Sex Work: «Le donne buone vanno in cielo, le puttane dappertutto»

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Ho incontrato Molli, subito dopo aver deciso di scrivere di sex work. Le ho fatto delle domande perché mi interessava la sua storia, prima che la sua testimonianza. Volevo ascoltare una sex-worker e scriverne, per fare luce sul lavoro sessuale. Quando ne discuto, la mia mente si rompe sempre nello stesso punto. Ogni volta non so argomentare a sufficienza, non so avvalorare le mie parole di fronte a visioni diverse dalla mia. «Ognuno dovrebbe essere libero di fare il lavoro che preferisce» dico e mentre lo faccio, qualcosa mi costringe a riflettere su quanto la mia dichiarazione sia onesta, quanto dipenda dal voler occupare la posizione “giusta” (perlomeno giusta teoreticamente per me) e quanto, invece, questa stessa posizione sia in contraddizione con le mie leggi morali. Il sex-work evoca dilemmi controversi, mi attrae e al tempo stesso mi respinge, mi costringe a interrogarmi e a scardinare i miei principi etici. 

«Ho cominciato a fare la sexworker da mistress, insieme al mio miglior amico che faceva il master. Ho aperto un canale online e un po’ per volta sono saliti gli iscritti, fino a raggiungere le 600 persone. Solo dopo ho cominciato a incontrare i miei clienti dal vivo, sempre come mistress e mai per prestazioni sessuali. Pagano per essere insultati, mi portano le sigarette, mi regalano buoni glovo, mi puliscono casa, mi vengono a prendere quando lo chiedo. Ho cominciato, poi, a collaborare con fotografi alla produzione di contenuti di nudo artistico e soft porn. Infine ho aperto un profilo OnlyFans».

Parlare di lavoro sessuale significa riflettere sui rapporti di genere, di potere e sulla sessualità. Per sex-work s’intende qualsiasi attività che prevede un accordo commerciale esplicito tra due o più parti, con le quali si stabilisce una retribuzione economica in cambio di un servizio sessuale, erotico, romantico concordato e limitato nel tempo. In questo è compresa la pornografia, la vendita di contenuti audiovisivi, di intimo usato, cam.

Nel tempo, sul lavoro sessuale sono state elaborate numerose teorie. La prima prende il nome di abolizionismo: «Il lavoro sessuale è un’oppressione patriarcale». Secondo questa concezione, qualsiasi forma di lavoro sessuale sarebbe espressione dell’oggettivazione delle donne a vantaggio del maschio. In altre parole: Il lavoro sessuale è schiavitù e va abolito. La seconda: «Il lavoro sessuale è emancipazione». Questa idea del femminismo considera il lavoro sessuale come una forma di libertà. La terza: «Il lavoro sessuale è un lavoro». Questa linea di pensiero è maggiormente presente all’interno dei movimenti transfemministi. Il lavoro sessuale è un lavoro e come per tutti i lavori, servono diritti. 

«In questo lavoro, non essendo riconosciuto, non esiste tutela. Internet è un mondo difficile. Mi è capitato di vedere divulgati miei contenuti, da me pubblicati su piattaforme a pagamento, su gruppi gratuiti senza il mio consenso e in questo non mi sono sentita affatto protetta. Avrei voluto scrivere una lettera di reclamo ad OnlyFans».

Ascoltando Molli, ho capito che l’errore primo è ridurre il lavoro sessuale a una narrazione piatta e poco stratificata. Donne vittime di sfruttamento e degrado da una parte, eccentriche e trasgressive dall’altra. Ma, in alcuni casi, raggiungere il nucleo delle cose equivale a semplificarle tanto da renderle caricaturali. Il problema delle cronache omogenee e coerenti è che appaiono credibili. La realtà, però, è molto più complessa di quanto non sembri. Le storie hanno il ruolo di mostrare le zone d’ombra e quelle di luce, far emergere le eccezioni. La verità si trova sempre nelle eccezioni. Pensiamo alle sex-worker come entità lontane da noi, ne conosciamo una al massimo due, invece ci passano accanto, stanno dietro di noi in fila alla posta. Molte non lo dicono perché loro, come noi, sono vittime della stessa narrazione che divide il mondo in sante e puttane.  

«Non è facile far coincidere il mio lavoro con le relazioni sentimentali. Ci sono state persone nel corso della mia vita che l’hanno accettato e persone che tutt’ora non lo fanno. Io comunico da subito quale è il mio lavoro al mondo, non voglio nasconderlo. Ho avuto più volte risposte che lasciavano intendere che non ci sarebbe potuto essere nient’altro che sesso e io preferisco sempre la limpidezza. Credo, comunque, che le resistenze ad accettare una professione come la mia siano legate all’idea delle relazioni come possesso. “Sei mi* e io sono tu*” e tutto questo si rifà a uno schema patriarcale ed eteronormato».

Detto questo, lo sfruttamento all’interno dei mercati sessuali esiste, non va negato, è multiforme, ma non è una qualità costitutiva del sex-work. L’alienazione, l’abuso esistono nell’industria sessuale come in qualsiasi altro settore industriale, ma questo, come in ogni altra industria, non definisce l’industria in sé. Solo quando i diritti del lavoro vengono riconosciuti e applicati i lavoratori saranno nella condizione di denunciare gli abusi e organizzarsi contro condizioni inaccettabili. Lo sfruttamento riguarda qualsiasi ambito lavorativo, il fatto che appaia peggiore quando parliamo di lavoro sessuale definisce la visione dicotomica che viviamo nei confronti dei corpi e del sesso: sporco e perverso da un lato, gratificante e santificato dall’altro. «Fare un pompino per 5 euro sembra più grave che cogliere pomodori a 4, ma lo sfruttamento è sempre sfruttamento» (G. Zollino, Sex work is work, Eris 2021). La narrazione delle donne che arrivano da altri paesi e sono costrette a prostituirsi e a stare sotto pappone è solo una delle narrazioni. Ci sono sex-worker che scelgono di lavorare col proprio corpo perché non possono fare altro. Ma perché dovremmo stigmatizzare la loro professione se non lo facciamo con nessun’altra? Ci sono sex-worker che scelgono di vendere servizi sessuali perché lo trovano bello e divertente, e sarebbe bene credere loro e liberare i loro corpi dallo sguardo compassionevole che castiga a un giudizio morale più o meno latente. In Italia il lavoro sessuale non è illegale, ma non è nemmeno un lavoro, quindi non ci sono né diritti, né tutele. La legge Merlin, in vigore dal 1958, esprime un giudizio molto chiaro: le sex-worker sono vittime e come tali vanno salvate. 

«Per me questo è un lavoro come un altro. Forse c’è una parte di rivendicazione femminile. Mi rivendico in quanto donna. Questo è il mio corpo e nessuno dovrebbe giudicarmi per quello che faccio. Certamente mi piacerebbe che il lavoro venisse riconosciuto. Meriterei, insieme alle mie colleghe, di essere tutelata. Purtroppo in Italia non accade». 

Le storie di sex-work nella visione comune possono essere racchiuse sotto un unico grande “termine ombrello”: puttana. Lo stigma della puttana è una minaccia costante e impone di non farsi sentire, vedere il meno possibile. Sulle nostre spalle da secoli portiamo il fardello del patriarcato, di valori cristiani. Le donne si vergognano costantemente e si sentono in colpa ancor prima di agire. A loro è stato fatto credere che la sessualità maschile fosse attiva e quella femminile passiva e introversa. Ci hanno detto che le differenze biologiche determinano e giustificano le disuguaglianze sociali ed economiche, che il nostro comportamento sessuale definisce il nostro lavoro e la nostra identità. «Abbiamo imparato che la dignità ce l’abbiamo nella vagina» (M. Neira – Tedx Rompiendo las barreras del estigma). Ma siamo proprio sicur* che è lì che si trova? Io dico di no. 

Per secoli hanno proposto un unico modello, quello eterosessuale, monogamico, dicendo che tutte le donne che si fossero ribellate a questo schema, sarebbero state puttane. Ma perché le puttane fanno così tanta paura? La puttana rompe le regole, la donna che sfida l’assetto culturale patriarcale che la vorrebbe passiva, preda e mai predatrice, angelo del focolare domestico. 

Se ci fosse una scala della rispettabilità, certamente il sex-work sarebbe all’ultimo posto. La mancanza del riconoscimento legale del lavoro sessuale, unito al peso dello stigma sociale danno adito ad abusi di potere e ricatti psicologici che passano inosservati e sono talvolta giustificati dalle persone che li subiscono. 

Ho chiesto infine a Molli: Se fossi ricca faresti questo lavoro?

«Certo, farei solo questo. Aprirei un’agenzia di sex-worker e offrirei ogni giorno test gratuiti per le malattie veneree».

Saprei rispondere con più elementi, ora, se mi chiedessero cosa ne penso del sex-work. Risponderei allo stesso modo: chiunque dovrebbe essere liber* di fare il lavoro che preferisce o che l* capita o che in quel momento trova o che l* diverte. Ognuno dovrebbe poter scegliere di fare del proprio corpo ciò che vuole, mostrarlo, gratificarsi. L’unica regola è e rimane sempre il consenso. 

Autore

Cresciuta nella campagna Casertana, non a raccogliere margherite ma a catturare gatti, scrivo e leggo da quando posso ricordare. Ho studiato scienze cognitive perché le domande sono meglio delle risposte. Mi vedo cambiata, ma mi incastro sempre negli stessi ganci.

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