Peppino Impastato ci insegna come scegliere l’alternativa

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La storia di Giuseppe Impastato è una delle più raccontate, conosciute e interpretate di sempre, per quanto riguarda la lotta alla mafia. La vita di Peppino è stata inequivocabilmente un manifesto di impegno civile: i bivi che la hanno contraddistinta sono una nitida testimonianza della possibilità di ogni uomo di scegliere e di determinarsi nella attuazione concreta delle proprie idee tramite le proprie azioni, scevre da dogmi e poteri imposti. Lo stesso fatto che oggi, a distanza di quasi 46 anni dal suo assassinio, la sua opera civile sia conosciutissima e diffusa ancora tra i giovani e giovanissimi, testimonia la forza intrinseca del suo passaggio nella coscienza collettiva, ravvivata da chi ha raccolto e ricordato la sua esistenza nel corso del tempo a partire dai familiari e dagli amici, combattendo la cortina di omertà che ha circondato questa vicenda a più riprese.

Oggi la sua eredità è ancora ricca e forse riflettere su questa, chiedersi come mai la sua figura sia ancora così influente, può essere un’azione che contribuisce a rinnovarla. Oggi è il 5 gennaio 2024 e Peppino nasceva 76 anni fa.

Per iniziare questa riflessione, che non vuole certo tentare di riassumere la vita, l’opera o l’assassinio (e il depistaggio seguente) di Peppino (cosa che ad esempio è fatta molto bene qui) vorrei partire da un’immagine precisa, quella del suo funerale.

Il 10 maggio 1978 un corteo-fiumana composto perlopiù da giovani provenienti da tutt’Italia, sfila fieramente per la piccola cittadina di Cinisi, oscurata da un cielo nuvoloso. Il feretro contente i resti del corpo mutilato dall’esplosione di tritolo (che per gli inquirenti rappresentò inizialmente la prova di un attentato dinamitardo e dopo la conferma di un fantomatico intento suicidario, tanto per significare il grado di omertà di questa vicenda) si aggirava per un’ultima volta, grazie alle gambe dei suoi compagni, per le strade di quel piccolo comune vicino Palermo che aveva dato i natali a Giuseppe, che lui conosceva e amava, e ai cui cittadini aveva offerto dapprima il suo impegno con l’associazione culturale Musica e Cultura, poi la sua ironia politica sulle frequenze di Radio Aut, dove ridicolizzava e denunciava la gestione politica del comune da parte della mafia, per giungere alla candidatura al consiglio comunale con la lista del partito extraparlamentare di Democrazia Proletaria.

Non farà in tempo a vedere la sua elezione, con 199 preferenze (totale lista 260): una matita nera già in quel giorno aveva cancellato il suo nome da quello dei candidati, quasi che qualcuno avesse fretta di “eliminare” anche la sua presenza sui manifesti elettorali, come se anche quella in qualche modo riuscisse ad infastidire il potere. La scelta di candidarsi era pericolosa agli occhi di chi, infiltrato nei corrotti meccanismi politici, voleva evitare che qualcuno li utilizzasse per amministrare il bene comune, e non per fare favori.

Nemmeno il tempo di essere seppellito e pianto, Peppino era già diventato un martire. Il suo omicidio venne per diverso tempo ignorato mediaticamente perché, quello stesso giorno poco ore dopo venne ritrovato il corpo esamine del Presidente Aldo Moro in Via Caetani, dentro il bagagliaio di una Renault 4 Rossa. Nonostante questa coincidenza, che per una beffa del destino è stata l’ennesimo intralcio alla sua figura, presto la comunità che lo circondava si impegnerà a ricordarlo, e a contribuire a illuminare di giustizia l’origine del delitto, inequivocabilmente (ma solo successivamente, a causa dei depistaggi) addebitato alla mafia.

Proprio questo evento è la rappresentazione icastica del concetto che guida questa riflessione: è la prova della forza diffusiva del suo operato civile che scavalca i tentativi di infangamento e resiste all’usura del tempo. Ma è necessario continuare a chiedersi perché, da dove deriva questa forza, e a cosa possa portare.

Perché Peppino è rimasto?

Ci sono degli aspetti cruciali della sua eredità, imprescindibili, e hanno tutti a che fare con aspetti comunicativi. Il punto iniziale è questo: la comunicazione è un’arma capace, come altre, di incidere sui fenomeni e cambiarli. La lotta alla mafia Peppino aveva deciso di farla così, verbalmente. Non è una semplificazione buonista ma una realtà oggettiva, tanto oggettiva che se non avesse avuto un peso questa scelta non sarebbe costata la sua vita.

L’idea di utilizzare una radio autofinanziata e autogestita come medium per raccontare un fenomeno culturalmente pervasivo come la mafia in un paesino siciliano degli anni 70 si rivelò vincente per quanto pericolosa; la denuncia tramite il racconto dei fatti che tutti i giorni avvenivano alla luce del sole, prendendo una posizione netta e perseguendo la volontà di smascherare ciò che il tacito consenso copriva, insieme alla proposizione di un’alternativa (AUT, il nome della radio, in latino significa oppure) fu la concretizzazione di questa idea.

E questo ci porta a considerare come la libera informazione che non significa per forza “informazione neutrale” ma anche parzialità nella difesa di un’idea che si ritiene giusta sia un concetto di grande forza egemonica sulla realtà, che permette in effetti di plasmarla. Ed è la stessa cosa che, al contrario, ha sempre fatto la mafia. L’utilizzo di simbologie e rituali mafiosi è sempre stato nient’altro che una narrazione che esprimeva però l’idea della sottomissione del simile sul simile, in base a gretti rapporti di forza, narrazione canalizzata culturalmente dai concetti dell’onore e del rispetto che si devono solo in base all’osservanza di quel modello culturale, espressivo di valori che di certo non contemplano le acquisizioni moderne dei concetti (che infatti lo stato dovrebbe proteggere) di libertà ed eguaglianza connessa dignità.

Peppino tutto questo lo aveva capito, e prima di altri. Aveva deciso di porre a servizio di questa idea dell’esistenza possibile di un’alternativa (innanzitutto culturale) la sua stessa vita. Questo è ciò che probabilmente fa assomigliare la sua figura a quella di un martire civile, per quanto questa definizione non dovrebbe mai portare alla vuota contemplazione del simbolo che  questo rappresenta, ma alla interrogazione personale e continua circa le sue ragioni, pena lo svilimento del suo operato.

Una cosa è certa, che il “modello Peppino” continua ad essere un esempio ed una direttrice, perché oggi esiste quel “AUT” nella coscienza di molti e allo stesso tempo esistono soggetti, anche collettivi, che sono impegnati nel ricordo e nella attualizzazione dello stesso. Perché oggi i problemi non sono quelli di ieri, la mafia non spara più con la lupara, anzi, i suoi gangli arrivano fino ai settori dell’economia dematerializzata. L’importanza di continuare a scegliere una narrazione che delegittimi la logica mafiosa, e contribuire ad alimentarla, è un onere che l’imponente figura di Peppino Impastato continua a ricordarci far parte delle nostre vite, che ogni giorno e nella loro propria dimensione, possiamo scegliere di rispettare, per determinarci e determinare.

Autore

Classe 2001, ma mi sento molto più vecchio. Studente di Giurisprudenza a Roma, aspirante giornalista (infatti mi piace molto scrivere), ma anche suonare la chitarra. E questo è quanto.

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