Un’emergente, la sua musica e la scena indie italiana

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«Secondo me in passato si svisceravano un po’ di più le attualità e anche i sentimenti, adesso invece sembra tutto un po’ più “impacchettato”. Siamo figli del nostro tempo, siamo di fretta e con poca attenzione. Molti si nascondono piuttosto che affrontare la situazione, il periodo di confusione che stiamo vivendo. Come se si volesse rimandare il problema restando in superficie».

Assurditè, nome d’arte di Chiara Balzan. Classe ’99. Tra i suoi animali preferiti ci sono i pesci e gli uccelli, i pappagalli soprattutto. Da piccola voleva fare la modella, poi ha iniziato a studiare musica ed ora ha quasi concluso il suo percorso di studi al conservatorio. Nel frattempo, ha cominciato a pubblicare musica da indipendente. In poco tempo si è fatta notare ed è comparsa in diverse playlist Spotify.

Con lei, abbiamo parlato di com’è essere un’emergente, della sua musica e della scena indie italiana, del periodo di apparenze in cui viviamo.

Com’è nato il nome Assurditè?

«In realtà avevo già un altro nome “Enivrez-Vous” che significa “ubriacatevi”. È una poesia di Baudelaire dove lui dà un consiglio alle persone, quello di viversi la vita e le emozioni. Dice proprio “ubriacatevi che sia di vino, di virtù o di poesia ma l’importante è che lo fate”. Mi piaceva molto il messaggio. Però la maggior parte delle persone mi diceva “ma come si fa a scrivere?”. E allora ho cambiato il nome: “Assurditè” è nato da una chiacchierata con una mia amica. A Milano si è sempre un po’ abusato della parola “assurdo” e non so perché è uscito “assurditè”, io lo utilizzavo come intercalare. Però mi piace molto, penso sia anche molto originale. Può sposare tante cose, anche la poetica dell’assurdo, della non convenzionalità, tutte queste cose correlate. Mi sembra che si sposi tutto molto bene».

Quando hai pubblicato la prima canzone ricordi che giorno era? Se hai avuto paura?

«Ricordo che giorno era: un giorno di quarantena, 2020. E non avevo per niente paura, avevo una voglia di pubblicare che stavo impazzendo, e diciamo che ho sfruttato un po’ il momento: eravamo tutti a casa e quindi c’era abbastanza attenzione sulle “cose che si potevano fare a casa”, come stare sui social o ascoltare musica. Quindi avevo tantissima voglia di pubblicare. L’ho fatto da indipendente per i primi tre brani e poi ho cominciato con una distribuzione. Però quando ho pubblicato la prima canzone da sola ero felicissima e gasatissima, e ti dirò: la paura mi è venuta dopo. Non il primo pezzo, non il secondo, non il terzo, ma dal quarto in poi ho iniziato a percepire un po’ di ansia tipo “okay, lo sto continuando a fare”. Quel sentimento che un po’ ti attacca nel momento in cui fai le cose sul serio e ti prendi anche tu molto più sul serio. Perché per me all’inizio era un “voglio provare, sono gasata, facciamolo”, non un gioco, ma una roba che volevo fare con leggerezza e spensieratezza. Dalla quarta canzone in poi ho iniziato ad essere molto più “on focus” e quindi a preoccuparmi di come sarebbero andate le cose. Non in modo troppo limitante o pervasivo, però da lì, da quando mi sono presa professionalmente sul serio, ho iniziato a percepire un po’ di paura».

In quel momento com’è stato l’impatto con il mondo della discografia? Ne avevi già avuto assaggi oppure era del tutto nuovo?

«Era del tutto nuovo. Poi, da sola, con l’app di Spotify for Artist avevo fatto il pitch della terza canzone e dal nulla Spotify mi ha messo in una sua playlist e mi ha chiesto una foto da mettere come copertina di questa playlist e io gliel’avevo inviata. Quindi totalmente da indipendente mi è successa questa cosa qua. Assurdo, perché mi hanno detto che non capita praticamente mai, o comunque molto raramente. Quindi mi sono gasata anche per quello, perché avevano ascoltato la canzone (penso le ascoltino tutte), però a me avevano comunque – non so come dire – “premiato”. Cioè, mi avevano dato uno spazio, uno spot, dove far ascoltare la mia musica ed ero molto contenta di questo. Poi da lì in poi ho conosciuto un po’ di più il mondo musicale e tutto quello che nasconde».

E come ti ci trovi?

«Bene in realtà, perché mi faccio altamente gli affari miei. Mi piace essere coinvolta nelle varie situazioni, però sono una che vuole mantenere rapporti di amicizia con persone che conosco da tanto tempo, lavorare con persone che conosco da tanto tempo. Sto bene in mezzo alla gente, però preferisco affidarmi a chi conosco bene. Aldilà di questo, mi ci trovo bene perché è quello che voglio e mi sento libera di fare quello che voglio. So che non è una cosa che sentono in molti. Spesso ci si fanno un sacco di paranoie, si ha paura più del dovuto, si parte con preconcetti o pregiudizi. Io invece, per ora almeno, sono stata sempre abbastanza libera in quello che facevo e soprattutto in quello che volevo, anche a costo di sembrare una stronza. Mi piace sentirmi libera, e quindi mi trovo bene perché mi costruisco il mio piccolo mondo. Se stai a vedere tutto il giorno quello che fanno gli altri, ti metti a confronto, parti col preconcetto di fare qualcosa per piacere agli altri, perdi il focus del perché lo stai facendo».

Pensando invece alla definizione di “artista emergente”, mi chiedevo come ti fa sentire. Se magari è una definizione che già adesso senti stretta. Mi viene in mente che dire “artista emergente”, per esempio, implica che non venga citato neanche il genere musicale dell’artista stessə. Come ti fa sentire questo appellativo?

«Io sono felicissima quando mi dicono che sono un’artista emergente, perché significa che ho la possibilità di emergere. Se sei un’artista emergente, il massimo raggiungimento di questo stato sarebbe emergere, è come se si vedessero delle potenzialità. Mi piace anche perché non mi mette responsabilità addosso. Non sento pressioni perché “sono emergente”, piccolina, e quindi sono felice di esserlo. Per quanto riguarda la roba del genere, anche questo mi fa sentire molto bene. 

Quando non si definisce il genere di una persona è come se si vedesse qualcosa di diverso, di innovativo e quindi allo stesso tempo di speciale, che ti può incuriosire di più. Quindi mi piace di più quando non mi danno un genere. Magari faccio delle cose un po’ più tamarre, delle cose un po’ più pop, delle cose un po’ più indie, delle cose un po’ più sperimentali, e non voglio perdere questa cosa qua, perché mi piace fare diverse cose. E invece spesso ti categorizzano in una cartelletta, e in realtà, secondo me, nel 2023, ci siamo tutti talmente mescolati che spesso è difficile definire un genere ed è anche molto limitante; quindi, preferisco non averne uno ma tanti insieme».

In linea di massima, la tua musica è stata definita indie, quindi, con tutte le sfumature che hai come artista, rientri un po’ in questa scena. Tuttavia, negli ultimi anni, l’indie italiano è cresciuto moltissimo sia in fatto di ascolti sia in fatto di artisti e artiste che si dedicano a questo genere. Di conseguenza quando si parla di scena indie in realtà si tende a parlare di un grande “calderone” in cui finiscono un sacco di nomi, di persone e di stili che quindi non vengono ben distinti. Per quanto riguarda il tuo stile, come lo collocheresti in questa scena? Che tratti hanno le tue canzoni che magari altri hanno meno accentuati?

«Sicuramente mi definirei indie soprattutto per il primo EP: indie, anche pop, R&B, e io ti direi anche cantautorato, però non quel cantautorato che ti fa pensare a De André con la chitarra. Poi mi hanno ispirato un sacco anche gli standard jazz di Ella Fitzgerald, Chet Baker, Etta James, Billie Holiday, Sarah Vaughan. Li ho ascoltati un sacco perché mi ero appassionata quando avevo 15/16 anni. Alcune cose del mio vibrato magari possono ricordare quel modo di cantare, però la verità è che sono un bel mix di tutto quanto. Ho ascoltato anche un sacco di rap perché mi è sempre piaciuto e perché ho due fratelli più grandi che lo hanno sempre ascoltato, magari anche la scrittura rap mi ha influenzato. Secondo me, quello che ho fatto io fino ad adesso, e quello che ho fatto e non ho ancora pubblicato, è un bel mix di indie, pop, R&B e cantautorato».

Sempre in relazione alla scena indie, secondo te, soprattutto al livello di cantautorato, ci sono delle tendenze che hai notato negli ultimi anni?

«Credo che l’indie si sia sempre più avvicinato al pop, o magari viceversa, però “microcorrenti” all’interno del genere non le ho notate. Anche perché “indie” significa sia il genere, sia indipendente (ovvero artista che si autoproduce il proprio materiale per poi pubblicarlo da indipendente). Come me che ho la distribuzione, ma non l’etichetta. Però no, penso che l’indie non sia più come nel 2016: penso che si sia trasformato in un genere talmente popolare da essersi “stabilizzato”, di conseguenza non ci vedo all’interno delle microcorrenti».

Foto di Martina Trotta (via Instagram)
Da parte tua c’è il desiderio, in futuro magari, di andare oltre i confini italiani e scrivere, magari, in inglese?

«Recentemente ho fatto una session a Parigi che mi ha aperto un po’ a questo mondo e sono stata molto felice di averci partecipato. Non avevo mai fatto un’esperienza del genere e mi ha aperto un mondo. Ho scritto anche pezzi in inglese, però per ora voglio rimanere sull’italiano. È un periodo produttivo e sono gasata su diversi fronti, e perché no? anche a scrivere in inglese, ma non per pubblicare adesso. Però mi interessa, anzi: ho sempre cercato di avere un profilo non strettamente riconducibile alla musica italiana, più europeo, più aperto, perché sennò si ricade sempre nella cosa dell’incasellamento, sempre un po’ limitante».

Quando crei una canzone inizi dal testo o dalla musica?

«In realtà è un processo che nasce abbastanza insieme: mi metto al pianoforte, non tutti i giorni – non sono una che scrive tutti i giorni – e inizio a suonare altre canzoni o butto giù degli accordi a caso. Non sono una grande studiosa, ma sono all’ultimo anno di conservatorio quindi mi so muovere sullo strumento. Da lì, se sono ispirata, gli accordi mi rimandano già ad una sorta di melodia e anche ad un testo se ho qualcosa da dire, sennò non scrivo. Forzarmi a scrivere è una cosa che non fa per me, ci ho provato ma ne uscivano soltanto cose strane. Faccio molta fatica a scrivere su base, non scrivo quasi mai su base».

Una delle tue canzoni si intitola Vorrei che fosse odio e chiaramente si ispira a Vorrei che fosse amore di Mina. Invece in Pressione bassa riprendi un verso di Gigliola Cinquetti, Non ho l’età. Che ne pensi della musica scritta oggi? E cosa non riesci a trovare nei testi di oggi che invece ritrovi in quelli di anni fa?

«Mi sono già interrogata da sola su questo. Penso che oggi si dia molta più importanza all’estetica, al sound, al suono proprio di come ti gira in testa una canzone, piuttosto che al contenuto in quanto testo, al messaggio che si sta portando. Spesso, anche se non bisogna fare di tutta l’erba un fascio, credo che manchi proprio un messaggio da portare con la canzone, o anche la storia o un significato all’interno del testo. Che sia anche un po’ colpa del periodo in cui stiamo vivendo, però sembra tutto sempre molto in superficie, e questa cosa a me fa molta paura perché ho sempre pensato alle canzoni come a qualcosa che mi permettesse di tirare fuori qualcosa di più profondo. Il “rimanere in superficie” non è un qualcosa totalmente da rinnegare, io in primis ci sono stata in alcuni pezzi. Secondo me è anche giusto che ci siano canzoni un po’ più leggere, che ti ascolti soltanto per piacere o perché sei felice, però allo stesso tempo spesso si evita anche di parlare di qualcosa di più profondo o di portare veramente un messaggio fatto e finito all’interno di una canzone. 

Vedo tutto un po’ più confuso, un po’ più in superficie, un po’ più velato, penso che sia però a causa del periodo: sono anni stranissimi e molto difficili quelli che stiamo vivendo. Se ne parla poco, ma stiamo vivendo degli anni di cambiamento assurdi sotto molti punti di vista (tecnologia, cambiamento climatico, crisi, guerre). A me fa strano che non si parli di questo più spesso e si rimanga sempre un po’ lì, in superficie, nello scrivere tante cose. Secondo me in passato si svisceravano un po’ di più le attualità e anche i sentimenti, adesso invece sembra tutto un po’ più “impacchettato”. Siamo figli del nostro tempo, siamo di fretta e con poca attenzione. Molti si nascondono piuttosto che affrontare la situazione, il periodo di confusione che stiamo vivendo. Come se si volesse rimandare il problema restando in superficie».

C’è un tema che vorresti trattare nei tuoi testi ma che non sei ancora riuscita ad inserire?

«In realtà, con il nuovo progetto, penso di aver trattato tutti i temi che volevo trattare. Ho toccato più l’amore, il divertimento e lo svago; mentre con quello che sto preparando si arriva anche da altre parti e sono molto contenta di questo perché ne sentivo la necessità». 

Nel momento in cui sei stata volto della playlist Equal di Spotify come ti sei sentita? Cosa ha significato per te?

«È stato meraviglioso. Equal nasce come uno spazio dedicato interamente all’arte femminile, all’arte delle donne, per cercare di togliere quel grande gender gap e disuguaglianza che c’è nell’industria musicale, come purtroppo in tanti altri ambiti. Ho sentito un sacco di stronzate, tipo: “Ma perché non esiste una playlist Equal per gli uomini visto che è Equal?”. Ma è stata fatta per abbattere questo gender gap, per far vedere alle ragazze che “visto che siete in poche o avete avuto poche occasioni nel trascorso della musica italiana per farvi sentire, questo è quello che vi meritate, questo è quello che comunque vi aiuterà ad avere un po’ più di visibilità”. 

In classifica ci sono state pochissime donne: Madame, forse Anna Pepe, Annalisa, Elodie adesso, però nella scena rap o trap veramente pochissima gente. Di conseguenza sentirsi parte di questa community mi ha gasato tantissimo. Da artista emergente, l’ho vista come un’opportunità di dare spazio non solo ad un’artista, ma ad un’artista non conosciuta. Significa che c’è attenzione da parte dell’industria, non da parte del pubblico. Proprio da parte dell’industria musicale c’è tanta attenzione nel voler aiutare o comunque dare la possibilità di farsi ascoltare non soltanto alle artiste in generale ma anche alle artiste emergenti. Un’attenzione che ovviamente fa piacere a noi artiste in primis, però è anche molto utile per andare verso “un’evoluzione”, perché è giusto che si ascoltino cose nuove, che possano rispecchiare i tempi. 

Per l’occasione avevo fatto una playlist che si chiama Mi sono fermata ad ascoltare, se non sbaglio, e ho messo dentro tutte le artiste donne emergenti che mi sono fermata ad ascoltare, che mi hanno colpito, perché anche loro mi hanno ispirato. Sembra sempre più facile non apprezzare, abbattere quello che fanno gli altri piuttosto che elevare. È difficile elevare, dire “bravo”, invece secondo me è una cosa utilissima, soprattutto tra artisti e artiste. E un sacco di gente mi ha detto: “Sono felice che mi hai fatto scoprire quest’artista, non la conoscevo”».

Mi chiedevo se, essendo donna, in un mondo come quello della musica che è impari, ti sei mai sentita in dovere di farti carico come artista di alcune battaglie. Magari all’interno dei tuoi testi o del tuo percorso artistico.

«Di parlarne all’interno dei miei testi sì. Non tanto per fare la morale o per educare: sono cose che non mi piacciono, non mi piace passare per “l’educatrice di turno”, però ne ho parlato. È più un sottofondo, non ho mai detto “okay, adesso scrivo una canzone sulla disparità di genere”. Però ci sono cose che mi hanno fatto incazzare e nei miei testi si sentono, si sente quella rivalsa sociale. C’è sempre qualche spunto qui e là, nel nuovo progetto c’è una canzone dedicata a questo. Mettere la pulce nell’orecchio è molto utile. Sono curiosa di sapere quello che penseranno le persone quando ascolteranno questi nuovi progetti, che cosa hanno detto di quello che ho già pubblicato. Ad esempio, “Figlie della luna” descrive la libertà che ognuno di noi dovrebbe avere, per questo l’ho chiamata “Figlie della luna”. Nella canzone descrivo le serate con le mie amiche, descrivo il fatto che ci sentiamo libere. Sono fortunata perché non mi è mai capitato di non essere stata ascoltata, non capita o sfruttata per il mio essere donna nell’industria, per fortuna. Ma credo che sia dovuto anche al mio carattere, che se mi fai girare i coglioni ti mando a fanculo facilmente e quindi non sono mai stata ferita. Magari mi sono capitate delle cose, ma ferita mai. 

Ho sempre avuto un sacco di sostegno, sia dalle industrie sia dalle persone che mi scrivevano: un sacco di ragazzi, anche ragazze. Mi sono sentita “coccolata”. Penso che sia un buon segno: nel senso che se io, un’artista emergente, non sento questo peso addosso significa che ci stiamo evolvendo e stiamo cercando di cambiare le cose. A differenza invece di testimonianze o interviste di ragazze anche solo della scorsa generazione che sono sicuramente più incazzate. Secondo me, stiamo andando nella giusta direzione, ed è giusto così». 

Times Square, NY (via Instagram)
Potremmo dire quindi che c’è meno denuncia esplicita, non perché ce ne sia meno bisogno, ma perché qualcosa è migliorato rispetto ai decenni precedenti, quindi è diventato più un sottofondo.

«Io credo che ci sia sempre un bel sottofondo di problematiche sociali che devono ancora essere risolte. Però all’interno dell’industria musicale il ruolo della donna credo abbia avuto diverse evoluzioni. Credo anche che ci sia più interesse nel sostenere progetti femminili. Credo però che il cambiamento all’interno della musica, dell’ambito artistico, debba farlo più il pubblico che l’industria. Mi sembra che da una parte ci stiamo evolvendo, mentre dall’altra continuano ad esserci commenti del cazzo, come sotto i video delle esibizioni di Elodie. La voce è collegata ad un corpo, e il corpo è arte tanto quanto la voce. Se io lo voglio utilizzare in un live e mi sento libera di fare quello che voglio, il pubblico non dovrebbe sentirsi in diritto di additare e insultare. Secondo me, sono queste le problematiche, nell’ambito musicale ovviamente».

Proprio rispetto all’immagine, quand’è che hai iniziato a visualizzare il tipo di artista che avresti voluto essere? E quindi quand’è che hai iniziato a pensare al modo migliore per esprimerlo? Anche attraverso la tua immagine.

«Non so come succede per gli altri artisti, ma io ho capito tante cose strada facendo. Non mi sono mai messa su un tavolino a dire “okay, io sono Assurditè, mi faccio i capelli in questo modo e scrivo canzoni in questo modo”. Non ci ho mai pensato, l’ho fatto e basta. Strada facendo ho capito quello che mi piaceva di più e quello che non mi piaceva. Non so se per svogliatezza o libertà espressiva, non ci ho mai pensato, ho sempre capito quello che mi piaceva una volta che l’avevo fatto».

Secondo te ad oggi quanto conta però l’immagine di un artista?

«Troppo, probabilmente troppo. Credo che conti molto di più l’immagine piuttosto che quello che si dice all’interno delle canzoni. Credo che sia un periodo totalmente di apparenza, di apparizione quasi. Si ricollega a quello che dicevo prima: siamo figli dei nostri tempi. In un periodo in cui la vita sui social è più importante della vita reale è normale che l’immagine dell’artista sia più importante di quello che ti sta dicendo. Quindi non per fare la lamentosa, per fare la boomer, o qualsiasi cosa collegata a questo pensiero, ma penso che sia proprio un’analisi dei fatti. 

Se per un attimo ti fermi e pensi: “Come mai è più importante l’estetica che il contenuto?”, la risposta la trovi nel periodo in cui stiamo vivendo. Se è un male lo scopriremo tra un po’ di anni. Ma non vedo un’evoluzione quanto più un adattamento a quello che stiamo vivendo. Se prima la rivoluzione magari c’era nella musica, nell’arrangiamento: sono nati diversi generi il rock, l’indie… adesso l’originalità non la trovi più in questi elementi, ma nel personaggio e in quello che comunica. Un personaggio che magari non fa questi testi megagalattici, però rappresenta qualcosa di ben specifico. Che magari può essere comunque utile, e quindi è un bene anche quello. Non è una critica la mia, solo un’analisi, perché sembro una lamentosa poi».

E all’interno del genere indie, con tutt3 quest3 artist3, questi grandi numeri, per il numero di canzoni che escono, questa cosa si amplifica? E se l’immagine per un’artista indie conta anche di più, i testi sono più vuoti perché si punta su quantità e immagine? È una cosa che hai notato in particolare in questo genere o a livello più generale?

«È un mercato molto saturo, come dici tu, ma secondo me è saturo in generale il mercato musicale. Perché tutti hanno la possibilità di fare musica. È diventato più semplice e accessibile ed è diventato saturo per questo. Però non credo che ci sia una vera e propria concorrenza: è un termine che non mi piace molto. Perché, se fai l’artista, quello che devi fare è raccontare la tua storia, quindi l’unica persona che concorre con te è il tuo ego, probabilmente. Non ci sono “concorrenti”. 

Dal punto di vista estetico, di personaggi e cose così, penso che sia molto legato a questa cosa: se tu sei in un modo e racconti la tua storia, hai anche la tua personale estetica. Devi essere semplicemente te, non prevalere sugli altri. Non penso che Calcutta quando è uscito con i suoi dischi abbia pensato “okay, adesso mi faccio crescere un po’ la barbetta e mi metto una camicia con sotto una maglietta”, era lui così e basta».

Com’è il tuo rapporto con i social?

«Mi divertono. Mi divertono molto. Su Instagram ho un rapporto speciale con il mio feed, quasi un po’ grave come cosa. Mi piace mantenere un feed colorato nel modo che dico io, bello e ordinato. Di modo che quando vai sul mio profilo c’è un buon balance di colori e immagini. Le storie le utilizzo per comunicazioni, però ogni tanto mi piace anche mettere piccoli spazi di vita quotidiana, o cazzate. TikTok è un grandissimo minestrone: non puoi pensare di restare seria senza un minimo di ironia, è strano. Comunque mi diverto anche lì, ho un bel rapporto, mi piace. In realtà più vedere quelli degli altri che farne di tiktok, sono un po’ drogata. Che è un male secondo me perché mi ruba un sacco di tempo, quella cosa di scrollare finché non trovi qualcosa che ti interessa è un po’ preoccupante. Ieri ho scaricato Threads e anche lì mi sto divertendo molto a leggere, perché si sentono tutti un po’ più liberi su quel social. Alcuni vogliono proprio fare i simpaticoni, del tipo “Mo’ faccio la battuta divertente”, altri invece sono semplicemente liberi, è bello. Ma è ancora da scoprire, vedremo».

Siamo quasi alla fine, penultima domanda: tra quelli che hai scritto, qual è il verso o la strofa che preferisci?

«Mi piace molto “quando ridi forte sei una minaccia di morte più grande dell’America”».

Una domanda che ti aspettavi ti facessi che invece non ho fatto?

«In realtà quando faccio un’intervista fanno più o meno le stesse domande. Non lo so, ma l’ultima volta mi hanno chiesto quale fosse la mia celebrity crush e io ho risposto Tommaso Paradiso».

Autore

Nata tra i monti Lepini, non è che la montagna mi piaccia poi così tanto. Leggo, scrivo, arrivo sempre in ritardo ma cerco di compensare con l'impegno che metto nelle cose. Se potessi vivrei in viaggio, nel frattempo mi accontento di immaginarmi giornalista, una di quelli che raccontano mondi lontani. Che poi così lontani non sono.

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