Una rivalità inevitabile
Albert Merriman Smith è un giornalista che, ad inizio anni ’60, lavora per la UPI (United Press International), agenzia di stampa americana. Lavora come corrispondente dalla Casa Bianca, dove governa Kennedy. È Smith l’inventore della formula “Thank you, Mr President”, che pone fine ad ogni conferenza stampa presidenziale. Anche Jack Bell, inviato della AP (Associated Press), fa parte del pool presidenziale, ma ha meno esperienza del collega, visto che per anni è stato prettamente un giornalista politico. I due si rispettano e allo stesso tempo sono aspri concorrenti. Rappresentano le due agenzie di stampa del Paese, lavorano in perenne competizione: ogni notizia divulgata in anticipo equivale ad una vittoria. Nel tempo, la rivalità da professionale diventa personale. In cuor loro sono consapevoli che arriverà il giorno in cui saranno uno di fronte all’altro in una sorta di duello finale senza esclusione di colpi.
«Dammi quel maledetto telefono»
Quel giorno arriva, è uno dei più dolorosi della storia americana: il 22 ottobre del 1963. Kennedy si reca a Dallas per risolvere questioni di politica interna relative al Partito Democratico. La sua auto, colpevolmente scoperta, viaggia lentamente ed è seguita dal consueto corteo. Smith e Bell sono a bordo di una berlina nera riservata alla stampa. Tra l’auto del presidente e la loro ci sono altre tre vetture. L’auto dei due giornalisti è dotata di un radiotelefono sul sedile anteriore, che possono utilizzare a turno. Anche il posto davanti è condiviso alternatamente. Quel giorno sarebbe stato il turno dell’AP. Tuttavia, Smith è solito impadronirsi del posto più vicino al telefono e così quella mattina, senza incontrare le proteste di Bell, intento ad approfondire i risvolti politici di quella giornata piuttosto che a fornire un resoconto puntuale al suo ufficio: ed è questo l’errore più grande del corrispondente di AP, che di certo non si aspetta l’imminente disgrazia.
Alle 12:30 ora locale il corteo attraversa Dealey Plaza. Si sentono tre detonazioni, che Smith identifica subito come spari. I giornalisti vivono attimi di impasse; Smith afferra il radiotelefono e riferisce: «Tre colpi sono stati sparati durante il corteo del presidente Kennedy nel centro di Dallas». Intanto le auto si dirigono verso l’ospedale più vicino. «Dammi quel maledetto telefono», grida Bell durante il tragitto. La frase diventa il leitmotiv di tutto il viaggio, poichè Smith tergiversa, fingendo che i suoi messaggi non vengano sentiti dall’ufficio di competenza. Bell si spazientisce ed inizia a sferrare pugni contro la schiena del collega ricoprendola di lividi. Smith tiene il telefono lontano da Bell fino all’ingresso d’emergenza dell’ospedale. Quando la berlina si ferma, Smith lancia il radiotelefono a Bell e si affretta verso l’auto del presidente. Bell prova a chiamare l’ufficio AP, ma la linea si interrompe. Alcuni testimoni rivelano addirittura che Smith abbia sganciato volontariamente la linea per far perdere tempo al rivale.
«Il presidente vuole tornare a Washington»
Smith si precipita verso la limousine presidenziale, prima che arrivino gli assistenti dell’ospedale e che qualcuno sappia veramente la portata di quello che è accaduto. Smith si avvicina, vede il presidente e sua moglie. Clint Hill, agente segreto della moglie del presidente, ancor prima dell’arrivo dei medici, rivela a Smith la morte di Kennedy. Il giornalista, basandosi solo sulle sensazioni dell’agente, si precipita al telefono dell’ospedale e invia il bollettino lampo: «Kennedy seriamente ferito forse fatalmente dagli assassini». Una notizia azzardata, perché ancora non certificata, ma fondata sul giudizio personale dell’agente Hill, sulle sue sensazioni. Se Kennedy si fosse salvato, UPI non avrebbe fatto una grande figura. Nei minuti successivi sia Smith che Bell si affannano per riferire news e preparare dispacci, ma il vantaggio di UPI è consistente, ben sei minuti. Il colpo del ko arriva pochi minuti dopo. Rufus Youngblood, agente dei servizi segreti del vicepresidente Lyndon Johnson, si avvicina e lo avverte: «Smitty, il presidente vuole tornare a Washington». Smith impiega un attimo a rendersi conto che l’uomo morto al pronto soccorso non è più presidente e che il suo posto è appena stato preso da Johnson; afferra la cornetta e riferisce: «Kennedy è morto».
Brillantezza o gioco sporco?
Come giudicare il comportamento di Merriman Smith? Sul piano professionale il suo comportamento non sorprende. È la conferma di un mestiere, quello giornalistico, che spesso esalta l’individualismo e raramente lascia spazio alla collaborazione. Piranha dentro una piscina, pronti a mordere e ad assicurarsi la preda. L’informazione non è l’obiettivo comune, ma il mezzo con cui arrivare ad un successo. L’obiettivo comune del servzio pubblico passa in secondo piano, quando in gioco ci sono interessi editoriali e competizione personale. Per la cronaca, Smith vinse il Pullitzer, Bell fu licenziato dalla Associated Press.
Autore
Nasco a Roma nel 1997. Formatomi sui precetti morali del Re Leone, mi laureo in lettere e divento giornalista pubblicista. Appassionato di sport e storie di sport, nella vita faccio il centrocampista. Amo il mare e detesto il sensazionalismo quasi più degli anfibi.