Giuseppe Valerio Fioravanti (detto Giusva) è stato uno degli esponenti di punta del terrorismo di estrema destra che nel corso degli anni ’70 e ’80 si è innestato sulla già in corso “strategia della tensione”: quella che oggi è sempre più largamente descritta come il complesso di influenze che settori deviati dello stato ed organizzazioni internazionali paramilitari hanno esercitato in funzione anticomunista e con lo scopo di controllare gli equilibri culturali, politici e sociali dell’occidente
Cresciuto in una famiglia piccolo-borghese romana e alla luce dei posticci riflettori della conformista televisione italiana (perché da bambino e da primo adolescente sarà uno dei volti-immagine di questa), Giusva arriva alla politica estrema quasi con casualità.
Inizia con piccole rappresaglie di quartiere compiute con il fratello Cristiano, passa dalla militanza con il movimento sociale Italiano alla creazione di una propria organizzazione autonoma: i Nuclei Armati Rivoluzionari. Con l’obiettivo di “alzare il livello di conflitto” la nuova organizzazione neofascista collezionerà azioni criminali ai danni di militanti comunisti, operai, poliziotti, magistrati, innocenti dalla seconda metà degli anni ’70 fino agli inizi degli anni ’80. Fino alla strage di Bologna.
Perché la Corte di Cassazione il 15 novembre 1995 dichiarerà definitivamente colpevoli come esecutori materiali Valerio Fioravanti e la sua compagna Francesca Mambro, per quella stage che costò la vita a 95 cittadini innocenti, e ne ferì oltre 200; furono condannati anche Licio Gelli ed altri piduisti per aver depistato le indagini, e nei confronti di altri terroristi riconducibili a quell’area politica ci sono processi sono tutt’ora in corso.
Per un approfondimento sulla sua figura ed in generale per il fenomeno del terrorismo nero, un formidabile lavoro è stato fatto da GOG edizioni, con il loro Borghesia Violenta, edito nel 2021 dalla omonima casa editrice, e scritto da Nicola Ventura e Davide Barra. Recentemente è uscito anche un loro podcast.
La nota obbligatoria a questo discorso è che anche le verità processuali vanno prese con le pinze, perché la condanna ai due NAR non risolve granché della complessità della vicenda.
Mentre infatti ancora si cerca di ricostruire tutte le implicazioni della strage, che rimane incerta circa i mandanti originari, colpisce un avvenimento che risale all’anno scorso, al giugno del 2023: Valerio Fioravanti, condannato ad 8 ergastoli e ad un risarcimento miliardario nei confronti dello Stato, inizia a scrivere per una testata giornalistica: L’Unità. Il giornale che Antonio Gramsci fondò nel 1924 in piena vigenza del regime e che gli costò la cattura, il carcere, e poi la vita.
Il fondatore del Partito Comunista, per il quale L’Unità rappresentò coerentemente un baluardo sul piano egemonico culturale fino a diventare autentico simbolo per milioni di italiani, non poteva sapere che ad un secolo di distanza dalla sua fondazione un terrorista neofascista, mai pentito della sua fede politica, ne avrebbe fatto l’editorialista: questa possibilità gli è stata data a partire dalla libertà condizionale ottenuta nel 2009 (oggi Fioravanti è invece un uomo completamente libero), e dalla sua appartenenza alla ONG Nessuno tocchi Caino, che è stata fondata all’inizio dagli anni ’90 a Bruxelles da alcuni radicali italiani e fa attivismo per promuovere l’abolizione della pena di morte e la tortura. Difatti Fioravanti nella sua “attività giornalistica”, che continua tutt’oggi, si occupa di temi inerenti i regimi carcerari o casi di cronaca carceraria.
Un tema nobile senza dubbio, ma che forse dovrebbe essere trattato da persone che spendono la loro vita studiandolo, e che sono realmente preparate dato che è difficile ritenere questo un tema “di opinione” in cui ognuno può dire la propria. Tanto per farvi un’idea, Giusva ha recentemente definito “razzista” il regime del 41 bis, perché in questo sarebbero preponderanti i detenuti del sud Italia. Si, proprio così: La pena di morte negli Usa è razzista, come il nostro 41bis (unita.it)
È chiaro che L’Unità oggi non rappresenta più nulla di quello che è stata in passato, per motivazioni storiche e politiche che, lungi dal poter essere riassunte in poche righe, hanno segnato il passaggio di un’epoca, e per il fatto di essere ormai un giornale senza più influenze ideologiche, che è fallito ed è stato salvato più e più volte negli ultimi decenni, da ultimo dall’imprenditore napoletano Alfredo Romeo che ha affidato la dirigenza a Pietro Sansonetti, prima al Riformista, passato ora nelle mani di Renzi.
È altrettanto chiaro che rimane un principio Costituzionale la reintroduzione di un condannato nella società e che anche i reati a sfondo politico non meritano la gogna. Noi abbiamo difeso la posizione di Cospito quando ce ne è stato il bisogno, non in senso direttamente ideologico come è ovvio, ma dalla gogna mediatica che gli si era costruita intorno.
Ma il garantismo penale con questo autentico smacco non ha a che fare: perché confondere per una pratica discriminatoria, vicina alla censura, la reazione che associazioni delle vittime e diverse parti politiche hanno avuto nei confronti di questo fatto, condannandolo, vuol dire mistificare la realtà e non ammettere che, garantismo a parte, si possa ritenere non opportuna sul piano politico (che sembra progressivamente esistere sempre meno nel dibattito pubblico) una tale scelta, ed anzi si possa illazionare che sia stata fatta apposta.
È grande la distanza tra il diritto di Fioravanti di reintegrarsi nella società, di essere rispettato in quanto uomo nella sua dignità, e la stringente necessità di affidargli la sezione giustizia di un giornale che continua, seppure nei ricordi, a valere come simbolo. Ma forse questa vicenda, tra l’altro ormai già dimenticata e che ha alzato solo qualche periferica polemica tra interessati, permette di leggere in controluce una realtà ben più cupa: il tasso di disunità sociale, di impossibilità di considerarsi come una comunità, di individualismo, è ad un punto di non ritorno.
Una notizia del genere avrebbe, in un altro tempo, creato un sommovimento tanto grande da provocare un effettivo dibattito pubblico sul tema, una polemica vera e propria, che comunque, e democraticamente, avrebbe avuto un suo esito.
Invece no, la risonanza mediatica di questo evento è stata lasciata al vouyerismo di qualche testata e alla disperazione dei parenti delle vittime che risuona nel silenzio di una società che non parla più della sua storia, nemmeno di quella tragica. Ricordare serve a fare ordine in un mondo confuso, a costruire il proprio pensiero autonomamente e fuori da condizionamenti che sono tanto più probabili e grandi quanto più possano agire su coscienze che non utilizzano la conoscenza storica come linfa della propria capacità critica.
Autore
Federico Mastroianni
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Classe 2001, ma mi sento molto più vecchio. Studente di Giurisprudenza a Roma, aspirante giornalista (infatti mi piace molto scrivere), ma anche suonare la chitarra. E questo è quanto.