Premessa: questo articolo non riuscirà ad essere completamente esaustivo del tema, nessun articolo potrebbe. Ma vuole mettere in evidenza un lato dell’argomento, un fil rouge che lega due fenomeni: radicalizzazione e marginalizzazione. Pensare di esporre il fenomeno del terrorismo, o della radicalizzazione, e delle loro cause in un solo articolo sarebbe come pensare di poter riassumere un’intera enciclopedia in un solo lemma: semplicemente non si può.
Qui ne mettiamo in evidenza uno: ovvero la tendenza a marginalizzare e ad escludere anche tramite provvedimenti politici intere fasce di popolazione in momenti di crisi, fasce ancora più a rischio se ulteriormente estromesse – nei fatti o nella percezione data dai provvedimenti presi dal tessuto sociale.
Il contesto
Si è discusso dell’escalation del conflitto israelo-palestinese, dei civili uccisi in scontri e bombardamenti. Al momento, gli aiuti umanitari a Gaza sono giunti in modo limitato e si assiste a un’atrocità senza precedenti. Migliaia di persone, tra cui moltissimi bambini, hanno perso e continuano a perdere la vita.
Nel frattempo, è arrivata la chiamata di Hamas alle armi. Venerdì, giorno santo per i musulmani – quello successivo alle stragi del 7 ottobre – Hamas ha chiesto la mobilitazione dei suoi sostenitori. Le risposte non sono arrivate dai palestinesi della Striscia, bensì dagli attentati in Europa, commessi per lo più da fondamentalisti islamici. Per gli europei, hanno risvegliato ricordi di non troppi anni fa, e il cui tempismo è sintomo di una tensione crescente dall’inizio del conflitto.
Questo ci comunica diverse cose: la prima è che i palestinesi non si identificano indiscriminatamente con Hamas e non vogliono che ciò venga fatto dall’occidente. Vogliono smentire l’equazione, ribadiamo, errata, secondo cui i due gruppi coincidono. In più ci sono i dati dei sondaggi (con riferimento a quelli conclusi il 6 ottobre 2023 da Arab Barometer), che mostrano come il sostegno ad Hamas non riguardi la maggioranza dei palestinesi, e come ci fosse in generale una larghissima sfiducia verso l’apparato politico palestinese.
Pensare di eliminare un’organizzazione terroristica bombardando la Striscia vuol dire provocare la morte di civili. Si è sentito dire più volte che uccidere la parte di Hamas che si trova a Gaza vuol dire ucciderne esponenti difficilmente di primo piano. E numerosissimi civili, tra cui si nascondono e con cui si fanno scudo. E tra i molti effetti del bombardamento c’è sicuramente un’ulteriore polarizzazione dei civili palestinesi già allo stremo, e l’accrescimento di una frustrazione diffusa. Le parti in causa potrebbero perdere un possibile dialogo con loro una volta per sempre. E il sostegno ad Hamas potrebbe accrescersi in risposta. I dati di Arab Barometer, i sondaggi realizzati in collaborazione con altre realtà – tra cui il PCPSR, diretto da Khalil Shikaki – mostrano una sistematica crescita del sostegno ad Hamas nel momento in cui c’è un forte stato di tensione, come una stretta sul blocco imposto a Gaza, o un’escalation di violenze.
La mancata sollevazione palestinese, per lo meno a Gaza, dove l’età media è 18 anni, ha anche altri motivi alla base: oltre al fatto che moltissimi sono bambini, se ti piovono addosso le bombe israeliane, o dei razzi lanciati da Hamas o Islamic Jihad prima di oltrepassare il confine della Striscia, se chi conosci sta sotto le macerie, allora protestare in quel momento non è tra le opzioni. Forse per la rabbia, diventare un estremista diventa una delle opzioni. Un’invasione di terra rende i risvolti ancora più devastanti.
La seconda è che il sostegno ad Hamas, appunto, è arrivato in maniera molto più eclatante dall’Europa. Sono stati colpiti in particolare Francia e Belgio, che in fatto di terrorismo islamico hanno una storia pesante, molto più di altri paesi europei. E a ciò si aggiunge il fatto che la Francia abbia la più grande comunità musulmana d’Europa nonché la più grande comunità ebraica del continente. Il Paese ha inoltre vietato ogni manifestazione pro-Palestina per tutelare “l’ordine pubblico”. È stato respinto anche un appello contro il divieto fatto da Palestine Action Committee, associazione filo-palestinese con sede in Francia.
Dopo l’attentato di Arras, quello di Bruxelles, i vari allarme-bomba al Louvre, a Versailles, in diversi aeroporti francesi, i vari arresti (anche in Italia) e la sospensione di Schengen in molti paesi europei, il clima non è dei più distesi.
Le reazioni
Partiamo dal mondo della cultura. Dopo il “sabato nero” del 7 ottobre, a caldo, sono stati cancellati moltissimi eventi legati a personaggi palestinesi o alla cultura palestinese. Il New York Times ne fa ha fatto un lungo resoconto. Sono stati annullati concerti di band palestinesi, eventi di promozione di libri, come quello dello scrittore Nathan Thrall (il cui libro parlava dell’occupazione israeliana in Cisgiordania). “Il Boston Palestine Film Festival ha deciso di non tenere proiezioni dal vivo ed è andato online” riporta il NYT. Ma ha fatto molto più scalpore il caso Adania Shibli.
Adania Shibli è una scrittrice palestinese, autrice di romanzi, racconti e saggi. Durante la sua carriera ha ricevuto diversi premi e avrebbe dovuto riceverne un altro, l’ennesimo, alla Fiera del Libro di Francoforte, la più grande al mondo del suo genere. Tutto questo fino a pochi giorni dopo l’attacco di Hamas, quando gli organizzatori hanno deciso di annullare la cerimonia di premiazione. Il libro Un dettaglio minore, in traduzione italiana, parla di un fatto di cronaca che risale a poco dopo la Nakba: nel 1949, una ragazza beduina viene stuprata, uccisa e seppellita da un gruppo di soldati israeliani.
La decisione di premiare quel libro era stata criticata da una parte della stampa della sinistra tedesca. Un membro della giuria aveva abbandonato il suo ruolo perché in disaccordo con la selezione, mentre, in contemporanea, lo stesso romanzo riceveva altre nomine a premi internazionali e l’approvazione del mondo letterario, che ha poi criticato in una lettera aperta l’annullamento della premiazione da parte del comitato organizzativo. Premio finanziato da un’associazione non-profit e dal governo tedesco, dichiaratamente, anche per ragioni storiche, in prima linea nel sostegno ad Israele.
La cancellazione definitiva arriva dopo il 7 ottobre, «a causa della guerra iniziata da Hamas, per la quale soffrono milioni di persone in Israele e Palestina» e per via delle tensioni, della polarizzazione interna che si è creata nella società tedesca.
In Germania, così come in Francia, ha deciso di vietare le proteste pro-palestinesi. Il rischio di manifestazioni con riferimenti antisemiti, ma anche semplicemente anti-israeliani, era troppo alto. Non è la prima volta: la Germania ha già avuto problemi con le proteste pro-Palestina. Per il 74° anniversario della Nakba, quindi maggio 2022, era stato imposto il divieto a manifestazioni e commemorazioni, che si sono tenute comunque. Le manifestazioni a Berlino si sono concluse con 127 arresti, a detta della polizia (Middle East Eye).
Si è andati a processo, sono stati sentiti degli arrestati – tra cui un antifascista ebreo-americano –, dicevano di essere lì per ragioni diverse dal protestare, che non c’era alcuna manifestazione. Gli arrestati – tra cui un antifascista ebreo-americano –, hanno affermato di essere lì per ragioni diverse dal protestare, che non c’era alcuna manifestazione. Queste proteste c’erano state o no, allora?
Dopo aver ascoltato la polizia, i rapporti e fatti non coincidevano: le proteste non c’erano state, ma la polizia aveva arrestato “chiunque sembrasse palestinese”, quindi chiunque indossasse una kefiah o i colori della bandiera palestinese. La polizia aveva quindi dichiarato il falso nei rapporti.
Il divieto è stato comunque rinnovato per il 75° anniversario dalla Nakba, a causa di possibili disordini.
In Francia, per reprimere le proteste hanno usato idranti e lacrimogeni. Poi il ministro dell’Interno, Gerald Darmanin, ha annunciato il divieto governativo delle proteste pro-Palestina per motivi di sicurezza. È stata vietata anche una conferenza da parte di un’associazione regionale palestinese. Da quel momento «la massima corte amministrativa francese si è pronunciata contro un divieto totale», come scrive il Washington Post, ma ha comunque lasciato la possibilità di interrompere le proteste valutando caso per caso.
In Inghilterra non è stato preso un provvedimento simile, ma è stato ipotizzato di limitare le proteste andando oltre il valutare i simboli esplicitamente pro-Hamas, quindi ricorrendo ancora una volta a giudizi soggettivi.
In Italia dopo gli attacchi terroristici i Cpr sono tornati alla ribalta. Gli stessi per cui l’Italia è stata condannata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo con parole come “privazione arbitraria della libertà”, quelli che ci costano una fortuna, ma che si punta ad avere – auspica il governo – in ogni regione. Soprattutto in riferimento all’attentato belga, è stato evidenziato come l’esecutore sia stato in un centro per i rimpatri prima di continuare il suo percorso. Era il 2011.
Marginalizzazione e radicalizzazione
Conosciamo a grandi linee il percorso dell’attentatore, e le motivazioni del gesto, che ha reso note in un video. Non conosciamo però quelle più profonde, la scintilla che fatto scattare il processo di radicalizzazione. Ma conosciamo abbastanza il contesto: le disparità che i migranti e le seconde, terze generazioni vivono una volta giunti in Europa. Quello del tunisino Abdesalem Lassoued è un caso specifico, un caso singolo che non per forza rientra in questa categoria, ma diverse analisi ci dicono che la marginalizzazione è un fattore importante nell’inizio di un processo di radicalizzazione.
Un articolo del ricercatore Eylem Khanol pubblicato da Taylor&Francis afferma che:
Vari autori hanno evidenziato i problemi legati all’integrazione socioeconomica dei musulmani nel contesto europeo, identificando in questi la causa principale della radicalizzazione violenta.
I combattenti stranieri europei esaminati da un altro studio citato nell’articolo sono descritti come: «principalmente individui emarginati con prospettive economiche e sociali limitate, che sperimentano vari tipi di frustrazione nella loro vita».
Nelle conclusioni l’articolo ridimensiona l’importanza della marginalizzazione. In particolare, la ricerca riguarda appunto l’ambito socioeconomico: livello di istruzione e possibilità lavorative, ad esempio. Ma resta comunque tra i fattori che possono dare il via alla radicalizzazione.
Diverso è il peso dato in un report di START InSight, nel loro ultimo “Rapporto sul Terrorismo e il Radicalismo in Europa”, che la considera “cruciale”, ma intendendo una marginalizzazione più legata ai rapporti interpersonali. Evidenzia «l’importanza del contesto – domestico, famigliare, sociale e locale (la cosiddetta comunità) […] talvolta sottovalutato». Un fattore, l’esclusione sociale, confermato anche da uno studio citato nello stesso report e condotto in Spagna da un team internazionale. Attraverso delle scansioni celebrali i ricercatori hanno visto come aree del cervello di simpatizzanti jihadisti «in vari stadi di radicalizzazione» si riattivassero, riaccendessero a seguito di processi di inclusione sociale. Era importante «l’influenza della pressione sociale nel riportare l’individuo a “ragionare”, allontanandolo dalla violenza». E l’articolo nel report conclude che «è determinante riconoscere il ruolo delle “grievances” – cioè del senso di ingiustizia, reale o percepito – poiché è su questo aspetto trasversale a tutte le ideologie, che fa leva la narrativa estremista, che si tratti di difendere la mascolinità, la razza, o l’Islam».
Dietro le sbarre, in carcere, o in un CPR (con cui le carceri sono state spesso messe a paragone), la marginalità sociale è presente. Più volte è stato denunciato il polo di radicalizzazione che spesso diventa il carcere. L’associazione Antigone dedica un rapporto annuale a questa dinamica. «La canaglia rinchiusa può trovare in carcere l’occasione e il tempo per incontrare una narrativa che traduca in forme di conflitto collettivo i suoi impulsi acquisitivi o puramente distruttivi». Anche rispetto all’Islam, è una dinamica nota, per cui l’intelligence ha procedure da anni.
All’inizio del report stesso si fa un ragionamento più generale: si parla della “frustrazione strutturale dei discendenti” dei migranti, tema sviluppatosi dopo gli attentati dei primi anni duemila fino a quelli del periodo 2014-2016. E si nota una “certa continuità” tra le proteste che hanno coinvolto quelle fasce di popolazione nei vari stati europei (Francia, 2005; Inghilterra, 2011) e la tensione culminata negli attentati di quel biennio.
La marginalizzazione sociale, le “grievances” di cui si parlava prima, il senso di ingiustizia sono quindi fattori che non si possono ignorare quando si parla di radicalizzazione. Non si può ignorare che la risposta alla radicalizzazione stessa purtroppo vada in direzione contraria. Anche se si tratta di reazioni avute in momenti di crisi, spesso necessarie ed effettivamente logiche come un aumento dei controlli. Ma in altri casi provvedimenti controversi, come il divieto di manifestazioni pro-Palestina. L’assenza di dibattito sulla prevenzione della radicalizzazione, e quindi con l’implementazione di provvedimenti che andrebbero a favorire integrazione e inclusione sociale in quest’ottica, restituiscono un’immagine molto limitata del fenomeno terroristico.
Ma non se ne parla
L’assenza di dibattito sulla prevenzione alla radicalizzazione più che al terrorismo, e quindi con provvedimenti che andrebbero a favorire integrazione e inclusione sociale in quest’ottica, e il riaccendersi del tema solo in momenti “caldi” restituiscono un’immagine molto limitata del fenomeno terroristico.
La presenza di un dibattito sul tema non implica una rinuncia allo sguardo tecnico e attento che la delicata tematica richiede. Che ci sia l’apertura di una discussione sull’argomento proverebbe un’attenzione condivisa, che vada oltre le procedure di intelligente per il monitoraggio delle persone a rischio radicalizzazione.
Allargare il pubblico della tematica vuol dire diffondere consapevolezza, spingere a porsi domande, in un paese, l’Italia, da anni oggetto di sbarchi e che però tratta l’immigrazione in maniera e con un lessico fortemente emergenziale. Con queste premesse sarebbe importante prendere maggiore coscienza dell’importanza dell’integrazione, in generale come in queste sue sfaccettature.
Il tutto, ad oggi, si configura come un circolo vizioso in cui le misure prese in maniera emergenziale e spesso con motivazioni altamente politiche, come il sostegno ad Israele nella limitazione delle manifestazioni pro-Palestina, vanno ad aumentare uno stato di tensione i cui effetti potrebbero concretizzarsi in nuove radicalizzazioni, e quindi un più alto rischio di nuovi cicli di attentati in un futuro più o meno prossimo. Ma dopo ogni ciclo l’attenzione si spegne, andando ad allargare un vuoto in cui sarebbe possibile trovare modalità di prevenzione più definitive, che avrebbero effetti positivi su tutta la società e non andrebbero ad alimentare inutili tensioni.
Le modalità, la portata, la matrice, il tempo e il luogo sono solo alcune delle varianti di un attentato. Le variabili sono infinite, ma sono infinitamente poche quelle su cui possiamo agire per prevenirlo. Ignorando tematiche come quelle della marginalizzazione sociale in relazione al terrorismo commettiamo un grande errore, e perdiamo la possibilità di salvare vite, tra cui spesso quella del terrorista stesso, non agendo in uno dei pochi punti in cui è possibile farlo.
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Nata tra i monti Lepini, non è che la montagna mi piaccia poi così tanto. Leggo, scrivo, arrivo sempre in ritardo ma cerco di compensare con l'impegno che metto nelle cose. Se potessi vivrei in viaggio, nel frattempo mi accontento di immaginarmi giornalista, una di quelli che raccontano mondi lontani. Che poi così lontani non sono.