Le parole sono importanti. Lo sono in ogni contesto, a maggior ragione quando un nuovo candidato si presenta per la presidenza di un paese del G8, che è anche uno dei paesi fondatori dell’UE.
Eric Zemmour è un ex giornalista de Le Figaro. Nato da genitori ebrei di origine algerina, era il nome di punta di CNews, la “Fox News francese”. Questo fino a fine novembre quando, con un discorso alla nazione che voleva scimmiottare quelli del pater patriae De Gaulle, ha annunciato la sua candidatura alle presidenziali d’aprile. La sua nuova lista, Reconquête, si posiziona alla destra delle elezioni più a destra dagli anni ’40 in Francia.
Nel corso degli anni è stato più volte condannato per istigazione all’odio razziale. Il rischio che “Visengradizzasse” la Francia era già ben chiaro qualche mese fa.
Nel suo discorso della “discesa in campo” (linkato qui in basso, per chi abbia 9 minuti da spendere in modo creativo) si possono ascoltare “perle” come:
«L’immigrazione non è la causa di tutti i nostri problemi. Ma li peggiora tutti. La terzomondizzazione del nostro Paese lo impoverisce e disintegra». Ai suoi, per motivarli, dice: «Diranno che siete razzisti e che siete motivati da passioni basse. Ma siete animati dalla passione più alta: quella per la Francia!». Parla anche di un declino “morale” della Francia: «Smettiamola di lasciare i nostri giovani in mano a esperimenti di pedagogisti ed egalitaristi, i Dottor Stranamore delle teorie gender, gli islamo-leftisti»
L’analisi del dottor Zemmour è quindi una sola: «La Francia non è più la Francia».
Le parole sono importanti, e appunto per questo il messaggio eversivo di Zemmour non va ignorato. Non va ignorato perché è potenzialmente molto più pericoloso per noi rispetto a quello di Trump: è una potenza nucleare ai nostri confini, non è una nazione che si può isolare dal resto del continente. Senza contare che una Frexit (estremamente improbabile, ma è quello che si ventila nel discorso) sarebbe forse il colpo di grazia alla costruzione europea.
Noi, però, non ci siamo accontentati di scrivere un pezzo sul discorso di Zemmour. Abbiamo deciso di leggere il suo libro-manifesto, La France n’a pas dit son dernier mot (in italiano La Francia non ha detto l’ultima parola), che è la miccia che ha innescato la candidatura dell’ex editorialista de Le Figaro.
Nel mentre, Zemmour è sondato fra il 13 e il 16% dagli istituti di sondaggi francesi: lontano da Marine Le Pen ed Emmanuel Macron, ma eventualmente decisivo per un secondo turno. In compenso, pur riconoscendo l’importanza di alcuni dei temi portati avanti dall’ex polemista, la sua popolarità è calata drasticamente nel momento in cui ha annunciato la sua candidatura.
Tant’è che, nota il sito Linkiesta, un effetto lo ha già raggiunto: uno spostamento a destra dell’asse politico francese. Marine Le Pen ha interrotto la sua più che decennale rincorsa verso il centro; in generale, il tema della sovranità dell’identità nazionale in Francia diventerà (è già diventato) per forza uno dei temi della campagna elettorale.
In un paese in cui la sinistra “tradizionale” non esiste più (socialisti, verdi e sinistra di Mélenchon, dopo anni di vicendevoli scippi di voti, hanno raggiunto un equilibrio quasi perfetto), Zemmour non è un pericolo in sé. Lo sarà nel momento in cui troverà qualcuno che raccolga le sue istanze (che comprendono anche gli orfani dei Gilet Jaunes) e le renderà mainstream. Ma adesso andiamo al suo libro.
Zemmour ha detto la sua ultima…?
Va detto, in primo luogo, che non è facile avvicinarsi al testo di Zemmour: denso di tanti riferimenti culturali e politici che non sono proprio immediati per un non francese. La France n’a pas dit son dernier mot è un diario intimo che riparte dal 2006, dove si era interrotto il precedente diario, Suicide Français. Si era interrotto con la bocciatura del referendum sulla costituzione europea, per il quale Zemmour aveva fatto campagna.
E già dall’introduzione si capisce chi saranno i suoi avversari : le donne, i liberali, ma soprattutto gli immigrati, accolti proprio dai liberals. La teoria del “Grande rimpiazzo” viene ritirata fuori a intervalli regolari nel libro:
Il Grande rimpiazzo non è né un mito, né un complotto, ma un processo implacabile. Nessuno oserà porre questa questione di civiltà e identitaria al centro della campagna elettorale, nemmeno Marine Le Pen che parla come Emmanuel Macron che parla come Marine Le Pen.
Si appoggia a teorie e letture molto colte (a differenza di Secondo Matteo qui non ci sono pupazzi di Zorro o aneddoti dell’asilo) come le teorie storiche di Ibn Khaldun o Samuel Huttington; ma pare una continua rincorsa verso le sue tesi. Una rincorsa compiuta talvolta in modo strumentale e apparentemente ingenuo.
Ma non c’è niente di ingenuo in questo polemista d’origine algerina: il libro era pianificato da anni per una potenziale discesa in campo; tant’è che nella stessa introduzione, il primo leader nazionale che incontriamo è il suo competitor a destra, Marine Le Pen. Che, stando alle sue parole, lo avrebbe già messo sotto pressione a febbraio per non candidarsi.
L’introduzione (ma poi anche lo svolgimento) è una continua (e a modo sua colta) lamentazione sui costumi ormai decadenti della Francia, sui romani (che poi sarebbero i francesi) che sono la maggioranza, ma accettano di farsi governare da minoranze d’immigrati e da minoranze sessuali.
È un continuo elogio dei fantomatici «bei tempi andati» in una società meno complessa. Un tipo di ricordo che a Roma assume la forma innocua e un po’ caricaturale della campagna elettorale di Michetti, ma che in un paese che ha inventato il nazionalismo ha un potenziale eversivo enorme.
Un diario intimo
Se dovessimo dire cos’è questo libro, la risposta sarebbe: un lungo flusso di coscienza, privo di contraddittorio. Nelle pagine fanno capolino Sarkozy, Hollande, Macron, un numero enorme di personaggi pubblici come di delinquenti comuni e persino i terroristi. Tutta la narrazione, talvolta eccessiva nell’uso di aggettivi, viene compiuta in prima persona da Zemmour.
È un libro che difficilmente resisterà allo scorrere del tempo, perché non si tratta di un libro di storia con una lettura dei fatti oggettiva. E, d’altro canto, non è nemmeno un libro d’inchiesta giornalistica. Sì, qui e lì ci sono delle “confidenze”, ma per la maggioranza sulla vita privata dei protagonisti e solo per suffragare le sue opinioni.
Zemmour insiste su un punto: non è il solo a pensare che la società francese sia in declino, spinta da una tirannia delle minoranze. Ci sono decine di amici e colleghi, di destra come di sinistra, che gli riconoscono il fatto di aver ragione. Si considera bersaglio di una persecuzione molto ampia, fatta dai «professionisti dell’antirazzismo che credono nella religione dei diritti dell’uomo» e che per lui hanno formato «una nuova inquisizione».
Cosa manca
Quello che manca totalmente nel libro di Zemmour? Tanto per cominciare, un contraddittorio e una versione dei fatti che prescinda dall’esperienza personale dell’autore. Vediamo fatti storici, discorsi, teorie esposti con dovizia di particolari. Ma tutto è visto sotto la lente dell’ex editorialista di Le Figaro.
Molti dei personaggi citati hanno preferito non commentare le parti del libro che li riguardano. Va detto, però, che in alcuni passaggi si fa fatica a credere agli aneddoti raccontati dal polemista francese. E spesso si ha l’impressione che Zemmour banalizzi o deformi determinate dottrine politiche, filosofiche o sociali in maniera strumentale.
Inoltre, pur facendo sfoggio di centinaia di citazioni dotte per dare l’idea di un’esposizione oggettiva, nella seconda metà del libro si ha l’impressione che Zemmour scriva per confermare una sua tesi precostituita. Il che sarebbe anche normale, in un saggio politico.
Però, verso la fine si ha l’impressione che il giornalista abbia consolidato un suo nucleo di “certezze” e che le applichi a ogni tipo di situazione per persuadere il proprio lettore. Ripete in decine di episodi differenti la teoria della sostituzione etnica, della devirilizzazione dell’uomo, della tirannia delle minoranze etniche e sessuali rispetto alle maggioranze.
Troverete sicuramente tanti aneddoti e tante storie, anche interessanti, nel libro. Ma non aspettatevi di trovare molti concetti nuovi rispetto al video di candidatura.
Un Trump 2.0?
Nella sua auto-agiografia (un genere in cui ogni affermazione va presa con le pinze), a un certo punto, una delle responsabili della campagna elettorale al femminile di Donald Trump dice ad Eric Zemmour:
Sono mesi che studiamo la situazione in Francia. Conosciamo bene le differenze con l’America. Abbiamo capito tutto: è lei il Trump francese.
Rosine, responsabile della campagna elettorale femminile di Trump
Il portavoce del governo francese Gabriel Attal, proprio negli scorsi giorni, ha detto di lui con un po’ di malizia:
Zemmour? Un Trump ordinato su Wish, quella piattaforma dove comprare roba contraffatta che non funziona.
Gabriel Attal, portavoce del governo francese
Zemmour è però molto diverso da Trump: non ha alle spalle la sua disponibilità economica, e anche il suo “personaggio” ha dei tratti diversi dall’ex presidente americano. Non è nemmeno un Berlusconi francese con le sue aziende: non ha un impero mediatico che spinga per la sua elezione, sebbene poi abbia alle spalle Vincent Bolloré, l’AD di Vivendi.
Allons Zemmour de la Patrie?
La vera domanda però è: che conseguenze avrebbe una vittoria di Zemmour per l’Europa e per l’Italia? Va considerato, come sempre in questa analisi, che nessun presidente ha mai le mani totalmente libere. Però alcuni provvedimenti si possono intuire dalle sue parole.
- In primo luogo, Zemmour vincitore potrebbe significare il ritorno all’austerity nell’UE. Il suo scopo è di riportare la bilancia commerciale francese in attivo e ridurre il debito. Malgrado manchi ancora una “messa a terra” di questa proposta, sicuramente un meccanismo come il Recovery Fund non piacerebbe all’eventuale nuovo inquilino dell’Eliseo. Sempre nella stessa direzione andrebbe visto l’addio al Trattato del Quirinale, recentemente firmato dal nostro paese. Quindi un taglio deciso degli investimenti francesi nel nostro paese.
- Il sovranismo di Zemmour viene portato avanti con le politiche migratorie. Fra le sue proposte: l’abolizione dello Ius Soli e l’espulsione di chi ha carichi penali verso il paese di provenienza. Ma soprattutto non accettare flussi di migranti da nessuna parte in Europa. Un bel problema per il nostro paese, anche considerando che molti dei rifugiati puntano ad andare in Francia.
- Il rischio di una Frexit (e quindi un’implosione dell’UE) sarebbe abbastanza concreto: Zemmour ha detto in più occasioni che ogni trasferimento di sovranità a Bruxelles è per lui fumo negli occhi. La proposta di referendum sui trattati europei la porta avanti nella conclusione del suo libro, ma aveva già partecipato alla campagna contro la costituzione europea nel 2005.
- Infine, per i nostri studenti e lavoratori, c’è la questione aiuti: la Francia rilascia dei sussidi di “solidarietà sociale”, sia a francesi che a stranieri residenti nell’Hexagone. Lo scopo è, come dichiarato dallo stesso Zemmour, di «far andare via un po’ di stranieri».
Una Francia euroscettica è contronatura? Pensiamo allora al caso della Polonia: fino al 2014, con presidente Donald Tusk, era il paese da prendere a esempio per l’integrazione europea nell’ex blocco comunista. Oggi, sappiamo cosa succede a Varsavia.
Sconfitto, ma vincente?
Zemmour potrebbe non farcela, ma le sue proposte potrebbero comunque essere accolte: Marine Le Pen, intervistata da France Inter il 23 novembre, ha dichiarato:
La violenza di Zemmour nei miei confronti non ha senso. Tanto più che la sua candidatura non pare in grado di battere Emmanuel Macron e forse nemmeno di arrivare al secondo turno. Ho dei disaccordi con lui di tipo politico, non personale. Lui mi attacca personalmente, invece. Io, però, vorrei un governo che va da Zemmour a Montebourg.
Marine Le Pen
Se con Marine Le Pen c’è più di una ruggine, Zemmour è comunque in ottimi rapporti con una parte della classe dirigente del Rassemblement, soprattutto quella più nostalgica del padre “detronizzato” Jean-Marie. E, se gli può portare l’Eliseo che sogna da più di 10 anni, la Le Pen è pronta anche a passare sopra un insieme di “sparate a zero” che Zemmour le ha riservato nel suo libro. «Non devo fare un governo con chi è gentile con me, ma con chi può fare il bene della Francia».
Quello che sostiene Zemmour è che anche Macron, il presidente che l’intero arco parlamentare (dall’estrema destra all’estrema sinistra) vuole deporre, si ritrova nelle sue proposte. Dice di averne parlato con lui al telefono a maggio del 2020, in pieno lockdown:
– Poi inviatemi una spiegazione di quelli che sono i vostri piani.
– Quali piani?
– Avete capito… quelli sull’immigrazione, il mio segretario vi contatterà.
E. Macron ed Eric Zemmour
Vera o falsa che sia stata questa telefonata, Zemmour lo dice anche nel suo discorso della discesa in campo: «Io speravo di accendere una fiamma che poi sarebbe stata presa da qualche politico, con il mio lavoro di giornalista. Ho perso quest’illusione».
Un percorso segnato?
Assolutamente no. Se appunto va detto che i rischi di uno Zemmour che va all’Eliseo sono tanti, è anche vero che la Francia non è l’Europa Orientale. Se il disegno del polemista sarebbe una bella rivalutazione dell’uomo bianco francese, è anche vero che in Francia ci sono le Seconde generazioni, le donne, le minoranze sessuali.
I musulmani, all’ultima elezione presidenziale, hanno partecipato per il 73% (contro una media nazionale dell’80%) alle votazioni. Un elettorato di 5 milioni di persone che difficilmente voterà per un candidato che vede nell’Islamo-leftismo la causa del declino della Francia. Anche le altre comunità di discendenti di immigrati, in maniera meno pronunciata dei musulmani, si posizionano per la maggioranza a sinistra dello spettro politico.
Nel 2016 aveva fatto sensazione la scelta di un terzo delle coppie gay sposate di votare FN (poi Rassemblement), una percentuale che superava quella delle coppie etero sposate. Però la proposta politica di Zemmour sarebbe difficile da digerire anche per queste persone.
Poi, è sempre rischioso approcciarsi alle elezioni schematizzando e vedendo minoranze e maggioranza come blocchi assegnati a priori. Sarebbe non solo un’analisi fallace, ma anche quello che Zemmour cerca: la semplificazione di una realtà complessa, in cui c’è una “maggioranza” che è pronta, col proprio voto, a castigare la “minoranza”.
Nel libro, l’abilità di Zemmour sta nel riuscire a ripetere pochi concetti, ma talmente tante volte da farli interiorizzare al proprio lettore, alla fine della lettura. Parole d’ordine che, a un’analisi superficiale, sembrano l’avvio di un processo di pulizia della stato dal lassismo e della mollezza. Questo meccanismo riuscirà a conquistare gli elettori francesi? Appuntamento ad aprile per scoprirlo.
Autore
Camillo Cantarano
Autore
Amo il data journalism, la politica internazionale e quella romana, la storia. Odio scrivere bio(s) e aspettare l'autobus. Collaboro saltuariamente con i giornali, ma mooolto saltuariamente