Secondo uno studio della sociolinguista e ricercatrice Rachael Tatman, il riconoscimento vocale automatico di Google ha il 70% in più di probabilità di decifrare correttamente un testo pronunciato da una voce maschile piuttosto che da una voce femminile. Come dimostrano le ricerche in ambito fonetico, però, la dizione femminile risulta essere più comprensibile e chiara rispetto a quella maschile. Perché, allora, i sistemi di riconoscimento vocale dei motori di ricerca più potenti al mondo manifestano un evidente problema nel comprendere le voci delle donne?
Come spiega Caroline Criado Perez nel saggio Invisibili, la risposta risiede nei dati, o meglio, nella mancanza di dati. I sistemi di riconoscimento vocale, infatti, sviluppano le capacità di apprendimento mediante database di registrazioni vocali (detti corpora), nei quali la quantità di campioni di voci maschili supera di gran lunga la percentuale femminile. In poche parole, questi dispositivi sono abituati ad ascoltare quasi esclusivamente le voci degli uomini!
Ancora, stando ai dati raccolti dall’American Heart Association, negli Stati Uniti (dal 1984) il tasso di mortalità a causa di malattie cardiovascolari ogni anno è maggiore per le donne che per gli uomini. Come dimostra uno studio pubblicato dal New England Journal of Medicine nel 2000, questo dato può essere facilmente motivato dal fatto che le donne, vittime di diagnosi errate e di superficiali valutazioni, vengono dimesse molto più velocemente degli uomini che soffrono delle medesime patologie, soprattutto perché i sintomi manifestati dalla maggior parte di queste durante un arresto cardiaco vengono considerati «atipici». Durante un infarto le donne presentano più comunemente dolore addominale, mal di stomaco e respiro affannato, ma non dolori al petto o alle braccia (sintomi da manuale dell’infarto, è il caso di specificarlo, maschile).
Una società che esclude sistematicamente la metà della popolazione mondiale dai campionari delle indagini statistiche (di qualsiasi natura le indagini siano) è una società che considera l’essere umano maschile di default.
Se, per la realizzazione di un’indagine statistica, risulta scontato identificare come campione rappresentativo della popolazione media l’uomo (in particolare bianco), è il caso di ammettere che abbiamo un problema. La mascolinità, infatti, sembra costituire la norma (e, di conseguenza, la normalità) da cui più si differisce e più si viene esclus3. L’identità maschile risulta una condizione non marcata, neutra, basilare. In altre parole:
La forma prototipica del genere umano.
Ma cosa s’intende con prototipo? Gli studi cognitivisti degli anni Settanta promossi dalla psicologa Eleanor Rosch descrivono il concetto di prototipo come «l’elemento più rappresentativo di una categoria». Data una categoria, per esempio “gli uccelli”, caratterizzata da una serie di tratti tipici (ali, becco, piume, bipedi, capacità di volare), ognuno di noi, in base al proprio contesto socio-culturale, individuerà a livello mentale i vari membri della categoria dal più al meno rappresentativo, ovvero, più o meno vicino all’idea di prototipo. Per intenderci: nel caso degli uccelli, stando alle suddette caratteristiche, un corvo risulta molto più vicino alla comune idea di uccello rispetto a un pinguino. Ossia, se si pensa a questa specie animale è probabile che l’idea più rappresentativa che ci viene in mente sia quella di un corvo o di un passero, meno probabilmente si tratterà di una gallina o di un pinguino. Ecco, diciamo che la nostra mente si comporta allo stesso modo anche quando categorizziamo l’essere umano. In questo caso, uno dei tratti più salienti della categoria “umano” sembra essere “maschio” (in altri termini, le donne sono i pinguini).
Come affermano i linguisti Croft e Cruse, più un elemento è rappresentativo di una categoria, maggiore è la frequenza con cui tale elemento viene menzionato e maggiore è la probabilità che sia più facilmente e velocemente appreso. Facciamo un esempio pratico e piuttosto rivelatorio:
Nel suddetto saggio Perez cita un’indagine condotta nel 2008 su student3 pakistan3 compresi tra gli otto e i nove anni. Ai bambin3 era stato chiesto di rappresentare con un disegno il concetto di “noi”. Il risultato: tutti i bambini e la maggioranza delle bambine hanno raffigurato gruppi di individui di un solo genere, quello maschile.
Siamo sicuri, dunque, che il maschile sia un genere?
Come afferma Perez, «il risultato di questa dominazione culturale dei maschi è che l’esperienza e la prospettiva maschili hanno finito per assumere una dimensione universale», quella dimensione che Carla Lonzi parafrasando criticamente Hegel chiama «l’autocosciente forza dell’universalità per la quale l’uomo diventa cittadino».
L’uomo si percepisce ed è percepito come universale, la donna rimane un’appendice del particolare. Come ricorda Vera Gheno: «agli uomini farebbe bene sentirsi un “genere”. […] Noi siamo le quote rosa, ma voi [uomini] non siete le quote blu».
Un’ulteriore e innegabile spia di tale percezione è il linguaggio: tutti lo ascoltiamo, lo comprendiamo e scegliamo di usarlo. Pensiamo, ad esempio, all’utilizzo del maschile cosiddetto generico. Nelle lingue con genere grammaticale, ossia, in cui esiste una distinzione di genere nei sostantivi, come l’italiano e lo spagnolo per esempio (a differenza dell’inglese), il sistema comunemente riconosciuto per riferirsi a gruppi che comprendono individui di entrambi i generi è quello di utilizzare il maschile. Si utilizza il termine alunni per riferirsi a una classe composta da bambine e bambini.
Da definizione generico vuol dire: «che concerne tutto un genere». Nel caso del maschile generico nelle lingue a che genere si fa riferimento? Al genere umano? Il genere umano è dunque maschile?
Per riferirci ad un gruppo di 20 scrittrici utilizziamo il femminile plurale scrittrici ma basta la presenza di un unico uomo nel gruppo perché si debba parlare di scrittori. Se, al contrario, vi fossero 19 uomini e una donna il genere femminile non avrebbe la stessa rilevanza linguistica, e si dovrebbe parlare ugualmente di scrittori.
Questa voluta sovraestensione di un genere sull’altro non è priva di conseguenze a livello cognitivo e culturale: numerose ricerche psicologiche, infatti, dimostrano che l’utilizzo dei maschili generici contribuisce a rafforzare gli stereotipi di genere e a svantaggiare le donne in ambito scolastico e lavorativo. In uno studio condotto dagli psicologi Sandra e Deryl Bem nel 1973, un campione di uomini e donne è stato sottoposto a tre tipologie di annunci di lavoro: uno utilizzava diciture neutre (lineworker “tecnicə di rete”), un altro utilizzava una terminologia al maschile (lineman), mentre il terzo annuncio era formulato al femminile (linewoman). L’esito del test dimostrò che solo il 5% delle donne avrebbe voluto proporsi per le offerte lavorative formulate al maschile, il 25% per quelle formulate in maniera neutra e il 45% delle donne presenti nella statistica si sarebbe proposta per il lavoro formulato al femminile.
L’idea paternalistica e rassicurante secondo la quale la parola uomo è una generalizzazione per indicare l’essere umano non sembra avere lo stesso peso nelle nostre menti: nella maggior parte dei casi il maschile generico è solamente maschile sovraesteso a tuttə il resto.
Per concludere, come asserisce Perez, «quando si è abituati da tutta una vita a dare per scontato il fatto di essere maschi e bianchi, è comprensibile che ci si possa dimenticare che anche quella è un’identità» e in quanto tale dovrebbe essere considerata. Sarebbe auspicabile che gli uomini cominciassero a considerare loro stessi come un gruppo che è parte delle molteplici identità umane e non come la forma base di ognuna di esse.
Per approfondire la bibliografia:
S. Arduini – R. Fabbri (2008), Che cos’è la linguistica cognitiva, Carocci.
C. Lonzi (2023), Sputiamo su Hegel e altri scritti, La Tartaruga.
C. C. Perez (2019), Invisibili. Come il nostro mondo ignora le donne. Dati alla mano, Einaudi.
S. L. Bem – D. J. Bem (1973), Does sex-biased job advertising “aid and abet” sex discrimination?, in «Journal of Applied Social Psycholog», 3.
R. Tatman, Making Noise & Hearing Things. Linguistic and Data Science.
American Heart Association (2016), Acute Myocardial Infarction in Women, in «Circulation», 9, 133.
J. H. Pope et al. (2000), Missed Diagnoses of Acute Cardiac Ischemia in the Emergency Department, in «The New England Journal of Medicine», 342.
Autore
Elena Tronti
Autrice
Nata nel 1998, laureata in Linguistica. Amo i boschi e guardare film. Credo ancora che parlare sia l’atto più rivoluzionario di cui siamo capaci. Parlare di femminismo ancora di più.