Il 14 giugno del 1837 si spegneva a Napoli Giacomo Leopardi, icona della letteratura italiana. Geniale, profondo, sensibile e sfigato. Sì, perché è così che viene descritto dalla tradizione: gobbo, triste e immerso nello “studio matto e disperatissimo”.
Friendzonato da Silvia – rimembri ancora quel tempo della mia sfiga mortale– , annoiato sulle sudate carte, gracile e cagionevole, pessimista, ma pessimista per tre. Gli studenti più attenti (quelli meno interessati si sono fermati alla scena finale di Notte prima degli esami) avranno studiato sul manuale di letteratura italiana ben tre tipologie di pessimismo leopardiano: individuale, storico, cosmico e per pochi eletti addirittura quello eroico. Praticamente un videogioco a livelli, fino alla parte finale in cui si spegne a Napoli per via delle deformità fisiche e psicologiche. Morto di studio, per alcuni. Io dico che invece lo studio l’abbia salvato. Ma facciamo un passo indietro.
A vent’anni Giacomo scriveva l’Infinito. Siamo tra il 1818 e il 1819, il poeta osserva una siepe e da lì si perde. Ha una sensibilità spaventosa, avverte i limiti della natura umana, ma in un certo senso riesce a superarli: non arriverebbe a questa immensità senza quel sedendo e mirando interminati spazi. Percepisce la vertigine, la tendenza verso l’assoluto e gli sovvien l’eterno. E annega. Ma attenzione: il naufragar gli è dolce. Come può essere pessimista una persona che nel disorientamento più totale riesce a trovare piacere? Naufraga, ma dolcemente.
Ed è proprio negli Idilli (definiti dall’autore stesso «avventure dell’animo»), di cui fa parte anche l’Infinito, che si parte dalla contemplazione della natura, dall’osservazione del bello (o graziosa luna), dall’attesa della sera del dì di festa, dal vago e dall’indefinito, per arrivare poi alla scoperta più intima del proprio animo, alla conoscenza di sé. Niente ondata di pessimismo e infelicità, solo tanta voglia di comprendersi fino in fondo.
Lo studio sarà anche la sua fine, ma io la vedo lieta. Un vissero per sempre infelici ma coscienti.
Scrive nel suo diario, lo Zibaldone: «È necessario amare e cercare la maggior vita possibile nelle cose esistenti» (1823). Coltivare amore e saperlo riconoscere, non istigazione al suicidio.
Eppure galeotto fu il pessimismo cosmico. Ma cos’è davvero?
Concezione filosofica che considera l’esistenza di per sé senza scopo, destinata all’insoddisfazione dei propri piaceri, all’eterno patire. Ma il passaggio mancante è proprio questo: non finisce qui per Leopardi. Non ci sta dicendo di accartocciare il pianeta e vivere per inerzia, perché tanto il pendolo che oscilla fra noia e dolore ci finirà in fronte, ma propone una via per il riscatto. Aggiungo: pessimismo cosmico non significa estendere all’umanità la propria sfiducia, il proprio disagio individuale. E non include nemmeno fare come Don Chisciotte che litiga con i mulini a vento -e infatti viene preso per pazzo- prendendosela con la natura. «Ma è matrigna!» si potrebbe obiettare. Sì, ma pur sempre madre di parto.
Quello che Leopardi ha compreso è proprio la sofferenza come parte dell’esistenza umana, condanna inevitabile di tutti gli uomini ma condizione aggirabile, qualcosa con cui poter convivere, con cui dover fare i conti, che c’è, che ci sarà, ma che è bene vivere a pieno per riuscire a trarne forza. La sua non è rassegnazione ma un inno alla vita.
Desiderare la luce
«E gli uomini vollero le tenebre piuttosto che la luce», dal Vangelo di Giovanni (III, 19). Così apre uno dei suoi ultimi componimenti, edito postumo nell’edizione del 1845 dei Canti, La Ginestra. Canzone di sette strofe, lode al piccolo fiore nella cornice del Vesuvio, in un paesaggio minaccioso e imponente. Incarna l’umiltà, il coraggio e la resistenza, fragile creatura vivente che si batte contro un terreno arido. Eppure, resta in piedi nella sua fierezza, ed è ciò cui l’umanità dovrebbe aspirare. Uomini che collaborino per un onesto e retto vivere, che sappiano lottare contro una natura ribelle, ma insieme. Uniti, in quanto social catena, non depressi, disillusi e senza speranza.
Ricordiamo, quindi, la grandezza di un poeta che ha saputo cogliere nell’esistenza umana un inevitabile dolore, sentimento però necessario a cogliere il valore prezioso del piacere, per quanto fugace sia. Che ha visto nella Ginestra un esempio da emulare, nella natura un ostacolo da superare, nella fratellanza un ultimo appiglio in cui credere. Un animo puro e sensibile, capace di interrogare e interrogarsi, di superare la propria siepe e toccare l’Infinito.
E gli uomini vollero le tenebre, ma Leopardi, la luce, la desiderava eccome.
Autore
Roma, lettere moderne, capricorno ascendente tragedia. Adoro la poesia, tifo per l’inutilità del Bello, sogno una vita vista banchi di scuola (dal lato della cattedra, preferibilmente). Non ho mezze misure, noto i minimi dettagli, mi commuovo facilmente e non so dimenticare. Ma ho anche dei difetti.