Le modalità comunicative e di sviluppo delle operazioni di terra da parte del governo israeliano sulla popolazione libanese negli ultimi due mesi hanno molte similitudini con ciò che sta accadendo da un anno ininterrotto nell’enclave palestinese.
Non è qualcosa di nuovo nella storia dello Stato Ebraico: la creazione di una “Grande Israele” secondo un dettame imperialista-coloniale che ha fondamenta nella Torah, per intenderci l’Antico Testamento biblico, ha sempre serpeggiato all’interno dell’élite israeliana.
Avere occhi e orecchie sensibili su queste tematiche, ed anche sugli altri fronti di guerra che Israele ha aperto dopo il 7 ottobre 2023, è utile per comprendere il contesto d’insieme.
L’annessione delle alture del Golan siriane, il sfondamento della linea di demarcazione dell’UNIFIL istituito dalla risoluzione 1701, l’annessione della Striscia di Gaza e le tensioni con l’Iran fanno parte di un disegno più grande e ben definito anche più volte dallo stesso Netanyahu.
Ne parliamo con Lorenzo Trombetta, corrispondente da Beirut per l’Ansa e autore per Limes e di diversi libri e saggi sulla MENA (Middle East and North Africa), in particolare sul Libano e la Siria. [ndr. l’intervista è stata fatta prima della vittoria delle elezioni americane da parte di Donald Trump e dei Repubblicani].
Noti anche tu delle similitudini tra la comunicazione su Gaza e sul Libano da parte di Benjamin Netanyahu e di tutto il suo governo? “Lo scontro tra la luce e le tenebre”, “nessun libanese/palestinese è innocente e/o distaccato dal rispettivo partito (Hamas per i gazawi e Hezbollah per i libanesi)” sono alcune delle frasi più sentite in questi mesi.
«Diciamo che questa similitudine c’è, ed è evidente. Una domanda retorica ovviamente che ci permette di affrontare questo tema. È una similitudine che va al di là degli scontri tra il governo israeliano e gli altri attori della regione: una comunicazione ben collaudata dall’inizio della storia e della questione israelo-palestinese e che è stata usata anche in altri contesti storici e geografici.
Da 25 anni mi interesso di MENA, a est quindi di Mediterraneo, e questo modo di comunicare ha preso il via in particolare dopo l’11/9/2001 e la successiva guerra al terrore, tra Afghanistan, Iran ed Iraq. Bush e Bin Laden subito tracciarono una linea di demarcazione tra “il noi ed il loro”, tra chi fosse il bene e chi fosse il male, e per essere più vicini a noi, da un punto di vista cronologico, anche in Siria una decina di anni fa accadde qualcosa di simile.
In particolare contro quello che era l’ISIS, detto anche lo Stato Islamico o Daesh, nel 2014 in Siria e l’Europa faceva questa tipologia di comunicazione. Penso per esempio alla battaglia di Kobane del 2015 in cui partecipò contro l’ISIS il PKK, il partito dei lavoratori curdi stabile nella zona del Kurdistan, che basò quella battaglia anche da un punto di vista ideologico, in antagonismo a ciò su cui si basava Daesh.
Netanyahu fa la stessa cosa. Non è nulla di opportunamente nuovo, e non un fenomeno a sé. Questo perché il politico, anche nel fare qualcosa che viola i diritti umani e i nostri principi fondamentali, si aggrappa ad un’entità esterna che possa legittimare le sue azioni».
Penso in particolare al discorso che ha fatto all’ONU Netanyahu il 27 settembre 2024, in cui indicava alcuni paesi come Curse and Blessing, appunto maledizione e benedizione.
«Esattamente».
Rimanendo sul Libano, da un punto di vista umanitario è inevitabile un rimando a Sabra e Shatila e agli avvenimenti del 1982 in terra libanese. Con le dovute differenze, quanto è ancora viva la frase di Robert Fisk “furono le mosche a farcelo capire” rispetto alla strage nei campi profughi?
«Siamo ovviamente in un contesto diverso, anche perché stiamo parlando e discutendo di un Libano diverso. Il Libano di allora subì prima la guerra civile e poi l’occupazione israeliana con ramificazioni regionali fondamentali che ricordano più la guerra civile libanese del 2006.
La popolazione libanese, a causa dell’alto livello di tensione interne, non vuole vivere di nuovo una situazione drammatica simile a ciò che è stato il 2006 e il 1982. C’è sempre uno sforzo interno locale per far sì che gli scontri tra le fazioni tendano subito a riappacificarsi per non avere nuove stragi di sangue, mirate per non far sfociare questa violenza non solo comunitaria ma anche nazionale.
Uno dei livelli evocati nell’82 è la guerra intestina dentro il Libano, in cui le falangi cristiano maronite libanesi, coperte ad aiutate dalle milizie israeliani, compiono la strage nei campi profughi di Sabra e Shatila pieni di palestinesi.
Questo si collega ad un livello più attuale, ovvero un’invasione di terra da parte israeliana. Che è più giusto dire proto-invasione, perché Hezbollah impone una resistenza feroce e non c’è un piano strategico israeliano che le permetta di sfondare militarmente nel sud del Libano. Questo sia per inefficacia che per “mancanza” di lungimiranza militare israeliana.
Un’ulteriore differenza tra i due eventi sono i soggetti in atto. l’OLP del 1982, che aveva una base anche in Libano, era considerata estranea al tessuto culturale libanese mentre Hezbollah, il Partito di Dio, non è così.
Sabra e Shatila ha un grande eco all’estero, una vera e propria icona e momento cardine della storia recente della MENA. Nei campi palestinesi quell’evento è commemorato, e i palestinesi autoctoni e della diaspora lo ricordano come una pagina drammatica, ma in modo diverso da noi europei. Sia perché hanno subito quella situazione, ma anche per questioni politiche. Noi italiani eravamo molto legati ad Arafat e di conseguenza quegli anni sono molti segnati nella memoria collettiva nostrana».
Sulle tute militari israeliane, e non solo, c’è il simbolo della Grande Israele. La presa delle alture del Golan, il voler allontanare l’Unifil e l’occupazione tra Gaza e le colonie in Cisgiordania: perché questo sogno da impossibile sta diventando improbabile?
«Innanzitutto Israele per come la conosciamo nel corso dei decenni ha già compiuto abbondanti operazioni di occupazione e annessione di territori altrui: le guerra del 1967, la suddetta “Guerra dei 6 Giorni” è un esempio emblematico.
Anche con la stessa creazione di Transgiordania, avviene questo. Sotto il mandato britannico, tutto ciò che è a Est del Giordano viene considerato come un territorio in cui deportare i palestinesi. Attualmente più del 60% della popolazione dell’attuale Giordania discende dai palestinesi della Nakba e della Naksa. E poi la stessa Giordania, fino al ’67, aveva anche la gestione della Cisgiordania.
Già il nome, la semantica, fa intendere come ciò che è a sinistra del nome giordano, e quindi la Cisgiordania, non sia “Palestina” ma un territorio di altri. Questo livello di analisi gioca un ruolo chiave nella normalizzazione delle condotte israeliane.
Cosa sono questi luoghi? Dei luoghi che si identificano in base ad un fiume, e non ad una cultura nazionale ed identitaria. Fiume da sempre ambito da Israele.
In più il Golan, e le sue alture, dal 73 in poi vengono annesse da Israele e rese “legali” dalla Knesset ad inizio dagli anni ’80 anche se sono territori siriani. Tutto questo a pochi passi da Damasco.
A questo aggiungiamoci il Libano, e da qui le linee interposte create dall’ONU. Le zone limitrofe al fiume Litani sono sempre state desiderio Israeliano, sia per questioni idriche ma anche di collegamento tra il mare e il lago di Tiberiade. Insieme anche ad un vulnus religioso, che è causa-benzina di queste operazioni, c’è in primis una volontà politica israeliana di espandersi».
Giochiamo con la palla di cristallo: quanto le elezioni negli States cambieranno le cose?
«Al di là di Repubblicani e Democratici, Israele ed Usa saranno sempre legati ed interconnesse. Washington, nelle varie presidenze blu e rosse, ha sempre avuto legami con Tel Aviv molto forti e di aiuto nei suoi confronti. Certo, ci sono state presidenze più leggere e critiche nei confronti di Israele, ma basta pensare a come la presidenza Biden, critica nei confronti di Netanyahu, fornisca il 70% circa dell’arsenale militare che Israele possiede. Questo a dimostrazione che in un contesto di guerra, valgono di più i fatti che non le parole.
E per situazioni storiche e politiche, il progetto coloniale Israeliano, legato prima a Londra e poi a Washington, non verrà abbandonato dal suo alleato principale al di là dell’oceano atlantico.
Netanyahu stesso all’ONU, come ricordavi precedentemente, demarcava tutti quegli stati che, attraverso gli Accordi di Abramo, portavano ad un collegamento tra l’India e il Mediterraneo, attraverso la penisola arabica silenziando la questione palestinese. Con questo tappeto di continuità, vi possono essere delle differenze sostanziali tra Trump ed Harris: e questo dall’ottica del PM Israeliano.
Harris e Biden non sono degli interlocutori per Netanyahu, non li riconosce come tali e di conseguenza ha più mano libera: per lui non sono soggetti politici che lo influenzano.
Con Trump le cose possano cambiare. Perché? Perché è un alleato di Netanyahu. Trump lo ha ribadito più volte: la guerra deve finire. E da bravo commerciante come è lui, i mercati beneficiano in tempi di guerra ma soprattutto in tempi di pace: in Mar Rosso gli scontri tra gli Houthi e le milizie israeliane hanno bloccato un passaggio commerciale fondamentale, le tensioni tra Teheran e Tel Aviv non favoriscono un disimpegno americano nella MENA. Trump è isolazionista da un punto di vista di politica estera soprattutto in quella zona di mondo, e allo stesso tempo ha spostato l’ambasciata americana da Tel Aviv e Gerusalemme e ha permesso maggiormente lo sviluppo delle colonie in Cisgiordania.
Non sono un esperto di Stati Uniti, ma è fondamentale conoscerli soprattutto quando si parla di Israele e Palestina, perché senza il loro supporto bellico quello che è accaduto da 13 mesi ormai sarebbe stato di gran lunga meno tragico rispetto a ciò che oggi conosciamo».
Autore
Jonathan Piccinella
Autore
17 gennaio 2004 come data fatidica, e da quel momento sono immerso nei libri, nei paesaggi di Sezze e nelle canzoni di Kendrick Lamar. Napoletano di fede e di sangue, ricomincio pure io da tre cose: ascoltare, guardare e parlare, o su questa pagina, scrivere.