Quella dell’Ilva di Taranto è una storia assurda

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Il quartiere Tamburi di Taranto ha poche caratteristiche: dai palazzi alti e grigi si vede il mare e i palazzi sono alti e grigi perché c’è un’acciaieria che dal 1965 ha ucciso una media di 1650 persone l’anno. La storia dell’Ilva dipende dalle scelte affaticate della Prima Repubblica.

Gli inizi

Nel 1947, quando era ancora ministro, Antonio Segni scriveva ad Alcide De Gasperi: «ti scongiuro di interessarti al problema della terra. Non dobbiamo mancare alle promesse fatte, alle nostre direttive sociali. Dobbiamo lavorare per risollevare le regioni del Sud arretrato, sollevare le condizioni dei braccianti agricoli, fornire la trasformazione della terra e la formazione della piccola proprietà». Due anni dopo le lotte contadine organizzate dai lavoratori e le lavoratrici nel sud Italia costrinsero il governo a occuparsi delle questioni legate alla condizione sociale dei braccianti. Segni riforma il modello di assegnazione delle terre ai contadini, sostenendoli nel processo di bonifica al fianco di Mario Bandini e Manlio Rossi-Doria, proponendo un paradigma che potesse ricucire esattamente dove il movimento contadino indicava. 

Fu De Gasperi, contrario alla riforma agraria nazionale, ad esortare il governo perché ci si adoperasse per il meridione, impostazione politica che Segni condusse in ogni sua azione da ministro fino al 1955, quando divenne presidente del Consiglio. Ogni cosa vacilla negli anni che passa alla conduzione del governo: la crisi del Canale di Suez, la crisi politica con Fanfani, le difficoltà d’integrazione europea, la rivoluzione ungherese del 1956. 

Il 15 febbraio 1959 si costituisce il secondo governo Segni, in cui la fase di crisi appare oltrepassata in favore di movimenti economici positivi: la disoccupazione diminuisce, aumenta l’industrializzazione e l’Italia si colloca tra i paesi più dinamici del mondo. Sono queste condizioni che rendono possibile l’accordo tra il governo, l’IRI – Istituto per la Ricostruzione Industriale – e Finsider, la sua società finanziaria, per la costruzione della più grande acciaieria d’Europa. 

Nel 1959 iniziano i lavori a Taranto, concludendosi sei anni dopo, nel 1965. Taranto non fu la prima scelta, il governo propose la costruzione a Vado Ligure, in provincia di Savona e poi a Piombino, in Toscana, dove il progetto sarebbe rientrato nello stabilimento siderurgico già esistente. Taranto era vicino al mare, in una zona pianeggiante e con grande disponibilità di calcare, individuando queste tra le ragioni per cui si decise di investire nel Sud. Alle spalle dell’Ilva rimane un paese in ricostruzione, che con il modello impostato da Segni investe nel meridione risultando nella creazione di 43.000 posti di lavoro nel 1981. Dopo l’inaugurazione dell’Ilva seguirono una serie di visite istituzionali, tagli di fiocchi e strette di mano, la più impressionante, forse, fu la messa di natale del 1968, celebrata dal Papa Paolo VI all’interno dell’impianto industriale. Nel 1980, il Presidente della Repubblica Pertini pranzò con gli operai, durante i primi mesi della crisi del mercato dell’acciaio.

La prima inchiesta

Nel 1995 il Gruppo Riva, decimo produttore mondiale di acciaio, acquista dallo Stato l’intero stabilimento dell’Ilva, rispondendo alla crisi iniziata negli anni Ottanta. Sedici anni dopo, nel 2011, l’Italia era l’undicesimo paese al mondo per produzione di acciaio. Lo stabilimento produceva circa 9 milioni di tonnellate l’anno, contribuendo alle 28 milioni di tonnellate totali prodotte annualmente dall’Italia. 

Già dai primi anni duemila si inizia a discutere a livello europeo di sviluppo sostenibile, conducendo ad un cambiamento delle normative comunitarie che iniziavano a cogliere la nuova sensibilità sociale rispetto ai temi ambientali e al cambiamento climatico. Questo cambiamento culmina, per lo stabilimento dell’Ilva, in una pronuncia della Corte dell’Unione Europea del 30 marzo 2011. Le violazioni indicate dalla Corte si sostanziano nella violazione della Direttiva 2008/1, che vincola le attività industriali ad alto potenziale inquinante a dotarsi di alcune autorizzazioni comunitarie che obbligavano a rendersi responsabili dei danni ambientali commessi, risarcendo ove necessario. La Corte sosteneva che non ci fosse stato, da parte del Gruppo Riva, il rilascio delle «AIA», cioè le autorizzazioni integrate ambientali, astenendosi anche dal presentare un censimento di tutti gli impianti esistenti e a rischio, come stabilito dalla norma «IPPC», prevenzione e riduzione integrata dell’inquinamento. 

Con una nota del 14 aprile 2009, il Ministero dell’Ambiente, allora guidato da Stefania Prestiagiacomo sotto il quarto Governo Berlusconi, riferisce alla Corte di non essere in possesso delle autorizzazioni su territorio nazionale, dunque delle AIA. Le AIA, tuttavia, sono piena competenza del Ministero, ragione per cui la Corte di Lussemburgo condanna definitivamente l’Italia. 

Il 26 ottobre 2012 il governo dispone il commissariamento dell’Ilva, concedendo però la ripresa delle attività fino a marzo 2014 appellandosi all’allora disegno di legge 207/2012 (oggi legge) secondo cui assicurare l’apertura degli stabilimenti era necessario per metterli in sicurezza, oltre che per garantire i livelli occupazionali e la presenza di un polo così strategicamente importante per il Paese. La permanenza dei lavoratori all’interno dell’Ilva, nonostante il commissariamento e le segnalazioni ormai condivise e numerose rispetto alla sicurezza degli impianti, danno vita alle prime proteste da parte dei cittadini di Taranto, ma non solo. 

A novembre 2012, tramite un’indagine della Guardia di Finanza, vengono alla luce 11mila telefonate intercettate del responsabile delle relazioni istituzionali dell’Ilva Girolamo Archinà. Risulta evidente, per la prima volta, la volontà dei vertici dell’acciaieria di tenere sotto controllo la diffusione di informazioni legate alla situazione ambientale, coinvolgendo vertici politici e la stampa. Sempre per mano di Archinà risulterà, più tardi, il versamento di una tangente al consulente della procura Liberti, di 10mila euro, per allentare l’attenzione attorno alla fabbrica. 

Dal 2013 cittadini e organizzazioni non governative iniziano a lamentare emissioni inquinanti provenienti dall’acciaieria, rivolgendosi alle autorità italiane ed europee. La Commissione europea esegue delle prove di laboratorio che rivelano un forte inquinamento dell’aria, del terreno e delle acque che coinvolge non solo l’area industriale dell’acciaieria, ma l’intera città, soprattutto nel quartiere Tamburini. Oltre a segnalare la presenza di inquinamento generalizzato attorno alla città, la Commissione segnala all’Italia anche la mancanza di controlli e interventi negli impianti, per garantire la sua sicurezza. 

L’anno successivo la Commissione invia all’Italia un parere motivato per segnalare altre infrazioni, non avendo ricevuto risposta rispetto agli avvisi precedenti. Si segnalano carenze nella gestione dei rifiuti, pochi se non inesistenti controlli delle emissioni degli impianti e l’inosservanza, ancora, di quanto stabilito dall’AIA. 

Il processo «Ambiente svenduto» e il coinvolgimento della Corte di Strasburgo

Il processo di svolta nella storia giudiziaria dell’Ilva è quello che inizia nel luglio 2015, a seguito della morte di un lavoratore presso l’altoforno «Afo2», dopo l’esplosione di materiale incandescente. Il 15 maggio 2017, due anni dopo, la Corte d’Assise di Taranto inizia un processo per disastro ambientale, avvelenamento da sostanze chimiche e associazione a delinquere. Il processo è noto come «Ambiente svenduto» e coinvolge 50 indagati, tra cui anche Nicola Vendola, allora governatore della Puglia, coinvolto per concussione. 

Questo nuovo processo rende nuovamente nota la questione dell’Ilva e l’intervento della Corte di Strasburgo, cioè la Corte europea dei diritti dell’uomo, risulta in un’accusa per l’Italia di aver commesso «crimini contro l’umanità». Furono alcuni cittadini di Taranto, colpiti personalmente dalla gestione delle acciaierie, a rivolgersi alla Corte. Molti di loro, come riportato nei documenti relativi al processo, avevano in famiglia persone con malattie cardiovascolari, respiratorie o neoplasiche – cioè di mutazione cellulare del DNA – sorte a causa delle emissioni dello stabilimento. Il capo di imputazione si allarga anche alle autorità nazionali, considerate direttamente responsabili di non aver creato il quadro normativo ed amministrativo adeguato a tutelare i cittadini di Taranto e a regolarizzare la vita dell’Ilva.

Tecnico al lavoro all’interno dello stabilimento Ilva, anni ’70

Il piano Ilva del 2017

Nel 2017 il governo Gentiloni crea il «Piano Ilva», un piano ambientale di riqualificazione degli impianti, che per la prima volta considera le ripercussioni che questi hanno avuto ed hanno ancora sull’ambiente circostante e le persone. Il Piano si proponeva di valutare il danno sanitario provocato ai lavoratori dell’Ilva e ai cittadini di Taranto, decarbonizzando l’area e adeguandosi a quanto contenuto nelle AIA, le autorizzazioni ambientali. Qualche mese dopo la pubblicazione, il TAR di Lecce contesta il Piano giudicano irrisorie le cifre stabilite per il risarcimento dei danni sanitari.

Il TAR di Lecce, poi, viene tacciato dall’Avvocatura dello Stato, da Am InvestCo Italy e dalla stessa Ilva di incompetenza, rallentando così i passaggi già pigri del processo. La questione si scioglie appurando che il Piano Ilva non prevedesse sufficienti strumenti per affrontare il problema degli impianti, né dal punto di vista dei risarcimenti né dal punto di vista ambientale. 

A causa del fallimento di questo Piano, e dei successivi tentativi di sanare la situazione, i lavoratori dell’Ilva si sono per lungo tempo trovati davanti ad un bivio: continuare a lavorare nello stabilimento, nonostante fossero chiari i danni prodotti, o rimanere disoccupati. Il dramma dei dipendenti, oggi circa 8.160 persone, è una delle più grandi fratture del mondo del lavoro degli ultimi anni. Nessuno è stato in grado di trovare la forma di tutela ed accompagnamento adeguata per chi ha subito i danni dell’Ilva.

L’ex Ilva oggi

Fino al 2018 la società e gli impianti sono rimasti sotto commissariamento, incastrati in un limbo in cui si tentava di risanare i danni ambientali e ridurre l’impatto sul territorio di Taranto. Lo stesso anno, tramite un’asta, ArcelorMittal, multinazionale dell’acciaio, acquisisce l’ex Ilva (ora Acciaierie d’Italia), trovandosi a dover risanare la società e i grandi problemi che dipendono dall’acquisizione degli stabilimenti.

La produzione d’acciaio, oggi più che mai, non è un qualcosa a cui si può rinunciare. Per questo, e per la difficoltà di mandare avanti lo stabilimento rispondendo alle responsabilità che gli spettano, da anni l’ex Ilva si trova in una fase di stallo. Per questa ragione, lo Stato ha tentato di fare diversi interventi, quasi nessuno ha funzionato. Nel dicembre 2020 era stato approvato un piano per far acquisire allo Stato il 60% del capitale entro l’anno successivo, provando a sostenere ArcelorMittal nella riqualificazione ambientale della zona, ma gli impianti erano sotto sequestro, ragione per la quale si riparlerà di questo accordo a maggio di quest’anno. 

A dicembre 2022 lo Stato fa un prestito di 680 milioni di euro ad Acciaierie d’Italia, il decimo fatto con soldi pubblici. Un anno dopo, a novembre, ArcelorMittal spegne uno dei due altiforni dell’impianto, operazione complessa che inficia nei livelli di produzione della fabbrica tutta. Oggi, il governo è alla ricerca di un nuovo socio che possa sostituire ArcelorMittal, non più interessata a sostenere Acciaierie d’Italia nel progetto di riqualificazione. Gli impianti, tuttavia, non sono appetibili per nessun investitore: sono perennemente in stato di crisi, il governo fatica a gestirne l’utilizzo e le proteste dei cittadini di Taranto sono sempre più pressanti.

Dall’estate del 2023 l’azienda ha dovuto ridurre o spegnere completamente alcuni impianti dello stabilimento, pratica dispendiosa in termini energetici ed economici. La crisi dell’energia del 2022 non ha facilitato il funzionamento di Acciaierie d’Italia, ormai strette in un nodo in cui una via risolutiva e percorribile sembra impossibile da identificare. 

Lunedì 8 dicembre si sono incontrati gli esponenti di ArcelorMittal e rappresentanti del governo per provare a raggiungere un accordo. Il mancato interesse della multinazionale – che possiede il 68% dell’impianto – di continuare ad investirci, ha obbligato lo Stato a mostrarsi interessato a sanare, con un nuovo accordo, la sua ipotetica assenza, provando a proporre un nuovo equilibrio che convincesse. Secondo il Sole24Ore è possibile che si aprirà un contenzioso tra lo Stato e ArcelorMittal e che l’Ilva venga messa sotto amministrazione straordinaria venendo, cioè, gestita nelle sue possibili funzioni da un Tribunale che però darà priorità alla necessità di risarcire coloro che hanno subito i danni fatti negli anni. 

La situazione, quindi, è di completo immobilismo. ArcelorMittal non ha più interesse ad investire in uno stabilimento così fragile nelle sue capacità prestazionali e lo Stato, che non intende rinunciare a tutto ciò che rappresenta l’ex Ilva in termini economici e di occupazione, vorrebbe acquistarlo ma non riesce ad accordarsi con gli attuali gestori perché questo avvenga.

La nazionalizzazione di Acciaierie d’Italia è nei piani da almeno quattro anni, ma questo susseguirsi di difficoltà e la paura che si possa di nuovo incappare in mancanze gestionali ed errori amministrativi, porteranno questa storia – con buone probabilità – ad esaurirsi in una nuova, ennesima, privatizzazione.

Autore

Benedetta Di Placido

Benedetta Di Placido

Vicedirettrice e responsabile editoriale

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