Descrivere un fenomeno sociale quando si è troppo vicini nel tempo allo stesso, è un’operazione difficile. Quando questo fenomeno assume un’importanza centrale nelle nostre vite, e ci riguarda direttamente, l’operazione si fa urgente: è il caso di quello che è successo con le proteste di questi ultimi mesi, ed anni, per la Palestina.
Stiamo già vivendo un momento di “risacca” e il rapido mutare dello scenario internazionale, rende davvero difficile capire le evoluzioni e le conseguenze delle mobilitazioni diffuse che, in qualche modo, ci hanno riguardato tutti. In questo articolo ci proponiamo di fare questo: fornire una chiave di lettura a quello che abbiamo vissuto collettivamente, per dargli un senso più comprensivo e guardare al futuro con una consapevolezza più grande. Lo faremo riprendendo la visione filosofica di uno degli intellettuali più controversi del nostro novecento, Antonio Negri.
Le settimane di mobilitazioni particolarmente intense di protesta contro il genocidio a Gaza possono essere lette alla luce del concetto di moltitudine. Perché? E che cos’è la moltitudine?
La massiccia partecipazione nelle piazze è stata fortemente eterogenea, senza che nessuna grande organizzazione centralizzata sia stata necessaria per garantire la presenza di categorie lavorative, sociali, politiche e culturali così fortemente differenti l’une dalle altre. Le stesse sono state portate in piazza, e unite, non dall’appartenenza ad un movimento politico preciso, ma dalla comunanza di un obiettivo: fermare il genocidio a Gaza e la collaborazioni del governo italiano (e non solo) con quello israeliano.
Il concetto di moltitudine si condensa proprio in quello che abbiamo vissuto: tutte le manifestazioni non sono state guidate da interessi particolari, ma da una presa di consapevolezza collettiva, ossia che è (ancora) in corso un genocidio e che lo stesso è perpetrato da una struttura e da un potere diversi da quelli tradizionali.
Per capire meglio le caratteristiche della moltitudine bisogna scomporre questo potere, che nella teoria che stiamo utilizzando come chiave di lettura è fatto da due elementi fondamentali. Il primo è legato alla sua struttura, che gli autori individuano metaforicamente in quella di un “impero“. Questa nuova forma di potere e di sovranità – quella che rende possibile il genocidio – non ha un territorio preciso, ed è capace di influenzarne a sua volta diversi. “L’impero” estende il suo dominio a tutto il mondo, attraverso centri di potere diffusi che non si concentrano in un’unica forma e in un unico luogo ma che coinvolgono più dimensioni di quelle del potere tradizionale.
Questa analisi si aggancia ad un’altra presa di consapevolezza: il modo di produrre non è più quello a cui siamo stati abituati, il decisivo avanzamento delle tecnologie produttive, inclusi i sistemi digitali, ha stravolto la produzione e le categorie economiche, politiche e culturali che esistevano quando i beni e i servizi si producevano in luoghi fisici e chiusi, simbolicamente nelle fabbriche. Le odierne forme di organizzazione di potere e di sfruttamento tendono ad essere meno identificabili in dei luoghi unici, ma costruiscono un insieme ramificato e reticolare di istituzioni che esercitano il loro potere a livello globale e che poi ricade a livello nazionale e locale.
Il così detto “fordismo”, ha lasciato il posto – sebbene non del tutto – al “post-fordismo”, in cui le relazioni lavorative, e quindi di vita, di ciascuno di noi hanno progressivamente esaurito la loro dimensione comunitaria, lasciando il posto ad un individualismo più forte, con un effetto di controllo maggiore nella vita degli individui, perché più capillare e invisibile.
Ma cosa c’entra questo con la moltitudine?
Per capire perché è proprio questo concetto a potersi opporre al processo appena descritto, immaginando un altro modo di stare insieme come società, bisogna passare alla seconda caratteristica del potere imperiale: il suo rapporto con il conflitto sociale.
Non è vero che in questo scenario il conflitto non esiste, o non possa esistere: piuttosto, l’aumento delle differenziazioni e delle singolarità (che nella società disciplinare fordista era paradossalmente meno accentuata), comporta anche che le proteste che emergono all’interno dell’impero divengono incomunicabili tra loro, in quanto le differenziazioni sociali, culturali e politiche e, infine, produttive hanno prodotto singolarità irrelate e profondamente eterogenee tra loro. In questo scenario, dunque, le proteste attingono direttamente alla dimensione globale, perché solo così ritrovano una loro unità:
Benché saldamente radicate in determinate condizioni locali, queste lotte toccano immediatamente il livello globale, e attaccano la costituzione imperiale nella sua generalità
p. 67, in Impero
La scomparsa delle categorie centrali del conflitto è dovuta al fatto che in esso le forme di sfruttamento sono incredibilmente diversificate all’interno di tutta la società globale. Come risultato di questa destrutturazione, l’aggregazione delle singolarità che hanno la volontà di confliggere si basa sulla condivisione di comuni visioni antagoniste rispetto alla eterogeneità delle forme di sfruttamento capitalista. La struttura eterogenea, disarticolata e profondamente differente della produzione genera anche un nuovo modo di organizzare il conflitto contro lo sfruttamento capitalistico.
Tornando alla centralità del lavoro, è possibile ritenere che l’attuale modo di produzione sia egemonizzato dal lavoro cognitivo e dal lavoro di cura. Ampliando dunque lo spettro delle attività produttive, il valore di gran parte della produzione capitalistica viene estratto dalla vita in comune e associata delle persone. Dunque, chiunque vive, si muove, ha dei gusti, delle tendenze, diventa un agente produttivo. Queste visioni non sono ancora organizzate, perché si pongono avverso un potere che di per sé è in qualche modo profondamente dinamico, dunque oscuro e sfuggevole, flessibile.
Allo stesso tempo, la sua capacità di sfruttamento è massima, proprio in virtù della sua multiformità in definizione continua, e riguarda direttamente le dimensioni locali: da qui l’emersione in tali dimensioni delle forme di protesta. All’interno della sovranità imperiale non esiste un dentro e nemmeno un fuori: tutti i paesi partecipano in gradi diversi, e con quote diverse all’interno degli stessi, alla produzione e riproduzione di questa particolare forma di produzione/sfruttamento post-fordista.
Arrivando ora al concetto di moltitudine, che abbiamo definito essenzialmente come “controaltare” a questa visione del mondo, possiamo anche descriverne le caratteristiche principali. Le sue manifestazioni sono di forma reticolare, a-centrate e, per definizione, mettono insieme uno “sciame di intelletti”. Questo significa che la apparente disorganicità della moltitudine è in realtà in movimento verso una comune intesa delle istanze che emergono dallo sfruttamento. La composizione delle piazze per Gaza era quella di una classe moltitudinaria: persone di età differenti, appartenenti a sottoculture differenti, che svolgono attività produttive fortemente eterogenee ed accomunate da un obiettivo unico, ossia contrapporsi con forza al potere “imperiale”.
L’impunità israeliana – che, come dimostrato, è collegata a questo sistema di sfruttamento capitalista – nei confronti del popolo palestinese ha svelato per un momento la brutalità di questo potere invisibile, e che si estende ben oltre la questione israelo-palestinese.
È come se si fosse aperta una falla in tutto il sistema di potere imperiale, mettendo a nudo la brutalità dello sfruttamento e della mancanza di scrupoli del sistema della sovranità. Il sistema Imperiale è più ramificato e più capace di controllo, ma è anche più interconnesso: se da un lato questo genera un potere più carsico, dall’altro stabilisce una chance di rottura molto più facile, perché c’è la possibilità – e con le mobilitazioni per Gaza questa possibilità è diventata per un attimo reale – che attraverso la maggiore comunicazione e interconnessione delle forme di potere e sfruttamento, quando la brutalità del sistema si palesa in un punto, può far espandere la ribellione a livello globale.
Se questa è la visione proposta dalla teoria della moltitudine, che è facile associare a quello che abbiamo vissuto in relazione alla Palestina, quel che è certo è che non c’è nessuna garanzia che la moltitudine riesca effettivamente a organizzare e portare avanti il suo conflitto.
I critici di questa visione – e di Negri in generale – ritengono la sostanziale inefficacia di questa teoria, perché la stessa non riuscirebbe a concretizzarsi in niente. Eppure, questa può essere anche una forza della stessa teoria: non dare una risposta a come dovrebbero cambiare le cose, permette di concentrarsi sul “dato di fatto” in cui ci troviamo, e dare organicità alla nostra coscienza.
I cambiamenti sono spesso processi sotterranei, continui ma invisibili. La moltitudine è una chiave di lettura delle cose, non una risposta ai problemi della realtà.
Autori
Federico Mastroianni
Autore
Classe 2001, ma mi sento molto più vecchio. Studente di Giurisprudenza a Roma, aspirante giornalista (infatti mi piace molto scrivere), ma anche suonare la chitarra. E questo è quanto.