Non memorie ma testimonianze: le storie dei profughi siriani che hanno resistito al terremoto

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Nella prima pagina del suo libro Memoria della mia memoria, l’autore armeno Gérard Chaliand afferma: «Ora che sono morti tutti, è venuto il tempo di ricordare». L’autore si sente finalmente legittimato a raccontare l’eco di un passato, l’eredità di un genocidio, dopo la morte di tutti i membri della famiglia che lo hanno vissuto e tramandato.

Il genocidio armeno ci sembra lontano nel tempo e distante dalle nostre vite. Eppure, è successo poco tempo fa e non così distante da casa nostra. Ci sono storie che tendono a diventare subito memorie, così da poterle relegare più facilmente al passato quando, invece, avrebbero ancora diritto di parola, potrebbero ancora diventare testimonianza.

È con questa consapevolezza che il 6 aprile, con l’associazione Una mano per un sorriso – for Children, siamo arrivati a Gaziantep, epicentro della prima forte scossa di magnitudo 7.8 del terremoto avvenuto esattamente due mesi prima: per testimoniare, prima di ricordare.

La notizia diventata non-notizia

Durante la notte del 6 febbraio, avviene la prima importante scossa di terremoto, di magnitudo 7.8, nella provincia di Gaziantep, nel sud-est della Turchia. Le scosse continueranno per tutta la giornata, compresa la seconda per magnitudo, di 7.6, nella regione di Kahrmanmaraş. La faglia anatolica continua a muoversi nei giorni successivi, quando si cercano disperatamente possibilità di vita sotto le macerie turche e siriane.

Saranno oltre 50.000 le vittime di quello che viene considerato il quinto terremoto, per magnitudo, dall’inizio degli anni ‘2000. Nei primi momenti dopo il disastro, in molti si sono attivati per portare aiuti, molti reporter si sono recati in loco per testimoniare quello che sicuramente verrà considerato come un fatto storico, anche per la sua vicinanza alle prossime elezioni presidenziali, a maggio 2023.

Il centro di Hatay dopo il terremoto del 6 febbraio.

Due mesi dopo, si possono ormai contare i danni e le conseguenze riversate su due popoli: quello turco, in Turchia; quello siriano, in Siria. Esiste, però, un’altra grande fetta della popolazione dei territori interessati dal terremoto, che è stata poco presa in considerazione.

Il sud-est della Turchia conta un gran numero di profughi siriani riusciti a passare il confine o prima della costruzione del muro, vale a dire prima del 2018, o dopo, arrivando a pagare fino a 2000 dollari, per persona, al confine. Che n’è stato del popolo siriano profugo, in Turchia?

Quando il terremoto è la cosa meno spaventosa che hai vissuto

Le zone del sud del Paese, colpite dal terremoto, sono le stesse che ospitano più di due milioni di rifugiati siriani. Nella città di Kilis, che dista solo a 7km dal confine con la Siria, ho conosciuto un uomo scappato da una delle province maggiormente colpite dal terremoto, quella di Hatay.

Così come tutte le persone siriane incontrate nel territorio turco, anche lui arriva da Aleppo, dove è scappato nel 2014, nei primi anni della guerra siriana, scoppiata nel 2011, per raggiungere la Turchia. Gli chiedo cosa gli manchi di più della Siria.

Anche se qui mi trovo bene, questa non è casa mia. E mi mancano quei nipoti che sono rimasti di là, ad Aleppo.

Chiedo se si senta arrabbiato, deluso.

All’inizio sì, ma ora da quando ho i bambini, ho la mia famiglia, sto dimenticando. Quando sono arrivato non avevo figli, ora ho loro e penso a loro. In Siria non voglio tornare mai più.

Era ad Hatay per lavoro. Alla domanda se fosse spaventato, risponde che quello che ha vissuto non è nulla in confronto al suo passato. La sua casa è rimasta solo fortemente danneggiata, ma ancora resiste. Diverso destino è invece quello delle migliaia di persone che riempiono i campi profughi nella città di Hatay.

Campo sfollati siriani ad Hatay

Sono infatti molti i siriani sfollati che si ritrovano, a due mesi dal terremoto, a vivere all’interno di una tendopoli. Il primo campo profughi visitato è un accampamento di tende, disposte in lunghe file che sembrano non finire mai. La maggior parte della popolazione è composta da donne e bambini e non ci sono i servizi igienici.

Nel secondo campo visitato vi è una tenda in cui si può far da mangiare ogni tre giorni, di più non si può. Non tutti hanno la possibilità di spostarsi, e non tutti hanno un posto più sicuro dove andare e allora si rimane qui, nelle tende, al freddo, mentre pregano giorno e notte il loro dio Allah, durante il ramadan.

Kilis, crocevia di due popoli

Kilis è una città e una provincia turca molto particolare: qui la popolazione siriana, secondo i dati dell’anno scorso, superava il 40%. Nel frattempo, il dato è sicuramente aumentato.

È anche un esempio di grande accoglienza e di integrazione. Anche se quest’ultima non può considerarsi totale: sono molte le case e i negozi che espongono la propria bandiera turca per ribadire che appartengono alla popolazione locale; allo stesso tempo, sono gli stessi siriani ad andare in negozi siriani e vivere in quartieri a maggioranza araba.

Una bandiera turca a dimostrazione che l’appartamento è di una famiglia turca.

Nonostante questo, il rispetto delle culture, delle religioni, (ci sono megafoni per strada per i vari momenti di preghiera per l’attuale periodo di ramandan) e dei due popoli è confermato dagli stessi siriani. Tutte le persone siriane incontrate avevano quattro caratteristiche comuni: sono originarie di Aleppo o della sua provincia; sono arrivate prima della costruzione del muro; dopo tutto quello che avevano vissuto non hanno avuto paura e non hanno tutt’ora paura del terremoto; stanno bene a Kilis e non vogliono tornare mai più in Siria.

E allora, in conclusione, senza citare volti o nomi, ma solo parole, riprendiamo quelle storie che crediamo essere memorie, ma che invece vivono a Kilis, a 2.187,76 km da Roma, e sono testimonianze del reale.

Non memorie ma testimonianze dalla Siria

Testimonianza 1: Sono arrivati ad Aleppo, undici anni fa. Per cinque anni hanno vissuto nel campo profughi, chiamato “Kilis 2”, poi sono riusciti ad ottenere una casa, sei anni fa. Il marito sta lavorando in una fabbrica tessile, insieme al figlio, gli altri sei figli sono in casa insieme alla madre. È sera tardi, hanno finito di mangiare ora, dopo il tramonto, a causa del ramadan.

Testimonianza 2: In un’altra famiglia si racconta di come il marito e la moglie non si conoscessero in Siria e di come, invece, a Kilis, città turca che li ha accolti, si siano incontrati, sposati e ora siano genitori di tre figli.

Testimonianza 3: In questa famiglia, il padre siriano è ormai malato da tempo: schizofrenia e bipolarismo acuto. Ci racconta della sua vita in Siria, dove faceva il farmacista e di come un razzo abbia distrutto la casa di fronte alla sua farmacia.

Testimonianza 4: Nell’ultima famiglia conosciuta a Kilis, un ragazzo con gravi disabilità fisiche e mentali ci aspettava arrampicato alla finestra. La madre, sola, mentre aspettava che il marito tornasse da lavoro, accudiva lui, che non parla, e suo fratello.

E se iniziassimo a chiamare a testimoniare queste persone, invece che commemorarle e tenerle lontane dai microfoni, come verrebbe riscritta quella che noi definiamo la Storia con la S maiuscola?

Autore

Cresciuta nella campagna piemontese, a Rivalba, ( ti giuro, esiste! ), con la scusa di studiare lettere ho vissuto nella calorosa Roma e nella raffinata Parigi. Scrivo grandi storielle letterarie, ma scrivere il presente e il suo divenire, beh, quella sí che è una gran bella storia che vi vorrei raccontare.

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