È il 9 febbraio 2015 quando circa 300 migranti annegano in seguito al naufragio di quattro gommoni a largo delle coste libiche. È solo il primo di molti episodi analoghi che oggi non fanno quasi più notizia, ma che nel 2015 sconvolgono l’Europa.
Il 2015 è stato l’anno della cosiddetta crisi dei rifugiati: oltre un milione di migranti raggiunsero l’Europa, fuggendo soprattutto dalla Siria, ed in misura minore anche da Iraq e Afghanistan. Essi erano quindi prevalentemente rifugiati, in quanto la Convenzione di Ginevra del 1951 definisce il rifugiato come colui che: temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese; oppure che, non avendo cittadinanza e trovandosi fuori del Paese in cui aveva residenza abituale a seguito di tali avvenimenti, non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra.
L’Europa, però, non è stata la prima meta dei rifugiati siriani. Inizialmente, si recarono nei paesi confinanti: Giordania, Libano, Egitto e Turchia. Questi, però, adottarono policy discontinue sull’accoglienza dei rifugiati, in parte per scarsità di risorse economiche ed in parte per motivi politici.
In particolar modo la Turchia passò da un’open door policy a limitare l’ingresso legale nel paese ed il godimento di diritti per i rifugiati. Ciò fu motivato da ragioni di sicurezza, dopo che nell’estate del 2015 due attacchi terroristici dell’Isis colpirono alcune zone vicino al confine turco-siriano. Questo portò anche ad un maggior coinvolgimento della Turchia nella guerra in Siria, affiancando gli Stati Uniti. Addirittura, si pensò di creare con il loro aiuto una “zona sicura” nella Siria del nord, in cui poter rimpatriare i rifugiati. Il timore dei siriani di essere deportati in una zona ancora sotto il controllo dell’Isis, aggiunto alle loro precarie condizioni di vita in Turchia, li spinse a lasciare il paese.
Per giungere in Europa vi erano varie strade a disposizione: la rotta del Mediterraneo centrale per giungere in Italia dalla Libia, l’attraversamento della frontiera terrestre tra Grecia e Turchia e la rotta del Mediterraneo orientale per raggiungere le isole egee della Grecia dalla Turchia. Quest’ultima è stata la più percorsa per varie ragioni – non ultimo il fatto che l’Italia aveva sospeso nel 2014 l’operazione di salvataggio Mare Nostrum – facendo sì che gran parte della pressione migratoria del 2015 si riversasse sulla Grecia.
Ma l’Europa cosa ha fatto dinanzi a questo flusso migratorio senza precedenti? È stata davvero in grado di gestirlo nel rispetto dei diritti umani?
A livello comunitario le risposte furono ambigue e complesse, ma è possibile rinvenire un pattern: la cosiddetta securitizzazione della migrazione. Per “securitizzazione” si intende, secondo i teorici della Scuola di Copenaghen, presentare un fenomeno come una questione di sicurezza, sostenendo che esso implichi una minaccia esistenziale. A livello retorico, la securitizzazione avviene attraverso un atto linguistico. Ad esempio, parlare di “invasione”, di “emergenza sbarchi” o della necessità di “difendere i confini”, dando l’idea che la migrazione sia un problema di sicurezza.
Da parte dell’Unione Europea l’approccio securitizzante è rinvenibile in diverse misure. Nella primavera del 2015 l’UE ha pubblicato l’Agenda sulla sicurezza e l’Agenda sulla migrazione, due documenti complementari in cui si crea esplicitamente un nesso tra sicurezza e migrazione. L’Agenda sulla migrazione contiene una definizione del meccanismo di “relocation”, cioè il trasferimento di 160.000 migranti da Grecia e Italia ad altri Stati membri entro il 2017. Il meccanismo però prevedeva anche che si potesse rifiutare l’accoglienza dei migranti per ragioni di “sicurezza pubblica”, scappatoia di cui diversi Stati membri – soprattutto quelli dell’Europa centro-orientale – si sono avvalsi. Alla fine è stato oggetto di relocation solo il 30% circa delle persone che si era legalmente previsto potessero essere trasferite, una percentuale che è gravata soprattutto su Francia e Germania.
L’emblema della securitizzazione della migrazione da parte dell’UE, però, è stata la Dichiarazione UE-Turchia del marzo 2016. Alla base della Dichiarazione vi è il meccanismo one-to-one, per cui «per ogni siriano rimpatriato in Turchia dalle isole greche un altro siriano sarà reinsediato dalla Turchia all’UE». Questo dovrebbe avvenire nel rispetto del principio di non-refoulement, in base al quale non si può espellere o rimpatriare un rifugiato in un luogo in cui la sua vita o libertà sarebbero minacciate a causa della sua etnia, della sua religione, della sua nazionalità, della sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o delle sue opinioni politiche. Inoltre, nella Dichiarazione si legge che «la Turchia adotterà qualsiasi misura necessaria per evitare nuove rotte marittime o terrestri di migrazione irregolare dalla Turchia all’UE e collaborerà con i paesi vicini nonché con l’UE stessa a tale scopo».
Il presupposto della Dichiarazione quindi è che la Turchia sia un “paese sicuro” in cui poter rimpatriare i migranti, ma non è così. Nei confronti dei rifugiati siriani la Turchia ha messo in piedi quello che è considerato uno dei più grandi sistemi di detenzione e deportazione al mondo, e lo ha fatto grazie ai finanziamenti europei – più di 200 milioni di euro secondo un’inchiesta di Lighthouse Report pubblicata ad ottobre 2024. Secondo l’inchiesta, gli alti funzionari dell’UE non sono all’oscuro della situazione. Eppure a Bruxelles si chiude un occhio, pur di continuare a far sì che la Turchia sia una zona cuscinetto che freni i migranti dal raggiungere l’Europa. Tanto non ci sono rischi giudiziari per l’Unione Europea: la Dichiarazione è uno strumento di soft law, non vincolante, quindi l’UE non può essere ritenuta responsabile di eventuali violazioni dei diritti umani derivanti da essa.
Si ritiene che in materia di gestione dei flussi migratori vi sia un prima e un dopo il 2015 per l’Europa. Dieci anni dopo, il prezzo da pagare resta ancora altissimo per i rifugiati: in Turchia come in Libia essi continuano ad essere vittime di abusi, torture, prigionia arbitraria e deportazione illegale. E, sempre dieci anni dopo, l’Europa continua ad essere inadeguata nella difesa dei diritti umani.