Quel che resta della nostra identità pacifista

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Per quanto ci piaccia raccontarci simili al passato e cullarci nell’idea che se ce l’hanno fatta gli altri ce la faremo pure noi, non so se possiamo davvero dirci tranquillizzati.

Marcia della pace Perugia-Assisi, 1961

Aldo Capitini è stato una delle menti più brillanti del Novecento italiano. Sulla scia del criticabile universo gandhiano, era diventato un punto di riferimento per tutto il panorama pacifista del nostro paese, che lui stesso aveva plasmato e creato. Nel 1961 organizza la prima Marcia per la Pace e la fratellanza dei popoli, un corteo che da Perugia ad Assisi traccerà per la prima volta il solco netto del movimento pacifista italiano. Nello stesso mucchio di persone era riuscito a convogliare il pacifismo social-comunista, quello cattolico e quello liberal-radicale.

L’osso più duro del movimento pacifista probabilmente è stata la frazione cattolica, che per anni non si era neppure opposta al servizio militare, guidata dalle opinioni di papa Pio XII che sosteneva essere tra i doveri del buon cristiano quello di rispettare la legge, senza appellarsi alla propria coscienza per rifiutarne i precetti.

Un cittadino cattolico non può appellarsi alla propria coscienza per rifiutare di prestare i servizi e adempiere i doveri fissati per legge

(papa Pio XII)

L’obiezione di coscienza al servizio militare fu il grande argomento del movimento pacifista fino agli anni Settanta. La prima opposizione di stampo cattolico alla leva militare giunge solo negli anni Sessanta, prevalentemente grazie alle prese di posizione di don Lorenzo Milani, religioso ed educatore cattolico tra i più illuminati della storia recente. In forza delle sue idee, don Milani fu denunciato all’autorità giudiziaria due volte, ma ebbe sufficiente tempo per iniziare a far serpeggiare, anche tra i cristiani, l’idea che non ci fosse corrispondenza tra la tacita obbedienza alla leva e la loro fede.

Nello stesso periodo il movimento prende posizione nei confronti di altri grandi eventi che stavano cambiando il corso della storia: la costruzione del Muro di Berlino, il regime dei colonnelli in Grecia, il golpe di Pinochet e la guerra in Vietnam.

Manifestazione per il Vietnam libero, Torino 1970

A sorprendere è la trasversalità del movimento, la sua capacità di raccogliere persone di ceti sociali diversi e con occupazioni diverse, rendendo la pace una priorità comune al di là delle problematiche soggettive, quindi di classe, che in quel momento erano preponderanti.

Una delle più efficaci modalità di protesta erano la non-collaborazione e il boicottaggio, che coinvolsero per esempio i portuali italiani che rifiutarono di scaricare le navi greche e cilene. Questa graduale presa di posizione – oltre al tradizionale corteo – condusse alle proteste, sempre più protagoniste, contro il nucleare. Questa nuova fase verrà definita dal politico, giornalista e pacifista Alexander Langer, come “pacifismo concreto”.

Con meno tifo e meno bandiere, meno slogan e meno manifestazioni, ma con un’infinita quantità di visite, scambi, aiuti, gemellaggi, carovane di pace e quant’altro. Un pacifismo (finalmente!) meno gridato, ma assai più solido e più concreto. Il che vuol dire anche più complicato, perché la vita è complicata, e la pace non si ottiene per vie semplicistiche: né con il sostegno unilaterale alle parti ritenute “buone” e “vittime”, e neanche con l’idea che un massiccio intervento armato esterno potrebbe davvero pacificare la regione.

(Alexander Langer, 1990)

La concretezza di questo passaggio è data da un impegno fattuale nel portare aiuti umanitari a chi ne aveva bisogno. Lo stesso slancio verso l’azione condusse poi il movimento a ripensare e rendersi protagonista di una riprogettazione dell’apparato istituzionale, rappresentato prevalentemente dall’ONU e dall’Unione Europea, a cui si iniziavano a domandare iniziative più serie per ottenere il disarmo e ridurre le spese militari.

Alla fine degli anni Novanta l’interesse verso le istituzioni, ora considerate più di prima come validi interlocutori, si spezzò con il conflitto del Kosovo. La NATO intervenne bombardando la Serbia senza passare per l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU con l’operazione “Allied Force”. Nel frattempo, il panorama internazionale stava mutando e con lui le priorità dei pacifisti. L’attenzione per la tematica del nucleare gradualmente diminuiva, mentre aumentava l’interesse verso il ruolo occidentale nelle “nuove guerre”. Fino al duemila i conflitti sparsi per il pianeta sono stati circa 56, con un 90% di vittime civili sul totale.

In questo momento nascono in Italia diverse associazioni pacifiste che iniziano a frammentare il movimento, ma che contribuiscono a dargli carattere più concreto, tra queste: l’Associazione per la Pace e coordinamenti come Tavola per la Pace. A livello internazionale si diffonde l’International campaign to ban landmines (ICBL) – per la messa la bando delle mine antiuomo, che nel 1997 vincerà il premio Nobel per la pace.

ICBL – premio nobel per la pace, 1997

A modificare nuovamente la rotta del movimento pacifista è l’attentato alle Torri Gemelle del 2001 e l’intervento in Afghanistan che lo seguirà. L’oblio in cui gli Stati Uniti condurranno l’occidente con la tattica della guerra preventiva-permanente porteranno il movimento a riempire nuovamente le strade, stavolta con la più grande manifestazione mai vista nel mondo che condusse a Roma, il 15 febbraio del 2003, 400 gruppi e associazioni. Lo stesso giorno, in 800 città nel mondo, ci fu la stessa mobilitazione.

110mila in piazza contro la guerra a Roma, 15 febbraio 2003

Con questa nuova fase il movimento pacifista si è trovato a ricalcolare il proprio percorso, facendo i conti con una società mutata dove non era più possibile rinunciare al pacifismo concreto, ma neanche a quello politico, che li porterà a schierarsi apertamente contro la NATO e le sue politiche.

Allo stesso tempo, appaiono più legate che mai le tematiche di giustizia economica e sociale a quelle pacifiste, che mantengono comunque salde le rivendicazioni sul disarmo, la prevenzione dei conflitti e la costruzione di una cultura di pace.

S’è tutto sgretolato?

Oggi è tutto diverso. Abbiamo prodotto una frattura che non ha seguito la precedente evoluzione – che si esplicava in nuovi temi ed approcci – ma si caratterizza per mutamenti sociali e antropologici che hanno distrutto il movimento pacifista al punto che non è quasi più percepibile come entità unitaria.

Non sembra sia più possibile riconoscersi tutti sotto un cappello così ampio (o così riduttivo) come quello del pacifismo. Le differenze sociali che ci allontanano e ci costringono ad isolarci in nuclei coattivamente creati dalla storia divorano qualsiasi speranza d’unità, figurarsi sotto il segno di una pace che non ci riguarda.

Ritrovarci comunemente sensibili nei confronti della sofferenza altrui inizia a sembrare un’impresa talmente difficile da puzzare d’impossibile. Siamo così lontani e incapaci di stabilire un contatto reale con chi è diverso e rappresenta un’alterità complessa da gestire, che non nutro fiducia verso la costruzione di un sentimento collettivo nei confronti di dinamiche geopolitiche che non ci riguardano. O meglio sì, ma sempre in modo elitario.

Non so se le crepe che ci sono tra noi potranno mai essere riempite e se potremo mai riconoscere con lucidità comune cosa è giusto e cosa no. Tentare di salvare i brandelli che ci restano in mano è un lavoro certosino e complesso, ma qualcuno ha sicuramente ago e filo.

Autore

Benedetta Di Placido

Benedetta Di Placido

Capo Redattrice

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