«Il più grande attacco alle nostre libertà»: il report di Antigone sul DDL Sicurezza

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Nel corso degli anni, a partire dal 1998, i governi che si sono succeduti hanno adottato almeno quattro «pacchetti sicurezza». A prescindere dal fatto che potessero essere disegni di legge ordinari o decreti-legge approvati dai governi in carica, quanto avevano in comune erano la centralità della sicurezza urbana e la prevenzione della «microcriminalità», attraverso la previsione di nuove fattispecie penali o l’inasprimento delle misure già esistenti.

Come è emerso ne «Il più grande attacco alla libertà di protesta della storia repubblicana», l’ultimo documento elaborato da Antigone con commenti e approfondimenti sul disegno di legge governativo n.1660 sulla sicurezza – attualmente in esame al Senato – il governo Meloni ha apportato due innovazioni rispetto alle forze politiche precedentemente in carica. 

L’approccio dei governi di destra e di sinistra, infatti, si è sempre differenziato nelle tempistiche: se i primi si adoperavano ad adottare norme sulla sicurezza non appena entrati in carica, a sinistra lo facevano quando la forza del mandato sembrava esaurirsi. 

Oggi, invece, le iniziative legislative hanno mostrato maggiore pluralità e tendenze penal-repressive. Per ogni argomento oggetto di dibattito pubblico, infatti, le modifiche proposte sono state di natura penalistica o sanzionatoria, secondo un orientamento che prende il nome di «panpenalismo». 

Questo governo odia il dissenso e le donne madri in carcere

L’articolo 12 del ddl sicurezza, ad esempio, presenta una modifica all’articolo 635 del codice penale in materia di danneggiamento in occasione di manifestazioni. A questo proposito, prevede l’inasprimento delle pene se il fatto è commesso con violenza alla persona o minaccia, quindi la reclusione da 1 anno e 6 mesi a un massimo di 5 anni con multa fino a 15 mila euro. Ma non si tratta dell’unica norma volta a limitare il diritto al dissenso. 

Con una triplice modifica all’articolo 1-bis del decreto legislativo 66/1948, infatti, l’articolo 14 punisce con la reclusione fino a 1 mese e una multa fino a 300 euro chi attua il blocco stradale o ferroviario attraverso il proprio corpo, con un’aggravante quando la condotta è realizzata da più persone – da 6 mesi a 2 anni di reclusione, la pena.  In precedenza, si trattava di un illecito amministrativo punito con una multa da 100 a 4 mila euro.

Introdotta nel 1948 dal Ministro Scelba, la disciplina sul blocco stradale era stata depenalizzata nel 1999. Riattualizzato con il dl 113/18, il reato era stato contestato una volta constatato come a maggiori leggi punitive corrispondeva una criminalizzazione di comportamenti non più considerati tali e non una maggiore sicurezza sociale. A questo proposito, l’ONU aveva già definito il diritto di riunione pacifica come il veicolo per l’esercizio di altri diritti garantiti dal diritto internazionale. Lo stesso Filippo Turati, nel dibattito parlamentare sui decreti liberticidi del governo Pelloux, aveva definito il diritto di riunione come il solo medium che permette ai comuni cittadini – che non scrivono libri ne parlano in tv o sui giornali – di manifestare il proprio dissenso.

Con destinatari ben definiti, seppur implicitamente, è stato pensato l’articolo 24. La «tutela dei beni mobili e immobili adibiti all’esercizio di funzioni pubbliche» non è altro che una violenta ostruzione ai metodi di protesta messi in atto da chi manifesta per il cambiamento climatico, per esempio. Con delle modifiche all’articolo 639 del codice penale, vengono introdotte due aggravanti. Quando il fatto è commesso su beni per ledere l’onore, il prestigio o il decoro dell’istituzione cui il bene appartiene, è prevista la reclusione da un minimo di 6 mesi a un massimo di 1 anno e 6 mesi con una multa da 1000 a 3000 euro. Nei casi di recidiva, inoltre, la pena di reclusione va da 6 mesi a 3 anni con multa fino a 12 mila euro. Assieme all’articolo 14, la persecuzione normativa volta alla criminalizzazione degli eco-attivisti non solo concorre al sovraffollamento delle carceri ma anche all’indebolimento dello stato di diritto. Secondo il paragrafo 87 delle Linee Guida per la libertà di riunione pacifica dell’OSCE/ODIHR del 2010 sulla «Legislazione volta a contrastare il terrorismo e l’estremismo», gli sforzi per il contrasto del terrorismo non devono essere un pretesto per giustificare azioni che, arbitrariamente, limitano i diritti umani e le libertà fondamentali, compresa quella di espressione. 

È così che il carcere assume caratteristiche lontane dai modelli repubblicani, costituzionali e democratici e sempre più vicine a quelli autoritari, demagogici e di stampo fascista.

La repressione di chi manifesta il proprio dissenso attraverso il proprio corpo – per strada come nelle carceri – così come la revisione regressiva della normativa penale riguardante le donne in carcere – in gravidanza o madri di figli di età inferiore a un anno – sono tanto una minaccia allo stato di diritto quanto una restrizione della libertà fisica e di pensiero delle persone. 

Negli anni ci sono stati molti dibattiti sull’oggetto che, oggi, si è concretizzato nell’articolo 15 in materia di «esecuzione penale nei confronti di detenute madri». Con una legge del 1975, queste ultime potevano tenere con loro i figli con un’età massima di tre anni. Con una modifica nel 2011, la legge non ha riconosciuto la custodia cautelare in carcere alle madri con figli di età non superiore ai 6 anni; è con l’articolo 285 bis del codice di procedura penale che le medesime hanno potuto scontare la pena presso gli ICAM. A seguito di ulteriori norme che hanno permesso gli arresti domiciliari in case famiglia protette a determinate condizioni, oggi, con una modifica agli articoli 146 e 147 del codice penale, si è reso facoltativo – e non più obbligatorio –  il rinvio dell’esecuzione della pena per le donne condannate incinte o già madri. La prole viene ora distinta in due fasce di età, 0-1 e 1-3 anni. 

Le madri con figli con meno di un anno, in casi di non differimento della pena, dovranno scontare il reato in istituti a custodia attenuata la cui presenza sul territorio nazionale è esigua e concentrata a Torino, Milano, Venezia e Lauro. Tale misura diventa una mera possibilità per la fascia 1-3 anni. Per i primi, inoltre, resta da chiarire se il giudice ha la possibilità di disporre la detenzione domiciliare. Si tratta di 21 madri detenute per un totale di 24 figli, secondo una statistica elaborata fino al 31 luglio 2024 dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria.

La possibilità di rinvio è revocata anche se la madre tiene comportamenti che potrebbero pregiudicare la crescita del minore. Il differimento non opera o viene revocato in caso di interruzione di gravidanza o di decadenza della responsabilità genitoriale sul figlio.

La problematicità della norma risiede nella mancata umanizzazione della pena, tradotta nell’esigenza di assicurare l’interesse primario del minore, oggetto di obblighi internazionali sanciti nella Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. Il ddl, inoltre, agisce in contrasto con le Regole penitenziarie europee secondo le quali le donne devono essere autorizzate a partorire fuori dal carcere. 

Secondo i dati rilasciati dalla Polizia di Stato, nel 2022 erano 34.862 le guardie giurate con un porto d’armi in corso di validità. Mediamente, il tasso di omicidi compiuto dalle stesse è quattro volte maggiore del tasso di omicidi della popolazione italiana; allo stesso tempo il numero di femminicidi commessi dalle stesse è consistente: di questi, il 12,8% è stato commesso con una pistola, mentre a compiere l’8,5% degli stessi sono stati militari, carabinieri e guardie giurate.

In mancanza di segnalazione o denuncia raramente vi è il ritiro cautelativo delle armi: i controlli specialistici sullo stato di salute mentale sono pochi in quanto non obbligatori. Solo nel 2018, nel 64,6% dei casi chi ha commesso un omicidio era in possesso del regolare porto d’armi per motivi di lavoro. 

Gli articoli 20 e 28 agiscono in nome di un rafforzamento della possibilità di azione degli agenti di polizia per una loro maggiore tutela. Il primo articolo, infatti, riguarda ufficiali o agenti di polizia personalmente lesi mentre adempiono alle loro funzioni. A questo proposito, tramite una modifica all’articolo 583-quater del codice penale, è prevista la reclusione da 2 a 5 anni per le lesioni semplici, da 4 a 10 nel caso in cui fossero gravi e, infine, da 8 a 16 per le gravissime. Lo stesso personale delle Forze di Polizia, inoltre, secondo l’articolo 28, è autorizzato a portare – anche quando non è in servizio – alcune categorie di armi. 

Rientranti nella categoria descritta nell’articolo 42 del TULPS, possono essere portate senza alcuna licenza specifica. In questo modo, non sono più punibili le condotte altrimenti penalmente rilevanti secondo l’articolo 699 del codice penale. Sebbene, ad oggi, siano sempre di più i processi a danno delle forze dell’ordine per reati di torture, lesioni, lesioni aggravate e falso ideologico.

Colpire le linee oblique del potere: giovani, migranti e detenuti

All’interno del DDL 1660 vi sono poi una serie di nuovi reati da introdurre nel nostro ordinamento che hanno come oggetto i detenuti nei CPR, nelle Carceri, e disposizioni contro il terrorismo e la criminalità organizzata. La ratio dietro queste norme non consiste però in una lotta alle diseguaglianze che portano alla criminalità o a forme di terrorismo di varia natura politica-sociale, quanto ad «opprimere» quelle che sono come ci ha detto Marco Omizzolo, sociologo, in un’intervista per Generazione Magazine che si può leggere qui

 «è un modo di vedere la società e il paese, fortemente orientato a distinguere tra gli affiliati e i non affiliati… Questo approccio pan penalistico che in questi due anni di governo è tornato in auge, ma già presente precedentemente, se analizzato è orientato contro un certo approccio politico e sociale. È contro i giovani non perché i giovani siano tutti di sinistra, ma perché portatori di cambiamento e in sé naturalmente contestatori, vedi le proteste sulla Palestina. È contro il migrante perché è visto da questo sistema di potere come un elemento disturbante. È straniero, di un’altra cultura, e per loro stessa affermazione un invasore. […] Queste sono determinanti politiche che portano a contrastarsi con le linee oblique del potere attraverso la repressione ed il manganello.»

L’articolo 9 interviene sulle ipotesi di revoca della cittadinanza italiana in caso di condanna definitiva per i reati di terrorismo ed eversione ed altri gravi reati stabilendo che non si può procedere alla revoca ove l’interessato non possieda un’altra cittadinanza ovvero non ne possa acquisire altra. Al contempo, si estende da tre a dieci anni dal passaggio in giudicato della sentenza di condanna il termine per poter adottare il provvedimento di revoca.

I problemi di questa norma sono molteplici, ed hanno delle finalità precise: la repressione nei confronti dei migranti e delle seconde generazioni di figli di migranti che risiedono in Italia. La generalità della fattispecie con cui si identifica il terrorismo, legato anche a ciò che sta accadendo in Palestina e in Siria, potrà portare con facilità ad una criminalizzazione di quelle realtà associative e non solo che svolgono un lavoro di denuncia e di analisi nei confronti della politica italiana rispetto al genocidio a Gaza e alle complicità che il governo italiano, sia quello a guida Meloni che quelli precedenti, hanno avuto con Netanyahu e ormai l’ex regime di Basher Al-Assad in Siria.

L’articolo 27 è un altro attacco nei confronti dei migranti, in particolare chi viene recluso nei CPR o centri di permanenza per i rimpatri. Dal Titolo Sicurezza delle strutture di trattenimento e accoglienza per i migranti, nonché semplificazione delle procedure per la loro realizzazione, questa norma introduce un nuovo reato con la finalità di reprimere gli atti di rivolta all’interno dei CPR che sono avvenuti durante tutto il 2024. 

Si punisce con una reclusione da un anno a 6 anni chiunque promuove, organizza e dirige una rivolta.La mera partecipazione alla rivolta è punita con la pena della reclusione da uno a quattro anni. Se, invece, il fatto è commesso con l’uso di armi, la pena prevista è della reclusione da due a otto anni.

Anche qui, si tratta di reati costruiti intorno a soggetti specifici “antagonisti” della politica del governo, attraverso una lacunosità e una generalità dei termini usati (basti pensare alla parola armi), che potrebbero creare dei precedenti di diritto senza eguali.

Come riportato dalla stessa Amnesty International e NoAiCpr, i CPR italiani sono luoghi in cui la violazione dei diritti basilari umani è sistematica e strutturale nei confronti di chi viene recluso al loro interno. Con questa nuova norma si andrà solamente a peggiorare quella che è una situazione già fortemente critica per delle strutture che in uno stato civile non dovrebbero esistere.

Un altro articolo del DDL 1160 scritto proprio per colpire le soggettività migranti è il 32, che prevede la sanzione amministrativa e uno stop dai 5 ai 30 giorni dell’attività nei confronti di esercizi di vendita che abbiano venduto SIM ad un cliente cittadino di un Paese fuori dall’Unione europea che non abbia attestato di possedere il regolare soggiorno in Italia.

In un articolo per il Manifesto, il presidente di Magistratura Democratica Riccardo de Vito ha commentato questa norma come «l’apartheid della comunicazione». Questo perché: 

con l’entrata in vigore di questa disposizione, quelle persone sono private anche del telefono, della possibilità di comunicare con un genitore, un fratello o una sorella, un figlio, un coniuge, un amore, un amico. Depauperati anche delle opportunità di entrare in relazione, attraverso la rete, con il mondo di provenienza e con quello di destinazione.Il vero dramma, in modo quasi spietato, è costituito dalla costrizione alla solitudine e dall’attacco diretto a un diritto intimo, profondo, caratterizzante ogni persona e il suo progetto di esistenza.

L’anno 2024 è stato l’annus horribilis delle carceri: mai così tanti morti, di suicidio (88) e di altre cause (156) per un totale di 244, secondo Ristretti Orizzonti. Le criticità del sistema penitenziario italiano hanno portato ad una serie di rivolte all’interno delle strutture di pena che secondo l’Associazione Antigone sono ben 1397. Con l’articolo 26 del DDL 1660 si andrebbero ad introdurre diverse misure riguardanti la sicurezza all’interno degli istituti penitenziari ovvero:

  • l’aggravante del reato di istigazione a disobbedire alle leggi di cui all’art. 415 c.p., se commesso all’interno di un istituto penitenziario o a mezzo di scritti o comunicazioni diretti a persone detenute;
  • il delitto di rivolta all’interno di un istituto penitenziario, di cui al nuovo art. 415-bis c.p.

Patrizio Gonnella, attuale presidente dell’associazione Antigone, ha commentato questo nuovo articolo così:

Con il nuovo delitto di rivolta nasce il reato di lesa maestà carceraria. Il governo, a volto e carte scoperte, ha deciso di stravolgere il modello penitenziario repubblicano e costituzionale, ricollegandosi al regolamento fascista del 1931. Il crimine di rivolta carceraria, così come delineato all’interno del pacchetto sicurezza, sarà un’arma sempre carica di minaccia contro tutta la popolazione detenuta. Qualora dovesse essere approvato così come è stato scritto, cambierà la natura del carcere in modo drammatico e autoritario.

In Senato, le opposizioni hanno presentato 1.500 proposte di modifica al ddl sicurezza. Tra chi si è detto preoccupato per la deriva autoritaria che il nostro Paese potrebbe prendere, anche il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Michael O’Flaherty, che, in una lettera inviata al Presidente del Senato, Ignazio La Russa, ha chiesto proprio al Senato di astenersi dall’adozione del ddl a meno che non venga modificato per garantire il rispetto dei diritti umani. Come ha dichiarato, l’’allargamento dell’intervento statale sarebbe contrario allo stato di diritto e violerebbe la libertà di espressione e di riunione pacifica sancita nella Convenzione europea dei diritti umani”. A proposito, è arrivata la risposta di La Russa che ha trovato «antidemocratica» la richiesta suddetta. 

Sulla stessa linea di O’Flaherty anche Luigi Ferrajoli, giurista e filosofo del diritto, che, come rilasciato nel documento di Antigone, ritiene che a capo della lesione dello stato di diritto vi siano proprio l’intolleranza e la repressione del dissenso politico e del diritto di riunione.

Autori

17 gennaio 2004 come data fatidica, e da quel momento sono immerso nei libri, nei paesaggi di Sezze e nelle canzoni di Kendrick Lamar. Napoletano di fede e di sangue, ricomincio pure io da tre cose: ascoltare, guardare e parlare, o su questa pagina, scrivere.

Giorgia Cecca

Giorgia Cecca

Autrice

Sono atea ma ho vissuto dalle suore. Sono di sinistra ma una volta ho votato PD. Non mi piace la monotonia ma guardo spesso i film di Nanni Moretti. Piango mentre leggo Mattia Torre perché è la persona che mi fa più ridere. Guido una Vespa perché ho visto troppe volte Caro diario. Sempre per quella questione della monotonia. Che, forse, non mi piace.

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