprio quello di passare con convinzione dall’underground al mainstream, senza mai perdere la propria identità e senza abbracciare il pericoloso percorso verso “l’illusione, la delusione, la collusione”.
Paola Zukar, Rap, Una storia italiana, Baldini+Castoldi, 2017.
Negli ultimi anni il fenomeno del rap e della trap è diventato di importanza fondamentale nel panorama musicale italiano. Con stream da capogiro, collaborazioni con artisti del rap e della trap, con una piccola rappresentanza femminile e con collaborazioni estere, i generi del rap e della trap conquistano milioni di ascolti mensili e si stabilizzano alle vette delle classifiche ormai da tempo.
In questo modo, il genere che non ha potuto definirsi commerciale, per molto tempo, ora lo diventa al massimo. Nel 2004, Mr. Simpatia squarcia il velo di Maya e fa scoprire un nuovo modo di fare rap, raccontandoci un’Italia ipocrita, addormentata, menefreghista. Ma sarà ancora lunga la strada per far riconoscere il rap come un genere musicale rispettabile anche da parte della critica, dei media e del popolo.
Questo è il suo momento: ormai, affermato, sembra far emergere una questione generazionale che prevarica quella sociale. Sarà che nell’ album Persona si sono potuti riconoscere molti giovani, che vivono in un paese in cui, secondo uno studio, il 39% della popolazione avverte e soffre di una sintomatologia affettiva ansioso-depressiva. Sarà che alcune ingiustizie sociali colpiscono molti giovani, in un paese in cui la disoccupazione giovanile supera il 20%, secondo l’Istat. E sarà che secondo l’Istat, 1.4 milioni di minori vivono in povertà assoluta.
Dalla crisi che caratterizza questo paese da oltre dieci anni, con la parentesi catastrofica della pandemia, l’unica cosa diventata maggiormente accessibile, per i giovani, è stata proprio la povertà. Giovani che apprezzano la critica, amoreggiano la rivincita e ascoltano musica, come questa:
Oggi che possiamo rivendicare di essere bianchi, neri, gialli, verdi
Cosplayer, Marracash
O di essere cis, gay, bi, trans o non avere un genere
Non possiamo ancora essere poveri
Perché tutto è inclusivo a parte i posti esclusivi, no?
Un festival di molti, per tutti
Al Marrageddon di Milano c’era posto per tutti. Il rap, quel parlare schietto, diventa non solo sinonimo di denuncia di una parte sociale, ma di tutta la società. Non è solo aperta a chi quei disagi sociali ed economici li ha vissuti, ma anche a chi quei disagi economici e sociali li critica. Non spazza via i borghesi per il loro essere, ma li accoglie per raccontare quello che non verrebbe narrato se non venisse rappato. Li seduce con la canzone più radiofonica per poi, nell’album, raccontare background periferici, disagi sociali o personali, in cui riconoscersi o con cui empatizzare.
Il fenomeno diventa così del popolo (se per popolo si intende quell’onda giovanile che non ha nome e non ha appartenenza) che riscopre sentimenti, rancori, rabbie, in testi di canzoni in cui riesce ad identificarsi. È la generazione che parla poco, mostra molto e ascolta tutto il giorno testi scritti da altri che raccontano le loro vite. Persone disperse per tutta l’Italia che con due festival di musica rap, con vecchie riscoperte e nuove voci emergenti, scoprono per la prima volta di essere marea, un gruppo disgiunto, con ragazzi ricchi e ragazzi poveri, che cantano Bastavano le briciole.
Il fenomeno Marracash
Marracash ha una tale profondità di scrittura che sorprende a ogni ascolto come se fosse il primo: sprazzi di pura genialità che molto spesso sono fortemente sottovalutati dagli ascoltatori. Lo street rap italiano esisteva già da tempo ed era ben fatto, Marracash ha però aggiunto a tutto quell’immaginario tangibile di strada e di vita da periferia anche un’aura magica, filosofica, empatica. (…) Dall’interno all’esterno e viceversa, in un continuo movimento della verità che in questo modo non è mai assoluta, ma sempre in divenire.
Paola Zukar, Rap, Una storia italiana, Baldini+Castoldi, 2017.
E poi c’è la qualità. Il pubblico esiste e resiste, non solo quando sente un’appartenenza, ma anche quando c’è il merito. Il Marrageddon è stato uno spettacolo. Il primo spettacolo sottoforma di festival, dove l’unione di diverse voci, che hanno segnato e battuto la strada del rap in Italia, si mescolavano con quelle delle oltre 80.000 persone che avevano superato la pioggia e la grandine, per partecipare, insieme, senza conoscersi, a un evento che è storia. Ma si sbaglia chi crede che sia la storia del rap, dell’hip-hop o di Marracash. È la storia del “NOI”, da chi lo è sempre stato a chi lo è diventato dopo essere stato un po’ “LORO” e un po’ “GLI ALTRI”.
Non è la storia del hip-hop, ma solo una sua tappa; mentre è effettivamente storia per le persone presenti. Sempre alla fine di Cosplayer, Marracash dice, scandendo bene le parole, che abbiamo perso l’identità collettiva, l’abbiamo frammentata. Non poteva sapere che quasi due anni dopo l’uscita di quel disco, si sarebbe formata un’altra identità collettiva, sotto al suo palco.
Sfido a trovare un altro posto, un altro evento, dove persone delle classi sociali più diverse, da quelle ricche che vengono perché quella musica a loro piace, a quelle più povere che vengono perché quella musica loro la sentono propria, vicina alla loro storia, si trovino tutti insieme. Se non è questa appropriazione culturale allora non so cosa sia.
E quindi alle generazioni precedenti, che devono raccontare e commentare il sociale e i giovani, senza darci spesso parola dico: non prendeteci in giro, non parlate di questo festival come di un normale show, non sottovalutate la musica che ascoltiamo, perché non dice soltanto molto di noi, ma dice molto soprattutto di voi.
Autore
Cresciuta nella campagna piemontese, a Rivalba, ( ti giuro, esiste! ), con la scusa di studiare lettere ho vissuto nella calorosa Roma e nella raffinata Parigi. Scrivo grandi storielle letterarie, ma scrivere il presente e il suo divenire, beh, quella sí che è una gran bella storia che vi vorrei raccontare.