Si sa, a Milano piove sempre. Ma non la sera in cui ho incontrato Generic Animal nel backstage del Dr Martens Day presented by MI AMI. Qui Luca Galizia, il suo nome, ha suonato in anteprima alcuni pezzi del nuovo disco Il canto dell’asino, uscito oggi per La Tempesta Dischi, indossando berretto e cravatta. Più tardi, seduti per terra su un marciapiede, mi ha raccontato qualcosa in più su questo suo quinto album, che arriva a due anni dal precedente.
Per farla breve: Luca è del 1995 e fa musica da un po’ di tempo. Vive a Milano e viene dalla provincia di Varese. Canta, scrive e suona la chitarra. Generic Animal, invece, nasce dal disegno di un animaletto asessuato e senza specie fatto alcuni anni prima; un avatar con cui debutta da solista nel 2017. Gli avatar hanno sempre accompagnato la sua carriera: dall’omino viola di Presto (2020), al mostro di Benevolent (2022), fino ad arrivare al gigante dell’EP Mondo Rosso (2023). Ora, a sei anni dal debutto, un animale (stavolta dal generico si passa allo specifico) torna come simbolo e protagonista del nuovo album.
Il titolo del tuo nuovo album Il canto dell’asino evoca un animale incompreso ma originale. Perché hai scelto l’asino come simbolo guida di questo progetto?
«L’asino è un animale che passa molto inosservato quando è in mezzo al bestiame e finisce sempre per essere bistrattato. È il grande incompreso della fattoria, poco valorizzato e dall’aspetto modesto. Eppure, dietro questa apparenza si nasconde una creatura dotata di un’originalità e bontà innegabile: ad esempio, ho letto che sono molto utilizzati anche per la pet therapy con i bambini».
Un animale che nella società della performance in cui viviamo non può che non avere successo. In un regno di cigni, pavoni e leoni, cosa rappresenta il canto dell’asino?
«Il canto dell’asino, cioè il canto stonato e quasi incomprensibile, lo collego a quella che è stata la mia musica in questi anni. Ovvero una cosa che dentro di me ha avuto un significato e che invece esteriormente è sempre stata mal compresa».
In effetti, dare una definizione precisa della musica di Generic Animal è difficile, quasi impossibile. Luca ha radici nell’hardcore e nell’emo, è cresciuto tra il rock e l’urban, fondendo indie, pop, trap e persino sperimentazioni di rock acido. La sua evoluzione artistica è costante e si riflette in una continua ricerca sonora, senza mai seguire un unico percorso. Non si lascia limitare da generi predefiniti, come dimostrano i suoi album e le collaborazioni lavorative con Ketama126, Mecna, Massimo Pericolo, Pretty Solero e Rkomi, solo per citarne alcune.
Essere asini è una condizione negativa da cui fuggire o una condizione positiva da abbracciare?
«È una cosa da impugnare e da usare come traino per andare avanti».
Impugnare l’asino è anche un modo personale di non scendere a patti, fuggire dagli schemi e resistere al mainstream che ingurgita e stravolge tutto.
«Assolutamente. Ma c’è anche una questione più semplice: io non so fare nient’altro che l’asino. Ho provato ad essere qualcos’altro ma non mi ha mai ripagato e non mi sono mai sentito rispecchiato. Crescendo ho capito che nella musica per me rimane sacro il modo in cui voglio farla. E non voglio che si perda il mio essere asino».
Sei riuscito a capire se c’è posto per gli asini in questo mondo?
«Il mondo è pieno di asini: persone che mentono, rubano ma fanno anche cose pazzesche per la società. Quindi dovrebbe esserci spazio per gli asini, anche se in Italia è difficile perché è un paese molto bigotto. O sei qualcosa che può essere messa sui binari già esistenti o non verrai trattato come qualcosa che esiste».
Il canto dell’asino è un album che attinge a moltissime esperienze autobiografiche, a momenti personali e profondamente umani. Nulla a cui Generic Animal non ci abbia già abituati. Un album intimo fatto di nuclei emotivi molto intensi, come quello di Zero, traccia d’apertura del disco, che rievoca le incertezze e le paure di un giovane studente che si confronta con il cambiamento e il senso di spaesamento, tipico di chi si trasferisce in una nuova città. Domande come “Sarà servito cambiare città?” esprimono il dubbio di aver fatto la scelta giusta, mentre la paura del fallimento si mescola all’attesa di un futuro incerto, ma ricco di speranze: “Il mio momento chissà se arriverà”.
Similmente, Eric – Che fai, un omaggio a un amico scomparso che rievoca momenti condivisi come le prime sigarette, i segreti e i CD comprati insieme. E la difficoltà di affrontare l’assenza e di lasciarsi alle spalle ricordi così intensi e formativi.
Se da un lato è un album che resta fedele ai suoi riferimenti personali e sa parlare a un pubblico ampio con autenticità attraverso il proprio individuale, dall’altra è anche un album che si apre al mondo e ai suoi temi, com’era già stato anticipato dall’EP dello scorso anno Mondo Rosso:
«La crisi che viviamo ormai da sempre (o almeno da quando ho coscienza di cosa succede nel mondo) non è di certo una cosa romantica, ma mi piace pensare di poterla riassumere […]. Sono qui solo, con la mia chitarra che mi chiedo come pagherò l’affitto e se questo caldo finirà mai. E forse le mie canzoni non fermeranno la crisi climatica, ma magari daranno un vago sollievo e una prospettiva a qualcuno che si sente solo, come il mondo, che sta per finire» (Luca Galizia, Comunicato Stampa Mondo Rosso EP, 2023).
La paura per un futuro in crisi, la precarietà del proprio lavoro e il tentativo di trovare rifugio negli spiriti benevoli delle nostre illusioni sono dei fili che percorrono tutto Il canto dell’asino, in un dialogo costante tra l’individuo e il mondo che lo circonda.
Essere artisti in un mondo che brucia. Come gestisci il rapporto tra il personale privato e il politico pubblico?
«Cerco di essere il più onesto, sincero e anche un po’ disperato possibile. Sempre però rispettando il mio pudore. Mi sento molto, come tutti, oppresso da questo mondo che non abbiamo scelto. In generale, non mi piace fare la vittima, ma sono molte le cose che non si riesce a cambiare da soli e quindi bisogna usare tutta la nostra onestà per farlo insieme; non per forza la violenza, la grammatica o l’attivismo virtuale che sono le cose che preferisco meno. Però, secondo me, quando senti che brucia, lascia scoppiare il brufolo».
In che modo le tematiche globali influiscono sul tuo lavoro artistico?
«Sono molte le tematiche del mondo che mi interessano e che dovrebbero interessare tutti. Riguardano il mondo della musica, della politica, dell’arte: le incertezze, l’economia, la precarietà, il fatto che siamo 9 miliardi. Con la mia musica io cerco di far capire che sono cose che vanno affrontate. Sono tante le questioni che meritano attenzione».
In questo che ruolo hanno i social e come riesci a comunicare la tua visione del mondo senza sentirti intrappolato dalle dinamiche digitali?
«Per me è molto difficile parlare sui social, però voglio che a volte sia chiaro che anche dire qualcosa lì può essere utile. Tipo: “Raga, fanculo Israele”. Nella mia vita ho pensieri più profondi e sto molto male per il mondo, qualche volta è giusto ribadire agli altri che esisti anche con una piccola cosa su Instagram. Mi sento che non voglio dare troppo valore a quanto uno dimostra di essere impegnato, ma piuttosto a quanto uno è informato e a quanto uno crede».
Il tema del credo è affrontato anche nel brano Spirito: una canzone che vuole evocare la presenza di un “grande spirito”, che sia nei momenti positivi che in quelli difficili, ti fa tornare in te e pensare che è tutto parte di un piano. Un’illusione benevola che non deve per forza avere nome o forma, per restare ancorati qui o per ricordarci che credere in qualcosa è uno strumento per avanzare in tempi incerti.
Qual è il tuo spirito benevolo?
«Il mio spirito benevolo crede abbastanza nell’anonimato e abbastanza nella benevolenza. Lo spirito a cui mi aggrappo mi dice “A volte il tempo sembra poco ma se ci pensi bene è sufficiente. Ce la puoi fare”».
L’incertezza è un tema ricorrente nell’universo artistico di Generic Animal: un motivo, un particolare e un dettaglio che attraversa silenziosamente la sua musica. Persistente e difficile da spiegare, l’incertezza è probabilmente la colonna sonora dei vent’anni: un periodo segnato da dubbi sull’università, sulle relazioni, sull’ingresso nel mondo del lavoro e, più in generale, sul futuro. Il canto dell’asino, che arriva alla soglia dei 30 anni, sembra riflettere su tutto questo. Una sorta di bilancio esistenziale, in cui interrogarsi su cosa rimanga di quella incertezza giovanile, cercando di capire come queste domande si siano trasformate o radicate con il passare del tempo.
Quanta ancora incertezza c’è in questo nuovo disco?
«Il disco, a livello creativo e sonoro, è una risposta all’incertezza. Io lo sento come un disco sicuro di essere quello che è. A livello esecutivo, invece è stato proprio tutto il contrario. È stato molto difficile gestirlo: trovare i soldi per farlo, riuscire a registrare, mantenere una linea del tempo che fosse fedele alle idee, rispettare una continuità con il resto della mia vita. Quella è stata una bella sfida che tuttora contiene in sé molta incertezza. Ma ora sto un po’ meglio».
Stai meglio perché hai trovato una risposta alle incertezze o hai trovato nuovi modi di affrontarle?
«Entrambe le cose. Sicuramente la prima risposta alle incertezze sono stati i miei amici: ho iniziato a produrre grazie a loro, che mi hanno insegnato come fare. Questo disco, ad esempio, è nato mentre ero in balia delle mie idee, con l’aiuto e la produzione di Yakamoto Kotzuga. Essendo grandi amici, lui mi ha gradualmente lasciato spazio in alcune situazioni, e così abbiamo iniziato un lavoro davvero sinergico. Questo processo mi ha dato molte sicurezze e continua a darmi fiducia tuttora. È stato solo grazie ai miei amici e al fatto che, esprimendo i miei dubbi o necessità, ho trovato un vero supporto. È stato un esempio di vera comunicazione».
In Stare 3, uno dei tre interludi del disco, sembra che la soluzione a questa incertezza sia semplicemente il mettere in pausa la ricerca delle certezze. E affiora un’apertura, una speranza: “Forse non piove più”. È una risposta ai dubbi della giovinezza?
«Abbastanza, sì. È anche un po’ come quel pianto liberatorio che ti permette di sfogarti e lasciar andare tutto. Poi, due secondi dopo, magari riesci anche a sorridere per qualcosa. Succede nella vita: quel pianto isterico che si conclude e, alla fine, ti permette davvero di abbracciare la realtà. È una risposta al disco. Questi tre interludi riflettono proprio il concetto di chiusura e apertura, sia a livello emotivo che nel tema musicale della composizione».
Ascoltando Il canto dell’asino si ha la sensazione di seguire da vicino un processo di crescita, a livello generazionale e umano, in cui la maturazione si intreccia con un passare trasformativo del tempo. Un percorso che inizia dagli anni universitari rievocati nella già citata traccia Zero e attraversa i 27 anni, nella canzone omonima: anni a metà tra l’essere ancora molto giovani e già abbastanza adulti. Fino alle “rogne che abbiamo tutti” de I grandi, il punto di svolta dell’album, subito prima dell’ultimo interludio: un inno alla paura e al desiderio di diventare grandi in mezzo ai grandi. E poi la conclusione semplice e aperta di Stare 3: “Forse non piove più / La neve è caduta / Si formano le montagne”, il punto migliore da cui guardare la strada appena percorsa.
Questo è un disco sul diventare grandi, sul guardare ai vent’anni per poi avanzare nel futuro?
«In effetti è una buona prospettiva: Zero e Tokyo 20 sono canzoni che ho scritto nel 2020 e che ho lasciato fermentare, cambiare e crescere. Nell’album c’è una sorta di cronologia di quello che è successo in questi quattro anni. Ho sempre avuto l’abitudine di raccogliere le cose, anche se sono sparse nel tempo. Ad esempio, lavoravo al disco, ma nel frattempo ho pubblicato un EP [Mondo Rosso ndr]. Il disco, inoltre, è anche un modo per fare i conti con quel pensiero costante che credo appartenga a tutti noi della nostra generazione: l’idea della fuga, di pensare sempre a una sorta di piano d’emergenza. Penso che questo ci appartenga perché siamo stati obbligati a farlo nostro. Quindi il punto è capire perché si pensa sempre a una fuga e fare i conti con questa realtà».
E la risposta al non fuggire qual è?
«Stare, restare. Dirsi: “Sono sicuro che c’è una soluzione”».
Autore
Nasco a Roma e mi piace tutto (andare in bicicletta, la musica, i miei jeans, il pollo al forno, paul mescal, scrivere con la penna, just kids di patty smith, le città, i cowboy) tranne la maionese