Tre album per innamorarci di Faber

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L’11 gennaio 1999 a Milano moriva Fabrizio De André. La sua carriera artistica ripercorre le orme di un’umanità in costante movimento. Un movimento visto non nell’unica ottica di progresso positivo: un movimento che, anzi, molto spesso, si allontana da una meta tradizionalmente considerata utile e vantaggiosa. 

Si pensi al percorso da Fernandinho a Fernanda raccontato in Princesa, una transessuale brasiliana che si opera da sola «in una vertigine d’anestesia/finché il mio corpo mi rassomigli sul lungomare di Bahia» per giungere poi a Milano e diventare l’amante di un avvocato; ai due marinai di Creuza de Ma e al loro incessante navigare, che trovano ristoro solo «Int’à cä du Dria, che u nu l’è mainà»; all’epopea di Coda di Lupo, a Marinella o ai morti le cui voci riecheggiano ancora nel cimitero di Spoon River.

L’uomo a una dimensione di Marcuse si chiude con una celebre frase di Walter Benjamin: «È solo a favore dei disperati che ci è data la speranza». Sembra che il concetto di Benjamin si sia reincarnato nella musica di Faber. E in ogni sua fase artistica ogni aspetto dell’uomo viene esaltato dalla sua sensibilità poetica e umana, che umanizza perfettamente i personaggi cantati e, alla fine, ci mette nelle condizioni di sposare sempre la loro causa. Anche se si tratta di un sogno irrealizzabile ed evanescente.

Due dischi anarchici: La buona novella e Storia di un impiegato

Citazioni di De André sui muri di Genova

Anni di attivismo, partecipazione, contraddittoria contestazione. Nel 1970 Faber pubblica La buona novella, il suo quarto disco, scritto a partire dalla lettura di alcuni Vangeli Apocrifi. Subito arrivano le polemiche: viene accusato di aver scritto un disco slegato dalla realtà di una società che si faceva sempre più conflittuale, quando la polemica imperversava – più o meno – ovunque.

È lo stesso De André a riportare un aneddoto riguardo questo album in un concerto al Brancaccio: «Ma come? Noi andiamo a lottare nelle università e fuori dalle università contro abusi e soprusi e tu invece ci vieni a raccontare la storia – che peraltro già conosciamo – della predicazione di Gesù Cristo». Ma in realtà il senso di quell’album stava proprio qui: riportare le sue affilatissime proteste antiautoritarie in modo allegorico. Esattamente il contrario di ciò di cui veniva accusato.

L’altro album è del 1973, dove un impiegato – assurto a emblema di vita piccolo borghese e lontano da ogni forma di contestazione – si rende conto che invece può e deve associarsi ai movimenti del ’68 e iniziare quindi il suo percorso di rivoluzione. Un percorso che sarà solitario, perché le proteste sono ormai terminate. 

Cerca dunque un riscatto individuale attraverso un gesto estremo: una bombaUn trentenne disperato che cerca di mettere una bomba in Parlamento, fallendo miseramente. Un disco anche questo contraddittorio, sebbene più esplicito del primo, il cui obiettivo era quello di «dare del Sessantotto una lettura poetica, e invece è venuto fuori un disco politico».

Immediatamente stroncati da più parti, i due dischi sono rimasti l’emblema dell’anarchismo di Faber. E rappresentano tutt’oggi due pietre miliari dei concept album della musica italiana.

«La faccia al vento, la gola al vino e mai un pensiero, non al denaro, non all’amore né al cielo»

De André e Fernanda Pivano. Fu lei a tradurre l’Antologia di Spoon River

In mezzo a quei due album si colloca un altro capolavoro: Non al denaro, non all’amore né al cielo del 1971. La storia del disco è nota: l’infatuazione del giovane Fabrizio verso l’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters e la realizzazione di uno straordinario concept album.

Inutile fare classifiche e definire se un album sia migliore dell’altro, ma la realizzazione dei ritratti di questi personaggi viziosi, emarginati e talvolta estremamente rancorosi, rende davvero difficile definire quale sia il confine tra letteratura e musica. Nella rielaborazione dei – particolarissimi – protagonisti di questo album troviamo una purissima rappresentazione del pensiero di De André: come non pensare a «Jones il suonatore, che fu sorpreso dai suoi novant’anni e con la vita avrebbe ancora giocato», senza paragonarlo allo stesso Faber? 

E ancora: l’album in questione lo si potrebbe considerare una sorta di guida a tutta la produzione musicale di De André. Primo perché ci manifesta la sua sensibilità straordinaria nei confronti di personaggi ai margini della società, secondo perché ci fa capire su quanti livelli si costruiscano i testi dell’autore: un vortice di polvere a noi comuni mortali ci causerebbe piuttosto fastidio, se non stupore. A lui, invece, ricordava la gonna di Jenny. In un ballo di tanti anni fa.

Autore

Francesco, laureato in Lettere, attualmente studio scienze dell'informazione, della comunicazione e dell'editoria. Approfitto di questo spazio per parlare di politica e di dinamiche sociali. Qual è la cosa più difficile da fare quando si collabora con un magazine? Scrivere la bio.

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