Tre anni dopo il lockdown: ne siamo usciti davvero migliori?

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Tre anni fa iniziava in Italia il lockdown ed entrava nelle nostre vite il Covid 19. Il tempo in questo caso è complicato da valutare, perché abbiamo collettivamente imparato come stare in casa per tre mesi senza poter vedere nessuno, come il nostro “tempo libero” non abbia poi questo gran valore se non condiviso con qualcuno, come anche una giornata fuori a fare qualcosa che ci piace ci faccia crescere e vivere di più che una settimana a stare in casa a fare torte.

Ma un momento: lo abbiamo imparato?

Dico “imparato” perché a mia memoria questo era il verbo più usato, ovunque – in tv, sui social, in famiglia – in riferimento a quello che questa tragedia della pandemia doveva appunto “insegnarci”. Dovevamo capire il valore intrinseco e contingente delle cose, il piacere autentico del vedere le persone negli occhi e condividere con loro anche solo una chiacchierata davanti ad un caffè; e si diceva sempre «quando sarà finita», «quando potremmo di nuovo» allora, finalmente, faremo tutto meglio, più pienamente, con più felicità e in modo più spontaneo: insomma la narrazione collettiva di quello che indubbiamente è stato un dramma era che questo avrebbe portato ad una grande catarsi, che avrebbe trasformato le nostre vite dopo la sofferenza.

Ecco, mi è veramente difficile pensare che questo, anche in minima parte, sia accaduto davvero. Premetto, dato che potrebbe già trasparire il tono polemico velatamente celato, che in questo articolo non c’è nessuna pretesa di ricostruire con esattezza quello di cui si parla, né di fornire soluzioni e giudizi di valore su cosa sia giusto o sbagliato, oppure di attribuire colpe, ma solo commentare quello che mi sembra si possa dire su quanto accaduto; da qui l’indeterminatezza dell’analisi e, appunto, il tono polemico.

Partiamo da oggi

Forse conviene considerare come viene visto il Covid oggi, per parlare dei suoi presunti “effetti benefici”, quelli, insomma, che avrebbero dovuto «renderci migliori».

Mi sembra davvero un miraggio, un ricordo, quello del Covid, insieme ad i suoi “oggetti”. Le mascherine sono una presenza altalenante, tra chi non le indossa più, chi le mette solo nei posti dove «è facile che te lo prendi» (come i mezzi pubblici), chi invece continua ad indossarle con più assiduità, ma ci rinuncia comunque appena può. Insomma, non è più percepita, la mascherina, come quel mezzo salvifico contro il nemico invisibile, e che ci faceva sentire a posto perché rispettavamo gli altri e proteggevamo noi stessi. Perché mi sembra che insieme alle mascherine sia gradualmente venuto via il senso di uguaglianza che ci dava indossarle. Senso di uguaglianza perché ci faceva sentire “sulla stessa barca”, perché anche quando ci si sudava sotto perché faceva troppo caldo, oppure quando erano un po’ troppo usate, le indossavamo noi e chi ci stava vicino, indifferentemente.

E questo portava all’ovvia conseguenza che chiunque invece non lo facesse, specialmente nei luoghi più affollati, fosse visto da tutti gli altri mascherati come irrispettoso. Stessa cosa per le altre ritualità: il metro di distanza, il gomito per la tosse, il gel disinfettante sulle mani. Tutte queste cose, oggi, non si vedono più. E menomale, ovviamente: la narrazione per cui il rispetto di queste prescrizioni, che era diventata un’abitudine, ci avrebbe insegnato qualcosa o ci avrebbe reso migliori, è sinceramente senza fondamento. Appena, collettivamente, ce ne siamo potuti discostare lo abbiamo fatto senza remore. Quelle che erano semplicemente norme di sicurezza igienica, la cui osservanza aveva il solo e ovvio scopo di contenere il contagio, diventavano modelli per differenziare il bene dal male. E se non fosse così, non avremmo dovuto continuare ad osservarle? Non ci sarebbe dovuto rimanere questo insegnamento?

In teoria, esistono ancora motivi validi per farlo, ad esempio per proteggere le categorie più deboli dalla possibilità di infettarsi: pensiamo a chi ha una patologia (o chi ha persone vicine che non posso permettersi di prendere il covid), oppure a chi magari lavora e non ha diritto alla malattia (tutti quelli che lavorano in nero, o sono precari). Quindi tutto questo “collettivismo”  nel rispettare le regole- che diventavano addirittura “modelli di comportamento” di una società più civile ed unita- dov’è finito?

È ritornata (anzi, non se ne era mai andata) la dimensione individuale, ognuno fa le sue valutazioni secondo i suoi bisogni e le sue preferenze.

Un momento, non vorrei che tutte queste considerazioni fossero percepite come moralistiche o nel senso della condanna verso chi non ha “imparato” da quello che è successo, anzi. Volevo più che altro notare come l’ipocrisia della comunicazione su questi temi, che ha permeato le nostre vite per quasi tre anni, è passata così come è venuta, e forse sarebbe giusto rifletterci di più: siamo tutti bravi a volerci bene quando ce n’è il bisogno, e soprattutto il sentirsi una comunità non è una cosa dell’ultim’ora, improvvisata e contingentata al momento di emergenza. Poi come sempre, le eccezioni: tante persone hanno veramente sofferto in conseguenza della pandemia, in silenzio, e hanno collaborato con il prossimo riscoprendo un sentimento umano di collaborazione e di comunità. Ne tantomeno voglio sminuire gli effetti che da questa sono intervenuti sulla vita di ognuno, in senso negativo.

 Però non riesco veramente, oggi che potremmo parlare al passato di tutto quanto, a pensare che ne siamo usciti migliori, o comunque come una comunità. Anzi io vedo (e purtroppo non è una mia percezione soggettiva), un aumento delle disuguaglianze, del senso di solitudine, dello scoramento soprattutto tra i giovani. E no, se possibile la comunità si è disgregata anche di più. Non mi sembra che venga apprezzato di più il valore dei rapporti umani, del tempo speso insieme.

E se la “cattiva maestra” fosse stata la comunicazione?

A valle di tutte queste considerazioni, che sono un misto tra opinioni e vissuti personali ed un sincero tentativo di osservare oggettivamente le cose, vorrei tornare sulla comunicazione e la sua responsabilità. Inutile girarci intorno, è un tema enorme la responsabilità che la comunicazione (televisione, giornali, social)  ha all’interno di questa società. Infatti, non vale nemmeno la pena iniziare qui il discorso perché il tema è talmente vasto che uscirei dalla traccia che volevo percorrere.

Però insomma basti ricordare che spesso il dibattito pubblico e con esso la percezione che intorno a questo si sviluppa, è grandemente condizionato dal modo in cui i comunicatori scelgono di trattare un argomento o un insieme di fatti. E allora abbiamo assistito, senza dubbio e con limitatissime eccezioni, ad una narrazione acritica, ottusa, ridondante ed in mala fede che ha polarizzato il discorso intorno al Covid, semplificando un fenomeno complesso che avrebbe dovuto generare una riflessione più profonda nel dibattito, e non reclutare le fila di eserciti contrapposti: ottimisti vs pessimisti, liberi tutti vs tutti a casa, e non mi va sinceramente di ricordare tutte gli altri artificiosi campanilisti televisivi e mediatici che hanno sterilizzato e moncato i minimi tentativi di parlare di un evento tragico in senso politico, che è quello che manca poi. Perché la comunicazione è politica, e se dovessimo collocare quella poc’anzi ricordata in qualche partito, potremmo giustappunto farlo in quello dell’uomo qualunque [N.D.R: il primo partito dichiaratamente qualunquista della repubblica].

Ma davvero, non ha senso continuare l’invettiva, perché come ho scritto sopra non volevo che questa piccola riflessione ne assumesse le vesti. E dico così perché l’ultima cosa che la mia psiche desidera è rimuginare sul sistema descritto e che mio malgrado, anzi nostro malgrado, abbiamo vissuto per diversi anni. Però adesso che la pandemia, possiamo dirlo con una ragionevole certezza, è finita (o comunque non è più raccontata e quindi nemmeno più percepita), bisogna andare avanti. Ovviamente spero che si possa mettere in discussione il ruolo dell’informazione nel descrivere la realtà, prendendo ad esempio la pessima prova di sé che questo ha dato e dà ultimamente.

Un’ultima correzione a me stesso: non “spero” che si metta in discussione il ruolo e la responsabilità della comunicazione: inizio a farlo io.

Autore

Classe 2001, ma mi sento molto più vecchio. Studente di Giurisprudenza a Roma, aspirante giornalista (infatti mi piace molto scrivere), ma anche suonare la chitarra. E questo è quanto.

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