L’ego vulnerabile di Donald Trump

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Una risata vi seppellirà, lo slogan che tinse i muri ribelli del lungo Sessantotto, è più attuale che mai. Nel primo episodio della 27esima stagione della sitcom animata South Park, Donald Trump, il sedicente re, è nudo e il suo ego smisurato viene deriso sotto i colpi della satira. Inutile dire che la Casa Bianca non l’ha presa bene, ma è curioso che per mettere in difficoltà il Presidente più controverso della storia degli Stati Uniti la satira sembri più efficace di ogni critica a freddo, dei cani da guardia della stampa, di ogni contromossa dei dem seduti al Congresso. Ridere del re nudo, letteralmente nudo, a letto con Satana o moribondo nel deserto, è la strategia migliore per far vacillare il potere autoritario di Donald Trump? 

A letto con il diavolo

Trey Parker e Matt Stone, i creatori di South Park, non solo hanno rifiutato di inchinarsi al re, ma gli hanno dichiarato guerra. L’episodio Il discorso della montagna dipinge Trump come un omuncolo patetico, ossessionato dalla propria immagine, che si relaziona con il mondo oscillando tra «Relax, guy!» e «I’m gonna sue you! (Vi denuncio!)». Ma soprattutto, umilia la vita sessuale del Presidente in ogni modo possibile, tanto che persino il diavolo risulta schifato a letto con lui e arriva a dire: «I need counseling (ho bisogno di terapia)». 

Il guanto di sfida ha nel mirino proprio il clima di gangsterismo intimidatorio che Trump ha gettato sul mondo dei media. Come ha spiegato a Pod Save America il chief media analyst della CNN, Brian Stelter, i creatori di South Park hanno sfruttato la posizione di vantaggio che l’accordo da 1,5 miliardi di dollari con la rete di distribuzione Paramount garantisce: costoso cancellare la serie in caso di pressioni. Così hanno deriso esplicitamente la rete stessa per l’accordo economico da 16 milioni con cui ha evitato di andare a processo contro Trump e hanno denunciato il trattamento riservato da CBS, controllata da Paramount, a Stephen Colbert, uno dei conduttori televisivi più critici dell’inquilino alla Casa Bianca. 

«Trump can’t take a joke»

La chiusura del late show più seguito d’America, The Late Show with Stephen Colbert, ufficialmente per «ragioni finanziarie», è solo l’ultimo capitolo della guerra di Trump contro i comici statunitensi. Durante la corsa alla presidenza del 2016, accusò i media di «truccare le elezioni», dopo aver visto Alec Baldwin imitarlo al Saturday Night Live, e lo stesso copione si è ripetuto per tutta la durata della sua prima amministrazione, come ha ricostruito Esquire. Non a caso, secondo uno scoop del Daily Beast del 2021 ripreso da tutte le testate americane, Trump avrebbe chiesto consiglio ai suoi collaboratori su come sfruttare le istituzioni federali per usare il pugno di ferro contro SNL, Jimmy Kimmel Live! e altri programmi non graditi. Il giorno dopo Jimmy Kimmel rispose: «Trump can’t take a joke! (Trump non sa stare agli scherzi!)».

In effetti l’orgoglio megalomane di The Donald rivela tutta la sua vulnerabilità. Si sa, la satira non piace agli autocrati, eppure è rilevante che proprio lui fatichi ad accettare le regole del gioco. Trump, un soggetto politico abituato a mettersi coscientemente in ridicolo pur di agganciare emotivamente il suo pubblico e di catturare la viralità, tanto da arrivare a simulare del sesso orale con un microfono malfunzionante durante uno dei suoi ultimi comizi pre-elettorali. L’Atlantic raccontò l’accaduto in un articolo dal titolo inequivocabile: Trump Needs Help

Non ci resta che ridere

Di tutte le strategie adottate dal ticket democratico Harris-Walz durante la corsa alla corsa alla presidenza, l’aggettivo weird associato al popolo MAGA e ai suoi leader è stato il più rivelatorio, quantomeno per mandare in cortocircuito l’impermeabile e grottesca retorica di Donald Trump. Per quanto già allora accusare di minaccia alla democrazia il pregiudicato promotore del tentato colpo di Stato di Capitol Hill fosse più che ragionevole, basare la propria proposta politica sul pericolo esistenziale di Trump si era rivelato controproducente. Etichettarlo come «weird (strano)» l’aveva colpito più a fondo e aveva rilanciato la luna di miele di Kamala Harris, grazie alla spinta del candidato alla vicepresidenza Tim Walz. Per una volta, Trump era stato tagliato fuori dalla conduzione della risata e si era infuriato, ma, come sappiamo, ridere di Trump non è bastato.

Così come non è bastato rilanciare l’acronimo TACO (Trump Always Chickens Out, ovvero Trump fa sempre marcia indietro), coniato dal giornalista del Financial Times Robert Armstrong per evidenziare il bluff dell’amministrazione Trump nella guerra dei dazi, per segnare un vero cambio di rotta. Eppure, anche qui la Casa Bianca non l’aveva presa bene: Trump si era mostrato ferito nell’orgoglio davanti alle telecamere, più indispettito del solito. La risata aveva fatto breccia, ma davvero non ci resta che ridere?  

La strategia flood the zone coniata dall’ex consigliere di Trump Steve Bannon spiega bene come i democratici e i giornali di opposizione (e non solo) non riescano a stare al passo con i rilanci continui della galassia MAGA. Sempre in ritardo, sempre un passo indietro al nuovo tweet o al nuovo ordine esecutivo irricevibile del presidente, costretti a fare ordine nel suo cinismo caotico. In più, ogni critica a freddo sembra rimbalzare al mittente.

Non è un caso che la prima vera crisi della seconda presidenza Trump non provenga dalla violenza liberticida senza precedenti che ha riversato sugli Stati Uniti d’America, ma dal caso Epstein, che, per quanto torbido e orribile, per ora non è nulla di nuovo. Non è una buona notizia se l’unico modo per far vacillare il potere autoritario di Trump sono la satira e i complotti.

La ricetta Mamdani

Mark Fisher sosteneva, citando Frederic Jameson e Slavoj Žižek, che: «È più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo» e insisteva sul senso di impotenza di fronte all’immaginazione di un’alternativa. Sembra valere lo stesso per il fenomeno Trump: certo, il suo consenso crolla e la sua base può spaccarsi, ma da fuori il suo universo sembra inscalfibile e i democratici non riescono a riconquistare le redini culturali del discorso pubblico, soprattutto dopo la crisi delle istanze woke.

La satira si è dimostrata un’arma notevole: ridere del re nudo funziona, ma serve di più e Zohran Mamdani lo dimostra. La sua vittoria da underdog alle primarie dem per la carica di sindaco di New York City rappresenta un’alternativa concreta per un partito che ha perso la bussola politica: è giovane, radicale, ma soprattutto un leader carismatico in grado di parlare dei bisogni reali dei cittadini, di reggere il confronto con il cinismo aggressivo della retorica MAGA e di recuperare il controllo della narrazione. 

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