La Camera ha approvato l’autonomia differenziata: così i patrioti spaccano il Paese

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Il disegno di legge che disciplina l’autonomia differenziata, e quindi la sostanziale secessione, è stata approvata alla Camera. Ora la palla al Presidente della Repubblica, che vista la palese incostituzionalità del testo potrebbe apporre il veto sospensivo. Anche se questo risulta essere, per molti, una prospettiva improbabile. È necessario spiegare, senza entrare davvero in una materia tecnicamente complessa, quali sono i nodi principali di questa proposta, quale sia la sua genesi e gli effetti che provocherà, ricordando come premessa che non si tratta di una piccola riforma per tecnici, ma di una questione estremamente politica e che racconta  una certa visione di Paese, e che avrebbe inevitabili ricadute sui principi (costituzionali) che dovrebbero tenerlo insieme. Partiamo dall’inizio.

Come nasce l’autonomia differenziata?

Il primo politico a immaginare una macroregione, chiamata “Lega del Po”, fu Guido Fanti, Presidente comunista dell’Emilia-Romagna. Alla base di questa prima visione federalista vi era la necessità di ottenere una maggiore forza di contrattazione delle regioni nei confronti del Governo centrale. Fu Piersanti Mattarella a evidenziare l’inappropriatezza di questa proposta.

Il dibattito sul federalismo regionale trovò nuova linfa con l’avvento della Lega Nord e di Umberto Bossi, una forza politica tradizionalmente lombardo-veneta e con istinti secessionisti.

L’avvento della Lega Nord spinse il centrosinistra, verso la seconda metà degli anni ’90, ad avviare forti processi di decentramento, a partire dai decreti Bassanini, che trasferirono numerose funzioni alle Regioni e ai Comuni. Nel 1999,l’allora Presidente del Consiglio Massimo D’Alema, cercando di recuperare consensi alla Lega di Bossi in vista delle imminenti elezioni politiche, avviò un processo di revisione costituzionale che portò all’approvazione della legge costituzionale 3/2001, trasformando l’Italia in una Repubblica delle autonomie.

La famosa riforma del Titolo V introduceva novità interessanti come la spinta al decentramento e il principio di sussidiarietà, oltre al rapporto delle Regioni con l’UE. Tuttavia, presentava e presenta tuttora aspetti preoccupanti, come la ripartizione delle competenze che, come abbiamo visto durante la pandemia, crea problemi e confusione riguardo alle responsabilità, tanto che spesso la Corte Costituzionale è intervenuta per chiarire i diversi conflitti di attribuzione sollevati.

Le evoluzioni fino ad oggi

Prima del 2017, questa norma era rimasta inattuata. Tuttavia, in seguito ai due referendum consultivi in Lombardia e Veneto, che chiedevano maggiori forme di autonomia al Governo, l’allora Presidente del Consiglio dimissionario Paolo Gentiloni firmò i primi accordi con queste due regioni.

Con l’avvento del Governo giallo-verde, l’autonomia differenziata fu inserita al punto 19 del contratto di governo come obiettivo imprescindibile. La Ministra per gli Affari Regionali e le autonomie, Erika Stefani, si impegnò a realizzare quanto previsto dal contratto. Nel 2019, l’autonomia sembrava ormai prossima, ma fu rimandata a causa dell’opposizione degli esponenti del Movimento 5 Stelle.

Successivamente, la questione dell’autonomia passò nelle mani del Ministro del PD Francesco Boccia, che, invece di un approccio diretto con le Regioni (a cui nel frattempo si erano aggiunte anche Emilia-Romagna, Campania, Toscana e Abruzzo), preferì elaborare una legge quadro che definisse il percorso verso il regionalismo differenziato. A causa della pandemia, la questione è stata messa in secondo piano.

Il Governo Meloni

Dopo il Governo Draghi, il dibattito sull’autonomia regionale ha ripreso vigore con la nomina di Roberto Calderoli a Ministro degli Affari Regionali e le Autonomie. Calderoli ha deciso di proseguire sulla linea del suo predecessore,Francesco Boccia, presentando un disegno di legge, come sappiamo approvato alla Camera questa mattina..

Il DDL Calderoli, contrariamente a quanto sostenuto da alcuni, non “realizza” l’autonomia in sé, ma definisce il processo per l’attuazione del regionalismo differenziato.

Ma quindi, cosa prevede l’autonomia? 

Sicuramente la norma più pericolosa e vaga è quella prevista dall’articolo 116, comma 3, della Costituzione, ovvero l’autonomia differenziata. Questa norma prevede che le regioni, oltre alle prerogative già acquisite in tema di potestà legislativa grazie alla riforma dell’art 117, possano richiedere ulteriori forme di autonomie (che il Governo valuta discrezionalmente, da regione a regione, non essendo tenuto ad accettarle) e vedersi assegnare la suddetta potestà su altre materie, qualora ne facciano richiesta con un’intesa (tra lo Stato e la Regione interessata) che dovrebbe basarsi sulle regole procedurali determinate dalla legge oggi in discussione, che non è una legge costituzionale ma una legge ordinaria rinforzata, perché per essere approvata ha bisogno di una maggioranza assoluta e non relativa. 

Quindi quando si parla di autonomia differenziata, in realtà si sta parlando non delle singole intese che di volta in volta le regioni potrebbero predisporre, bensì della norma procedurale necessaria per attuare la Costituzione, e rendere possibile in effetti questo meccanismo, che tra l’altro per come pensata oggi, individua il Parlamento come una sorta di “rafiticatore” di quanto deciso volta per volta nelle intese, affidando alle commissioni paritetiche Stato-Regione le decisioni valutative ed attuative più importanti. 

Abbiamo intervistato il Professor Gianfranco Viesti,  professore di Economia all’università di Bari e autore del saggio Contro la secessione dei ricchi (Laterza), che ha scritto moltissimo sul tema, per capirlo meglio, e per giustificare su basi razionali e non solamente di slogan, la precarietà del disegno di riforma se comparato con il disegno costituzionale e con dei principi che si vivono quotidianamente. 

Il professore ha evidenziato come l’art 116 co 3 Cost, è il disegno generale predisposto dalla Costituzione. Quello che non è banale, però, è come la legge ora approvata attuerà queste previsioni, che già in se stesse , significano una visione della Repubblica frammentata, in cui ogni territorio potrebbe avere standard (in quelle materie) molto diversi tra loro, in base alle diverse decisioni (ed espressioni) politiche, oltre che delle risorse finanziarie, di certo non uguali ovunque, per fattori molto diversi e stratificati nel tempo; una differenziazione così marcata per ogni Regione, abbatterebbe la possibilità di guardare complessivamente come Nazione a dei problemi e delle tematiche in senso unitario, riducendo secondo BankItalia e l’Anci, anche l’efficienza dei servizi pubblici complessivi del paese, e la capacità del governo centrale di governare l’economia, oltre che di fare scelte strategiche (e condivise da tutti) in determinati settori, con l’evidente e banalizzato (ma non banalizzabile) risultato di ostacolare ancora di più l’eguaglianza sostanziale tra gli Italiani, in base alla latitudine del luogo di residenza; ed inoltre farebbe tornare la Storia indietro di quasi due secoli, verso un’Italia di staterelli, come a dire che l’unificazione sia un fatto tutto sommato rivedibile nella sostanza, e che non c’è l’Italia, ma le Italie. 

È necessario fare un cenno ai famigerati LEP (livelli essenziali delle prestazioni), definiti sempre da Viesti, in un’intervista sul Domani, come “una cortina di fumo della maggioranza nei confronti dell’elettorato”. Infatti. la determinazione dei LEP, che secondo l’articolo 117, comma 2, lett. M della Costituzione spetta al Parlamento, sarà invece affidata ad una commissione tecnica o ad un commissario.

I Livelli Essenziali delle Prestazioni rappresentano il minimo standard di qualità per i servizi essenziali erogati ai cittadini, riguardanti sia i diritti sociali che civili degli abitanti. Tuttavia, è importante sottolineare che i LEP non costituiscono livelli universali ma essenziali, ossia rappresentano il livello minimo indispensabile al di sotto del quale non si può scendere.

Pertanto, è probabile che la suddetta commissione tecnica si limiti ad affermare che i LEP dovranno essere garantiti basandosi sulla situazione attuale.

Inoltre, secondo gli studi condotti dall’Ufficio Programmatico di Bilancio (UPB), per finanziare i LEP sono necessari circa 80 miliardi di euro, una cifra che l’economia nazionale attuale non possiede, soprattutto considerando i vincoli imposti dal nuovo patto di stabilità che impone forti limiti di bilancio ai Paesi con un elevato rapporto debito-PIL.

Quale è il senso politico e sociale di tutta questa vicenda? 

Il concetto di autonomia differenziata è l’espletazione della perdita dei valori democratici più puri. Eppure l’autonomia è prevista dalla costituzione. 

L’individualismo regionale competitivo è l’immagine di una società frantumata, discorde con i principi sui quali L’Unità del Nostro Paese è stata voluta ormai secoli addietro. È l’espletazione dei valori dell’individualismo autoreferenziale neoliberale dell’homo aeconomicus, è un discorso di classe che (si badi bene) non riguarda solo il Meridione. Se infatti le differenze sono ben accette ed anzi da preservare come patrimonio culturale nazionale, le diseguaglianze strutturali (economiche o sociali che siano) andrebbero limitate, e non sfruttate ai fini di un incremento produttivo come la riforma vuole fare. L’attenzione al welfare è fondamentale, e lasciare i più deboli a sé stessi non è una strategia per incentivare lo “sviluppo” (termine sul quale si potrebbero avviare discussioni per il significato intrinseco e politicamente posizionato dello stesso) dei più deboli.

C’è da sottolineare, poi, come la riforma tocchi in realtà indirettamente il Meridione – creando proprio così una spaccatura, una “secessione dei ricchi”. In che senso? Economicamente, se parte dell’erario viene assorbito direttamente dalle Regioni – lasciandole libere di utilizzarlo come meglio credono – diminuiscono i fondi disponibili a livello nazionale. Di conseguenza le regioni più svantaggiate (tendenzialmente le meridionali), ne subiranno le conseguenze.

La retorica sterile è un’arma, e le promesse di «maggiore aiuto a Sud e Centro-Sud per garantire maggiore uguaglianza sostanziale» non sono altro che parole al vento. Gli stessi Veneto e Lombardia, infatti, si sono interessati alla questione per massimizzare i profitti, oltre che regionali, individuali. Soprattutto, vuol dire applicare una politica alla “Sheriff of Nottingham” e spianare la strada ad uno stato arlecchino in cui le differenziazioni vengono strumentalizzate in una logica neo-liberista di arricchimento individuale – dove le Regioni costituiscono l’atomo amministrativo primario di arricchimento.

Si va anche in basso nella piramide: l’ANCI (Associazione Nazionale Comuni Italiani) è conforme nell’affermare che la lesione dei poteri amministrativi comunali non farebbe altro che rubare poteri, ufficialmente moltiplicando l’estensione numerica dei centri di potere, ma ufficiosamente accentrandoli tutti nelle mani del Presidente di Regione. E poi, chi garantisce che la gestione regionale sia migliore di quella nazionale in materie come quella energetica? È tutto un salto nel vuoto. 

L’attuazione della riforma sarebbe la conferma dell’adesione del nostro Paese ad un sistema fortemente capitalista e meritocratico, all’insegna del darwinismo sociale che è ormai quasi un valore fondante della retorica nazionale ed internazionale tanto è utilizzato nelle istituzioni. Attuarla vorrebbe dire confermare le dinamiche di privilegio perpetuando ed addirittura legittimandole a livello politico. Vorrebbe dire continuare a subordinare i diritti e lo Stato sociale al processo produttivo e di arricchimento dei più forti a discapito dei più deboli, incentivando la privatizzazione e l’individualismo, la verticalizzazione del potere. E che un tema così fondamentale e così impattante sui cittadini sia sfruttato dalle parti politiche per fomentare l’incessante diatriba fra destra e sinistra finalizzata unicamente alla vittoria della propria fazione del momento. Noi non ci stiamo.

Le uniche strade percorribili restano il ritiro della richiesta da parte delle regioni, in particolare modo da quelle guidate dal centro-sinistra, che potrebbe aprire un precedente importante. 

Vi sarebbe poi la possibilità da parte delle stesse regioni di sollevare un conflitto di attribuzione dinanzi la Consulta, superando anche il carattere particolare della legge Calderoli che potrebbe bloccare un eventuale referendum abrogativo. Noi intanto staremo a vedere.

Autori

Classe 2001, ma mi sento molto più vecchio. Studente di Giurisprudenza a Roma, aspirante giornalista (infatti mi piace molto scrivere), ma anche suonare la chitarra. E questo è quanto.

Simona Marrone

Simona Marrone

Autrice

Sono una studentessa e giornalista pubblicista, da sempre appassionata di attivismo e critica sociale. Mi piace cimentarmi in tutto ciò che trovo stimolante ma, soprattutto, adoro scrivere!

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