Israele è il primo Paese per vaccini somministrati, ma chi è incluso nel diritto alla sanità israeliana?

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La campagna vaccini è iniziata da ormai qualche mese e Israele risulta essere, ad oggi, tra i primi Paesi per vaccinazioni effettuate sulla popolazione: la campagna israeliana è stata finora “la più efficace al mondo”, come riportano tutte le maggiori testate internazionali, stando ai dati disponibili delle prime statistiche. Quello che però rimane un dubbio per tutti è: che cosa intendiamo con ‘popolazione israeliana’? A che costi questa campagna sta procedendo? E soprattutto: i palestinesi hanno diritto di accedere al vaccino?

Israele si è munito di otto milioni di dosi di vaccino dalla Pfizer e di sei milioni di dosi da Moderna, mostrandosi disposto a pagare una dose di vaccino molto di più di ogni Paese occidentale (circa 28 dollari per dose, a fronte dei 19 dollari spesi dagli USA).

La situazione vaccini nei territori occupati della Palestina

I capi di Stato israeliani si ritengono assolutamente non responsabili della vaccinazione della popolazione palestinese residente in Cisgiordania, nella Striscia di Gaza e a Gerusalemme Est. Tuttavia l’ONU riconosce tali zone come territori occupati, e, in quanto tali, rimette alla responsabilità del governo israeliano la distribuzione dei vaccini nei territori palestinesi. Ad esortare il governo di Israele anche il MEDU (Medici per i Diritti Umani), assieme ad altre numerose associazioni per la cooperazione internazionale. Infatti, secondo l’Articolo 56 della Quarta Convenzione di Ginevra (1949) in materia di territori sotto occupazione:

La Potenza occupante ha il dovere di assicurare, nella piena misura dei suoi mezzi, e di mantenere, con il concorso delle autorità nazionali e locali, gli stabilimenti e i servizi sanitari e ospedalieri, come pure la salute e l’igiene pubbliche nel territorio occupato, specie adottando e applicando le misure profilattiche e preventive necessarie per combattere il propagarsi di malattie contagiose e di epidemie.

Le associazioni che denunciano le autorità d’Israele di aver trascurato l’emergenza sanitaria nei territori occupati, inoltre, fanno appello anche al protocollo di Parigi (1994), altro importante documento di diritto internazionale, che prevederebbe che «se l’Autorità Palestinese non fosse in grado di finanziare l’acquisto dei vaccini e la loro distribuzione tra la popolazione palestinese, Israele deve fornire un pieno sostegno finanziario che non sia detratto dai fondi delle imposte destinate all’Autorità Palestinese».

Gaza è in grado di gestire una campagna per la vaccinazione?

Il governo di Hamas ha dichiarato che la Palestina al momento non è economicamente pronta ad affrontare l’acquisto dei vaccini e, anche qualora le organizzazioni internazionali, come si è cercato di pianificare finora, riuscissero a fornire alla Palestina una parte delle dosi necessarie per iniziare la campagna, ad oggi i territori occupati non avrebbero le risorse necessarie per ricevere, organizzare e somministrare alla popolazione il vaccino: a Gaza l’elettricità è disponibile per sole otto ore al giorno e l’assenza di un numero sufficiente di freezer per contenere le dosi (che sappiamo possono essere efficaci solo conservate a temperature molto basse) rende di fatto impossibile qualsiasi pianificazione sanitaria in questa direzione.

Certo, è anche diffusa l’idea che ritenere Israele responsabile dell’emergenza sanitaria in Palestina è peccare di una forma molto di paternalismo “forte” e dunque, di fatto, si tratterebbe di accettare una volta per tutte la supremazia dell’occupazione israeliana sui Territori palestinesi. Questa è una delle ragioni per cui il governo palestinese preferirebbe ricevere le dosi tramite la partnership Covax, voluta dall’Oms e finalizzata a distribuire il vaccino in quelle zone del mondo in maggiore difficoltà. Nonostante ciò, anche se il programma dovesse funzionare, questo coprirebbe solo il 20% della popolazione.

Inoltre, l’emergenza sanitaria a Gaza e in tutta la Cisgiordania (una piccola eccezione potrebbe essere fatta per gli abitanti arabi di Gerusalemme Est, che godono di uno statuto giuridico differente), ci porta a considerare i numeri come il dato più importante in questo momento: circa 1800 morti nei territori della Palestina, un milione di abitanti che ora vive sotto la soglia di povertà e, secondo un rapporto dell’Unctad (Onu) di qualche mese fa, il blocco israeliano di Gaza sarebbe costato oltre 16 miliardi di dollari ai suoi abitanti (circa sei volte il valore del PIL di Gaza nel 2018, o il 107% del PIL totale palestinese). Se da una parte stabilire degli accordi per la vaccinazione con Israele, dunque, potrebbe rappresentare stringere un momentaneo patto col nemico, dall’altra potrebbe essere letto come un necessario ed inevitabile cessate il fuoco per salvare le vite di molte persone.

Il muro che separa Israele e Palestina a Betlemme. Foto di Maria Chiara Cicolani

Tentativi di trovare un accordo?

Verso la fine del 2020 alcune contrattazioni erano iniziate tra il ministro della difesa israeliano Benny Gantz e le forze di Hamas a Gaza, contrattazioni che prevedevano l’invio di alcuni respiratori e dispositivi medici da Israele alla Palestina in cambio del rilascio di due cittadini israeliani. La città di Gaza, in tutto, dispone di circa 100 respiratori nell’ospedale Europeo di Khan Yunis, destinato a gestire l’emergenza Covid-19. Un numero esiguo e inadeguato alla cura dei pazienti in gravi condizioni.

Non mancano, tuttavia, esempi di integrazione e di cooperazione tra le due parti, come dimostrato da quanto sta avvenendo a Gerusalemme Est grazie ad organizzazioni come la Croce Rossa e la Protezione Civile israeliane, che stanno cercando di pianificare una campagna vaccini tra la comunità araba in questa zona. Bisogna comunque tenere a mente che Gerusalemme è forse la città dove la convivenza tra le due popolazioni, all’intero di un territorio estremamente ristretto, è più ramificata e dunque è proprio qui che gli esempi di integrazione pacifica si verificano con maggiore possibilità di successo. Così, in un’intervista rilasciata per la Repubblica, Jonathan Ventura, uno dei professori impegnati nel progetto, spiega: «All’inizio siamo venuti senza divisa, per superare la diffidenza. Abbiamo creato legami forti con la gente, ci invitano a pranzo», lasciando dunque intendere che, allo scopo di procedere con un’efficace campagna sanitaria contro il virus, serve una sinergia che coinvolga tutte le parti interessate (tanto che il progetto ha visto la partecipazione dei mukhtar e degli imam dei 16 quartieri di Gerusalemme Est).

Autore

Maria Chiara Cicolani

Maria Chiara Cicolani

Vice Direttrice

Mi sono laureata in Filosofia a Roma. Ho vissuto per un po’ tra i fiordi norvegesi di Bergen e prima di questa esperienza mi reputavo meteoropatica, ora non più. Mi piace la montagna, ma un po’ anche il mare. Il mio romanzo preferito è il Manifesto del Partito Comunista e amo raccontare le storie.

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