L’Italia alle prese con il degrado invisibile: sgomberi e politiche contro la marginalità

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“Sventramenti” del passato e sgomberi del presente 

Roma, inizio anni Trenta. Il governo fascista dà il via a interventi urbanistici su larga  scala, storicamente ricordati come “sventramenti fascisti”. Demolizione di edifici,  monumenti storici e interi quartieri popolari per lasciare spazio a grandi viali, strade (tra  cui la celebre Via della Conciliazione) e piazze monumentali. Da questo palcoscenico  vennero subito escluse le classi più vulnerabili, dislocate forzatamente verso aree  periferiche della città senza i servizi e le infrastrutture necessarie. Queste politiche  urbanistiche sono andate ad alimentare l’ineguaglianza urbana tra il centro e le borgate  periferiche, che accumulavano sempre più problemi di degrado sociale. 

Trieste, giugno 2024. Uno dei luoghi simbolo delle mancate soluzioni strutturali per  l’accoglienza nel Nord-Est d’Italia, il Silos, che per anni ha accolto migranti in arrivo  dalla rotta balcanica, viene sgomberato. La decisione arriva tramite il decreto del sindaco  Roberto Dipiazza a poche settimane dalla visita di Papa Francesco in occasione della  conclusione delle Settimane sociali dei cattolici italiani. 

Roma, settembre 2024. Il cuore della Capitale è teatro di un altro sgombero: viale  Pretoriano, vicino alla stazione Termini, viene liberato dalla presenza di persone senza  fissa dimora. Con un massiccio intervento delle forze dell’ordine, vengono rimosse  tende e giacigli precari. Anche qui, l’intervento è collegato alla pressione di un evento  incombente, il Giubileo, che promette un’ondata di turisti non indifferente nei mesi a  venire. 

Decoro e giustizia sociale: un conflitto irrisolto

Due città, due periodi storici diversi, ma che raccontano la stessa dinamica. La lotta al  “degrado urbano” passa per azioni mirate a rendere invisibile la povertà, attraverso  sgomberi che spostano il problema senza risolverlo. Questi interventi, definiti spesso  “necessari per la sicurezza e il decoro”, si traducono nella marginalizzazione forzata di  chi già vive ai margini della società. È questo il paradosso: in nome della dignità delle  città si nega dignità alle persone. 

Le campagne “anti-degrado” sono spesso un esercizio di prevaricazione travestito da intervento civico. Quelli di Trieste e Roma sono solo due esempi di un fenomeno diffuso con cui da anni l’Italia ripulisce la propria immagine rimuovendo fisicamente chi occupa gli spazi pubblici. Potremmo citarne molti altri, come gli interventi di sgombero condotti ai danni del centro informale di accoglienza di Baobab Experience, realtà del Terzo settore che da anni si occupa di accoglienza nella Capitale. Oppure lo sgombero dell’insediamento del Parco della Favorita a Palermo nel 2021, campo non autorizzato abitato da famiglie rom, eseguito su ordine del Comune per garantire “la tutela dell’incolumità pubblica”. 

La necessità di un approccio più inclusivo

Rimuovere fisicamente chi occupa gli spazi pubblici è la soluzione più rapida per mostrare ordine, ma cosa accade dopo? Chi si occupa delle persone coinvolte in questi sgomberi? Le azioni per il decoro ignorano, infatti, il nodo centrale della questione: la povertà non è un crimine, ma il riflesso di una società che esclude.

L’Italia non può pensare di affrontare le proprie disuguaglianze sociali con politiche di esclusione e rimozione. Occorre un approccio che rimetta al centro le persone, con programmi di reinserimento sociale, accesso a servizi essenziali, sostegno in ambito lavorativo. Ma, più di tutto, è necessario abbandonare lo stigma e la diffidenza nei confronti di poveri ed emarginati, diffidenza che anima i provvedimenti e le procedure, rivelatrice di un’ideologia figlia delle paure. La presenza di immigrati, rifugiati, poveri ed emarginati nelle strade delle nostre città non dovrebbe diventare terreno di scontro politico, ma un appello a risvegliare le coscienze e a mettere al centro la nostra umanità

Riconoscere che il decoro urbano passa dal rispetto dei diritti di tutti, e non dalla negazione del problema, è il primo passo verso una società realmente inclusiva. Fino a quel momento, ci saranno solo nuovi Silos e nuovi viale Pretoriano

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