Svizzero? No, Novichok: l’avvelenamento come marchio di fabbrica del Cremlino di Putin

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Veleni: storia di una pratica di vecchia data

L’omicidio per avvelenamento non è una novità ma una modalità di assassinio perfezionata durante centinaia di anni di storia che ha lasciato dietro di sé una lunga scia di cadaveri. In questo senso, la storia antica ha tanto da insegnare: dalla Grecia di Socrate, condannato a morte tramite l’ingestione di un decotto a base di cicuta, alla Roma degli imperatori Claudio e Commodo, intossicati rispettivamente con un fungo velenoso e con una coppa di vino avvelenata, fino ai Papi, come Clemente II, nelle cui ossa venne rinvenuto del piombo, e Giovanni Paolo I, deceduto in circostanze misteriose che taluni hanno ricondotto al cianuro.

I veleni poi furono molto frequenti soprattutto in età elisabettiana: non è un caso che nelle opere di William Shakespeare svolgano un ruolo centrale nel dipanare le trame dei drammi più noti. A partire da Romeo e Giulietta, dove frate Lorenzo procura il filtro che causerà la morte apparente della giovane protagonista – probabilmente una pozione a base di Belladonna – o anche in Amleto, che è praticamente un dramma di veleni: il padre morto per mano del fratello con del veleno versato nell’orecchio, la madre bevendo dal calice avvelenato del figlio, il figlio a causa di una ferita da taglio con una lama avvelenata intinta nell’aconito.

Arsenico, Cianuro, Cicuta, Aconito, Belladonna. Sostanze apparentemente innocue dal potere mortifero letale. Ma più che alla drammaturgia secentesca, la storia che stiamo per raccontare ha a che vedere con un altro tipo di fiction, le spy-stories alla Ian Fleming, 007 per intenderci, quelle storie tutte agenti segreti e trame politiche sotterranee.

Tavoletta al cioccolato gusto Novichok

«Svizzero?» «No, Novi». Recitava così una vecchia pubblicità della Novi, azienda italiana produttrice di cioccolato. Infatti, il Novichok, il veleno utilizzato per avvelenare Aleksej Navalniyj, attivista politico e giornalista fra i più noti critici del presidente della Russia Vladimir Putin, assomiglia quasi al nome di una gustosa e inoffensiva tavoletta al cacao direttamente uscita dalle mani longilinee di Willy Wonka. A ben vedere, il paragone è grossomodo calzante: come nel noto film di Tim Burton, ispirato al romanzo La fabbrica di cioccolato dell’eccentrico scrittore Roal Dahl, ai bambini che pascolano nella sua fabbrica e mangiano con appetito quei dolciumi prelibati, avvengono nefandezze di ogni tipo.

La mattina del 20 agosto dell’anno scorso, Aleksej Navalniyj si trovava a bordo dell’aereo S7 Airlines, volando da Tomsk in direzione Mosca. Durante il volo ha cominciato a manifestare gravi sintomi di malessere fisico fino a perdere conoscenza. A quel punto il velivolo ha effettuato un atterraggio di emergenza presso Omsk, dove l’attivista è stato condotto di urgenza presso il reparto di rianimazione di un ospedale. Più in là, le analisi effettuate sul giornalista hanno portato alla luce tracce del Novichok, una sostanza nervina già utilizzata nel 2018 per mettere a tacere un’altra personalità scomoda al Cremlino, Sergej Skripal, all’epoca residente nel Regno Unito.

Aleksej Navalniyj

Lo spiegone poco allegro sugli inibitori della colinesterasi

Il termine Novichok, che significa in russo “nuovo arrivato”, si riferisce a una serie di neurotossine sviluppate presso l’Unione Sovietica e in Russia a cavallo degli anni ‘80 e ‘90. Il veleno può essere somministrato in varie forme – liquida, in polvere, anche gassosa – che una volta entrato in contatto con l’organismo, può portare alla morte nel giro di una manciata di minuti. La morte per Novichok assomiglia spesso a quella per infarto, e questo perché gli agenti Novichok costituiscono una serie di composti chiamati inibitori della colinesterasi, i quali interferiscono con l’attività dei neurotrasmettitori, elementi necessari per la regolazione del sistema nervoso.

Le vittime del Novichok muoiono per asfissia e arresto cardiaco: il veleno genera spasmi muscolari terribili, che possono bloccare il battito del cuore e la respirazione, oltre a compromettere irrimediabilmente organi e tessuti. La morte si raggiunge dopo una perdita repentina del controllo delle funzioni corporee, convulsioni e paralisi. I casi di avvelenamento da Novichok possono essere curati con gli antidoti atropina e ossima, fermo restando che anche in questo modo il veleno può comunque arrecare danni permanenti all’organismo.

Il Novichok è il più letale tra gli agenti nervini conosciuti, inclusi il sarin, il tabun e il soman. È stimato essere dalle cinque alle otto volte più tossico e letale del gas nervino XV, classificato dalle Nazioni Unite come arma di distruzione di massa, molto probabilmente utilizzato anche per l’omicidio del fratellastro del presidente nord-coreano Kim Jong-Un nel febbraio 2017.

Breve necrologio degli oppositori politici della Russia

L’avvelenamento è un’eredità del KGB ai tempi dell’URSS. Il caso più eclatante fu quello del dissidente bulgaro Georgi Markov: il 7 settembre 1978 mentre aspettava il bus alla fermata, venne urtato per sbaglio con un ombrello da uno sconosciuto. Morì incomprensibilmente poco dopo. Durante l’autopsia venne rinvenuta sul suo corpo una microscopica pallottola dal diametro di 1,7 millimetri, composta al 90% di platino e al 10% di iridio, rivestita di uno strato di ricina, un veleno per il quale all’epoca non esistevano antidoti.

Ma in tempi più o meno recenti, gli avvelenamenti che vengono attribuiti al Cremlino sono diverse di decine, alcuni certi, altri avvolti ancora dall’ombra del mistero. C’è ad esempio il caso di Anna Politkovskaja, la giornalista che si occupava di documentare le vicende della guerra in Cecenia. Dopo aver subito numerose minacce e pressioni venne prima avvelenata, e poi eseguita con due colpi di pistola, uno al torace e l’altro in testa.

Anna Politkovskaja

O il caso di Alexander Litvinenko, avvenuto nel 2006, ex-spia russa e oppositore di Vladimir Putin, a cui fu messo in una tazza di tè del Polonio 210, una sostanza chimica rarissima e altamente radioattiva. Ma anche quello del già citato Sergej Skripal, quando nel marzo del 2018 due agenti segreti russi spurazzarono del Novichok sulla maniglia della porta della sua abitazione, attentando anche alla vita della figlia Yulia.

Ci sono stati altri casi meno noti di cui i media hanno parlato sommessamente, come quello di Emilian Gebrev, alla fine dell’aprile del 2015, o quello del politico ucraino Viktor Yushchenko, nel 2004, avvelenato con la diossina: riuscì a sopravvivere ma rimase sfigurato a vita. Un altro episodio poco ricordato è quello di Alexander Perepilichnyy, fuggito dalla Russia per aver denunciato uno scandalo inerente ad una truffa ai danni dello Stato in cui erano colluse anche alte cariche militari. O quello di Yuri Shchkochikhin, anche lui morto di colpo, non prima di aver perso “inspiegabilmente” i capelli che andavano via a ciocche, bruciori diffusi su tutto il corpo e strati di pelle che cadevano e si sfaldavano.

Gli 007 dell’Unità 29155

Quando parlavamo di spy-stories alla James Bond, non scherzavamo. I giornali hanno più volte parlato della misteriosa Unità 29155, quella che è stata definita come “lo speciale braccio armato del Gru”, il servizio militare russo. Recentemente Praga ha accusato alcune personalità di questo reparto di aver sabotato nel 2014 un deposito di munizioni. Un’azione che secondo l’intelligence della Repubblica Ceca sarebbe stata portata avanti dagli stessi uomini coinvolti nell’attacco a Skripal in Gran Bretagna.

Il fatto è stato messo in relazione con un altro avvenimento, di 7 anni fa, quello della deflagrazione di Vrbetice, sito nel quale saltarono in aria tonnellate di esplosivi e dove persero la vita due operai. Le ultime indagini sono risalite a Alexander Mishkin e Anatoly Chepiga, appartenenti al Gru, che sarebbero gli stessi responsabili della vicenda Skripal.

Secondo gli americani, Mosca avrebbe posto in Europa una squadra con l’obiettivo di compiere delle missioni particolari: si tratterebbe appunto dell’Unità 29155, nata nel 2008, e composta da veterani russi. Fonti francesi sostengono che farebbero base nell’Alta Savoia, presso Chamonix, Evian e Annemasse, luoghi che raggiungerebbero tramite l’utilizzo degli snodi di Nizza, Roissy, Lione, Ginevra e Cannes.

L’esplosione del deposito d’armi nel villaggio di Vrbetice (Repubblica Ceca)

La violenza ha straordinari effetti mimetici

Ritornando ai veleni, l’aspetto curioso di questa faccenda è che spesso vengono utilizzate sostanze talmente rare da lasciare pochi dubbi su chi sia il responsabile. C’è un che di terribile in questo modus operandi: per chi teme di essere avvelenato, tutto può essere una potenziale minaccia, ogni oggetto innocuo o semplice atto della vita quotidiana, portatore di morte. Questa pressione pone il possibile condannato a morte in una condizione di profondo stress e allerta, lo costringe alla solitudine e all’isolamento dai familiari, per evitare spiacevoli effetti collaterali.

Il veleno poi, una volta in azione, genera nel soggetto avvelenato fortissimi dolori ed effetti distruttivi. Nelle parole di Mark Galotti, esperto di sicurezza militare e di sicurezza russa:

Il veleno è una firma. Il Novichok, come anche il Polonio 210, sono materiali che, se rivelati, mandano un messaggio politico molto chiaro, dicono che a nulla è servito scappare dalla Russia e rifugiarsi a Londra, e nemmeno è servita la scorta o vivere sotto protezione. Al contrario, l’avvelenamento dice che chi tradisce, morirà soffrendo. […] Il veleno permette di commettere un omicidio sancendo pubblicamente chi è il mandante ma lasciando poche possibilità agli investigatori di stabilirlo con certezza.

Il veleno punta a distruggere la psiche e la tempra degli oppositori politici, a creare ed alimentare una continua incertezza che blocca e destabilizza. Anche quando gli avvelenamenti non portano alla morte dei malcapitati, comunque hanno svolto un altro compito vitale per mantenere salda la posizione dei mandanti: quello di avvertire, grazie al clamore dei media, tutte le altre personalità dissidenti, mandando un messaggio di terribile minaccia concreta e tangibile. In altre parole: colpirne uno per educarne cento.

Epilogo: Aleksej Navalniyj oggi

In seguito alle numerose manifestazioni di piazza svoltesi in diverse città del territorio russo, organizzate dagli alleati e sostenitori di Navalny che hanno coinvolto nella loro chiamata alle armi 165 città, la reazione dell’autorità è stata più che repressiva. Vladimir Putin avverte i suoi avversari politici di «non varcare la linea rossa». La Fondazione anti-corruzione dello stesso blogger, è stata dichiarata organizzazione estremista, e chiunque la foraggi con delle donazioni economiche rischia fino a otto anni di carcere. Manifestare per le strade, significa fronteggiare gli Omon, le truppe anti-sommossa russe.

Ciò che fa dormire tranquillo la notte il presidente russo sono i sondaggi sulla popolazione che confermano il favore della maggioranza dell’opinione pubblica: il consenso del presidente è stabilmente sopra il 60% e non sembra in nessun modo destinato a calare. È interessante notare come il confronto con l’Occidente, che si fa col passare dei giorni sempre più aspro, non faccia altro che rilanciarlo e alimentare la fama della sua figura, che promette grossi investimenti su tutti i settori sociali, dalle famiglie alle imprese. Putin continua ad ammonire l’Occidente circa alcune nuove potentissimi armi di cui sarà presto dotato l’esercito russo.

Nel frattempo Alex Navalnyy è attualmente in sciopero della fame da due settimane, in condizioni di salute precaria e recluso in carcere.

Autore

Vengo al mondo lo stesso giorno di Virgilio, lo stesso anno di Enter The Wu-Tang. Bibliofilo, fumettomane, trekker, all’occorrenza festaiolo impavido.

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