Qual è il suono di una filter bubble che scoppia? La narrazione transfemminista tra spazi social e fisici

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Successivamente al femminicidio di Giulia Cecchettin, la sorella Elena con estrema lucidità e fermezza di pensiero continua ad esporre – davanti alle telecamere delle principali reti televisive italiane – le basi e le conseguenze della cultura dello stupro. 

Elena Cecchettin è stata in grado di scoppiare la filter bubble transfemminista, quella bolla culturale e politica già ampiamente abitata da un’utenza, in questo caso social, che spesso è già consapevole e sensibilizzata rispetto a tematiche di genere e di violenza multidimensionale. 

«Chi passa attraverso la televisione arriva dove i social non arrivano», e così per la prima volta non ci sono stati pianti in tv, silenzi assordanti o commemorazioni. C’è stato altro.

La prima bolla

Eli Pariser, forse sconosciuto a molte e molti, è stata la prima persona che ha coniato il termine di filter bubble nell’ormai lontano 2011. Un sistema, quello della filter bubble che invece è noto a chiunque di noi, basta avere un profilo social attivo su qualche piattaforma. La filter bubble è sostanzialmente la somma di tutti i contenuti social che ognuno di noi vede sul proprio feed ogni giorno e con cui interagisce. I contenuti sono quelli da noi scelti, sono quelli suggeriti per noi e sono quelli sponsorizzati. 

Agli esordi del funzionamento algoritmico, la filter bubble veniva contestualizzata come rischio: una sorta di minaccia alla democrazia in quanto avrebbero polarizzato l’opinione pubblica e l’utente non avrebbe più interagito con altro che fosse diverso dalle sue opinioni e dalle sue preferenze, culturali o politiche che fossero. 

In altre parole, se i giornali con tiratura nazionale favorivano una democrazia più dialogica – al netto dei gruppi editoriali a cui appartengono e delle connotate sfumature politiche, i social network invece che avvicinare le persone avrebbero minato tutto ciò, mettendo a serio rischio il piacere di conoscere il diverso e di stringere delle relazioni. 

Quindi, se apparentemente le piattaforme si presentano come accessibili e democratiche, a causa delle filter bubble, qualcuno o qualche argomento ne rimane fuori: che siano classi sociali o rivendicazioni politiche. 

Oggi questo discorso è invecchiato male, ci sono differenti funzionamenti algoritmici ed altre piattaforme interattive che si sono inserite nel mercato digitale. Tuttavia è vero che spesso ci sono state conseguenze negative create dalle filter bubble, soprattutto se si guarda alla radicalizzazione online. Un esempio tra tanti, è il fenomeno della nascita della community degli Incel e alle sue ripercussioni sia nel mondo digitale che in quello fisico.  

L’ago di una bolla politica

Il femminicidio di Giulia Cecchettin ha coinvolto un’utenza (e dunque delle persone) che non avevano mai preso parola in termini di rivendicazioni politiche o di espressione di un pensiero militante per il contrasto della violenza contro le donne. «Sono accadute due cose che hanno fatto scoppiare la filter bubble. Il caso Giulia Cecchettin ha fatto immedesimare molte donne in quella esperienza perché non ci sono colpe e/o non c’è una responsabilità della vittima. Poi, il ruolo della sorella: si presenta in televisione e la stessa accoglie le parole di una donna che ha già studiato». Lo afferma Silvia Semenzin, sociologa digitale presso l’Università Complutense di Madrid e promotrice della legge di riforma 162-ter del Codice Rosso per il contrasto e la punibilità del revenge porn.

Anche Laura Schettini, storica, docente all’Università di Padova e autrice de L’ideologia gender è pericolosa, edito da Laterza, evidenza degli elementi di diversità proprio nelle conseguenze narrative e di senso politico del femminicidio di Giulia Cecchettin in quanto «Elena ha preso parola pubblicamente e politicamente nel momento più alto del dolore. Tutta la famiglia di Giulia ha avuto un ruolo diverso da quello a cui siamo abituate». Non solo, ci sono elementi di diversità anche nel delitto stesso: «i giorni di attesa, il ritrovamento del corpo, dalla fuga dei “fidanzatini”. Io insegno a Padova, li ho letti i giornali in quei giorni… Quale era la paura delle studentesse e degli studenti. Era una morte annunciata». 

In particolar modo, secondo Schettini, è significativa la tipologia dei due soggetti coinvolti per comprendere la presa di posizione delle 500.000 persone registrate durante la manifestazione nazionale dello scorso 25 novembre: «Giulia e Filippo erano due bravi ragazzi, bianchi, di famiglia rispettabile e universitari giovani. Questo quindi può succedere a chiunque e senza avvisaglie. La cosa che ha sconvolto di più, anche in Università, è stata il ritrovamento del corpo e la premeditazione del delitto. Filippo Turetta aveva costruito una narrazione di debolezza, attribuendo così a Giulia un ruolo accudente e di senso di colpa che molte ragazze provano nei confronti di ragazzi più ossessivi e compulsivi». Prosegue Schettini, «stiamo parlando dell’uomo controllore. La violenza di genere non è frutto di una animalità ma è figlia di una cultura del controllo sulle donne. E poi ci metto anche la stanchezza. E’ diverso tempo che sento crescere la sensibilità. Cresce, perché riguarda la metà della popolazione mondiale. E’ ora di ribaltare i rapporti di forza». 

Dai social alla tv, dalla tv alla piazza

Per comprendere al meglio il perché non solo è esplosa la filter bubble ma anche la piazza, bisogna capire quali sono le tendenze dell’attivismo digitale oggi e quali sono le lacune delle piattaforme. «Ci sono due tendenze di attivismo digitale: esistono settori già politicizzati e di movimenti dal basso che hanno rivendicazioni collettive e amplificano i propri messaggi. Quella rivendicazione poi passa dai social in cui la semplificazione avviene per eccellenza e si rimbalza ad altri profili», passando alla seconda tendenza e così prosegue Semenzin «che sono slegati da realtà politiche, che si ributtano in rivendicazioni femministe ma utilizzano questo messaggio per una sorta di tornaconto personale, di personal branding e di washing. I media e i social vogliono prioritizzare questi tipi di profili, perché il personaggio piace, specialmente in Italia», spiega Silvia Semenzin. Non a caso, ci sono state influencer che al fine di sponsorizzare e vendere il proprio libro hanno affermato sui propri profili: “Se Giulia avesse letto il mio libro, sarebbe ancora viva”. «Esiste una fetta di persone che salta sul carro, questo lo ha creato il social network: i famosi 15 minuti di popolarità. Non si può ridurre tutto ad uno slogan. Se non esisti sui social, non esisti perché il tuo messaggio non arriva». 

La necessità dunque di restituire la complessità dei fenomeni, a chi le piattaforme le abita quotidianamente, è un’azione dirimente per le stesse istanze politiche transfemministe. 

La tv nazionale, sulla scia del mero caso di cronaca da seguire e sull’osservazione della richiesta del pubblico spettatore, ha confermato il proprio ruolo ormai fuori dal tempo e dallo spazio (politico). Semenzin racconta come «si è passati dai social network agli inviti alla tv: ora c’è la “ricerca” dell’attivista per poterla metterla in dialogo con i giornalisti, per cercare la polemica. Le piazze si sono riempite e le rivendicazioni sui social sono rimbalzate però di fronte al silenzio, adesso i media tradizionali preparano domande come “Gli uomini sono potenzialmente tutti assassini? Esiste il patriarcato?” E’ preoccupante. Davvero, siamo a questo punto della conversazione?». 

I femminicidi in Italia proseguono, i dati Istat non vengono aggiornati – fatta eccezione di un comunicato stampa pubblicato alla vigilia della Giornata Internazionale contro la violenza di genere – e ciò che rimane oggi, è il caso mediatico. «I dettagli della storia che sappiamo sono quelli che tengono le persone incollate ad uno schermo che sia televisivo o social. Se su tutti i giornali si parlasse di emozioni e di costruzione, andremmo più in là. Spostiamoci dalla vittima al carnefice perché, questa, è un’azione politica». 

C’è però qualcosa che gli schermi non hanno. 

«C’è tanto bisogno di corpi e la violenza investe le relazioni. A me sembra che ci sia una voglia, anche costruendo con e da traiettorie diverse. I social da soli non bastano, c’è bisogno di corpi e reti di autodifesa. Non si fanno solo sui social ma si fanno fisicamente: le pratiche si fanno fisicamente. E vuol dire: quando si va a ballare, si va a bere, quando si torna a casa. Ci si guarda. Si parte e si torna insieme. Le pratiche di autodifesa si fanno con i corpi, ci contattiamo, ci diamo forza, ci riconosciamo sui social ma poi nelle piazza siamo tante. Vedeteci e ora dovete avere paura. Quando mai s’è vista una manifestazione del genere in Italia negli ultimi vent’anni?» afferma Laura Schettini

Scoppio, decostruzione e ricostruzione

Aldilà delle piattaforme digitali o di media tradizionali, i femminicidi però non sono un fenomeno nuovo e non sorprendono, in questo senso, le risposte femministe della piazza se si ha ben in mente la storia dei movimenti femministi e perché questi nascono. 

Laura Schettini spiega come «la violenza sulle donne la vediamo codificata già nel diritto romano. Siamo collocate da duemila anni, in cui i femminicidi sono stati istituzionalizzati. Oggi avvengono sulla soglia della separazione quando la moglie, la sorella, la partner, la figlia si allontana o si capisce che vuole una separazione. Questo non è casuale. Quando una donna si allontana, in molteplici modi, può essere uccisa e questo non costituisce un reato. Se noi pensiamo alla codificazione dell’adulterio, come reato solo femminile che non ha che fare con la fedeltà coniugale e che per milioni di secoli è stata sanzionato con la pena di morte. Un reato solo femminile e in atto sino al 1968. Il Delitto d’onore correlato, impunità garantita a chi uccide la moglie, la sorella e la figlia. Non solo, chi viene colto in flagrante ma chi è sospettata di compiere adulterio. Gli omicidi in base al genere, innervano la nostra storia. La domanda allora non è quando viene istituzionalizzato anche culturalmente il femminicidio ma è: quando le donne sono diventate un movimento politico organizzato? 

L’ideologia gender – un tempo si chiamava patriarcato, rivede la famiglia come primo luogo di oppressione, le donne confinate nello spazio domestico ma subordinate all’autorità maschile: i primi movimenti su questo si sono scagliate. La violenza è un obiettivo politico già dagli inizi del ‘900 e il tema della violenza diventa un tema politico. Un secolo dopo, si concettualizza il femminicidio e non come discontinuità. 

La matrice di genere della violenza è molto chiara. I delitti di genere sono codificati da secoli, sono punite in quanto donne per la loro sessualità, per i loro comportamenti, per la loro minaccia. La matrice di violenza e del patriarcato, serve. E serve per mantenere l’ordine».  

Per Silvia Semenzin, la bolla è scoppiata anche perché «per anni non sono state ascoltate le donne, non sono state prese le denunce delle donne. Ci sono stati argomenti che vengono definiti di serie B e quindi femminili. Il rimbalzo delle parole di Càceres sui social hanno bucato la bolla nel momento in cui c’era già un target di femministe ed erano già pronti il post e le stories. L’idea è arrivata: molte donne mi hanno detto “sono stata fortunata”. Si è espansa così tanto che chi di femminismo non ne capisce niente ne ha comunque cavalcato un trend prendendolo con una grandissima leggerezza, vedi la Polizia di Stato perché per loro siamo ancora categorie fragili, siamo da tutelare e da difendere». Schettini, insegnando all’Università di Padova ha organizzato un momento di dialogo con le studentesse e gli studenti che volessero confrontarsi sul tema: «molte han detto “i ragazzi si devono dare una mossa, non è importante che scendano in piazza ma che abbiano il coraggio di organizzare i loro luoghi di riflessione. Aprite voi un dibattito”. Ma gli amici di Turetta dove stavano mentre a lui montava l’ossessione? Sono in mezzo a loro i fruitori della violenza». 

Cosa succederà tra digitale e fisico in tema di contrasto alla violenza di genere, non è ancora chiaro per le sfere istituzionali o mediatiche ma «dateci un maschio ricostruito, nuovo perché non basta più la decostruzione. “Cosa non fai” non basta più ma conta il “cosa stai facendo”. Se non stai facendo nulla, non mi serve» conclude Schettini.

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