Fare rap e essere rapper tra linguaggio, storia del genere, attivismo e puro lirismo: intervista a Raffaele Lucci

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«Fare rap è una cosa, fare politica è un’altra. Io provo a fare politica con la presenza; la persona va oltre i testi. In America il rap è stato necessario per far confrontare l’opinione pubblica d’oltreoceano su certe tematiche, in Italia questo non serve. L’artista è una persona, e come tale è complesso. Picasso ha creato la Guernica, ma trattava orribilmente le mogli. Bisognerebbe avere più capacità di analisi del prodotto rispetto a chi lo produce».

Queste sono alcune delle considerazioni fatte da Raffaele Lucci, fondatore della crew BrokenSpeakers, fuoriuscite dalla nostra discussione sul rap e sulla sua evoluzione.

Il rap, italiano e non solo, è definibile come una musica “prettamente” politica? Non solo per i fini, ma anche per alcuni contenuti che racconta?

«Partiamo cercando di capire che cosa si intende per rap al giorno d’oggi in Italia. Probabilmente gli ultimi progetti veramente rap, inteso nella sua ragione più intrinseca della parola e del genere, sono quelli di Gué Pegueno. Il rap nasceva in America, tra l’altro esattamente cinquant’anni fa, come un genere in cui si provava a scrivere delle barre, delle frasi a tempo, su dei campionamenti di noti brani jazz, soul, reggae o comunque generi appartenenti alla black music, in freestyle, senza una vera e propria preparazione a priori.

In Italia più che dire “rap” c’è una tipologia di pop molto basata su questo lato psicanalitico, personale da cui è innegabile che ne vengano fuori dei testi di valore altissimo. Basti pensare all’album Persona di Marracash, che per me è la miglior penna in Italia. Questo è molto dovuto al  fatto che noi siamo figli di una letteratura che da inizio Novecento ci ha portati ad un’analisi del soggetto.

Sulla questione politica invece io credo che il rap, proprio per il modo in cui nasca, non è definibile come politico; tra l’altro credo che non sia il rap ad essere politico ma quanto più la figura del rapper o di chi c’è dietro il microfono».

La figura del rapper come figura politica come possiamo spiegarla? 

«Io stesso in molte delle mie canzoni non tratto di tematiche sociali. Ma attraverso la mia presenza, facendo concerti in determinati luoghi, come possono essere i centri sociali o le periferie,  mettendo in beneficenza o devolvendo per una causa qualsiasi il ricavato del mio concerto, io lì rendo politico il mio rap.

Stessa cosa avviene in America: il rap di per sé non diventa politico, ma quanto più un rapper che prende delle forti posizioni politiche dà un valore diverso alla sua musica. Ma da qui a dire che il  rap nasce come genere politico ne passa».

In America per esempio il rap è stato fortemente usato anche per  raccontare la situazione della segregazione razziale e dell’odio nei  confronti della comunità nera da parte dei bianchi. Questo sarebbe possibile in Italia? 

«C’è da fare una considerazione a priori: il rap è stato fortemente usato per far confrontare il dibattito pubblico sulla questione razziale perché è stato il primo linguaggio a essere preso sul serio della cultura americana sul tema.

Gruppi come l’N.W.A., per citarne uno, o anche poi i vari 2Pac, Biggie e similari nelle loro canzoni non andavano a spiegare come risolvere il problema, ma semplicemente raccontavano quello che loro vivevano. Certo, c’era una sorta di esagerazione: non tutti i neri giravano e girano con il  catenone d’oro o con la pistola in tasca, ma in quel periodo storico dell’America è servito una tipologia di musica del genere per raccontare le violenze che i neri subivano in particolare dalle forze dell’ordine e da una cultura basata sulla segregazione razziale.

Tutto ciò è legato ad una comunità, quella afroamericana, che aveva bisogno di rappresentanti per far conoscere la loro situazione di disagio e di degrado. In Italia, una tipologia di comunità del genere ha avuto altri modi di rappresentanza: per la questione meridionale è “bastato” Verga con la sua letteratura, per quanto riguarda il tema delle mafie o della criminalità organizzata abbiamo sviluppato altri modi per comunicarla al grande pubblico. Non è stato necessario il rap.

Il rap in Italia vive una sorta di inferiorità rispetto alla caratura delle altre arti. Il rap italiano, nel provare a raccontare tematiche sociali profondi o politiche, perde quella sincerità intrinseca che è necessaria per rendere un genere non solo gradevole ma anche riconosciuto e riconoscibile, come è avvenuto negli States».

Sempre rimanendo oltreoceano: lì c’è Kendrick Lamar che con i suoi brani diventa una voce del movimento Black Lives Matter, mentre qui sembra che non ci sia la capacità rappresentativa di una comunità  anche con la musica. Come mai?

«È innegabile che determinati artisti diventino voci di un fenomeno, ma qui entra in gioco il contesto del sogno americano. Il sogno americano è un sogno che si basa – sì – sulla riuscita personale nella vita, ma del singolo soggetto. Rapper come lo stesso Kendrick, come anche i rapper di inizio anni ’90 riescono da soli ad emergere dal ghetto, dal borgo di una qualsiasi megalopoli ma non portano la collettività a fuoriuscire da quella situazione di stallo sociale ed economico che ha anche generato alcuni dei mostri sacri di questo genere.

In Italia ci sono attualmente ragazzi che raccontano di strada con un’accezione diversa rispetto alla cultura black, ma sempre trattano di situazioni sociali fortemente emarginate dalla politica e dalla comunicazione nazionale che diventano invisibili».

Intendi i vari Simba la Rue, Rondo, Baby Gang e similari. Una musica molto cruda ma che ci mette davanti il problema delle periferie.

«Non solo quello delle periferie, ma anche quello immigratorio. Stavo vedendo un servizio de Le Iene in cui si parlava di Simba La Rue. Anche questi artisti che non rientrano tra i miei ascolti possono essere la base creativa di una scena rap più grezza e quindi vera.

Sono sempre stato fan del rap americano, ma anche di quello francese ed inglese. Il rap francese e inglese sono figlie della loro cultura coloniale, e quindi ci sono rapper figli di terza e quarta  generazione di immigrati. Nella loro multietnicità vi sono anche i risultati di politiche sbagliate, come le banlieue [NdR. con questo termine si intende fare riferimento ai comuni che si trovano nelle adiacenze di una metropoli, caratterizzati da forti instabilità socio-economici], in stile il film La Haine, che diventano il terreno fertile per comunità emarginate che vogliono raccontarsi.

Il rap è un strumento relativamente facile, e la narrazione di quel mondo lì diventa la cosa più vicina al rap d’oltralpe e americano. L’ascoltatore di pop medio italiano è terrorizzato dal rap di Simba La Rue, per esempio, ma apprezza quello di Marracash. Perché dietro a Simba la Rue c’è un  problema che non si vuole affrontare e che non si vuole vedere. È come il problema dei sistemi penitenziari: non li vogliamo come strutture nelle nostre città perché ci ricordano un problema con cui non vogliamo confrontarci».

Rispetto al linguaggio del rap: abbiamo brani come Keep Ya Head di 2Pac che parlano di tematiche femministe come l’aborto e altri che fanno continuo uso di slur e linguaggi offensivi. La verità dove sta?

«2Pac era uno che non aveva un bel rapporto con le donne. L’artista non sempre segue ciò che produce a livello di arte. Qua si torna sempre ad un problema molto intrinseco della cultura afroamericana, nel senso che il sessimo e l’omofobia sono tematiche che il rap prende da una delle sue radici: il reggae. Sono generi, sia il rap che il reggae, che non vedono la donna come nemica, quanto più come subalterna. Questo perché siamo figli di una cultura patriarcale, e non nego che con una maggior apertura sul tema non si riesca anche a superare ciò».

Sempre sul linguaggio e l’artista, possiamo citare il caso di Kanye West in Italia. Concerto non più fatto per motivi di sicurezza, per il personaggio ma anche per la mobilitazione di gruppi di persone che non volevano un personaggio omofobo e antisemita. Davanti ad artisti che fanno buona arte nonostante le loro idee folli, come possiamo fare? 

«È sempre il dibattito sull’arte e sull’artista, e sulla divisibilità tra i due. Per fare un esempio, Picasso picchiava la moglie. Le persone sono complesse, sfaccettate e tante cose. Non sempre sono delle persone belle, e tutti noi abbiamo dei mostri dentro sgradevoli per gli altri. Non sono per la censura, e capisco chi riesca a dare fortemente valore alla musica che produce e compone nonostante le sue uscite pubbliche indecenti.

Ma questo non solo lui, ma anche altri. Anche lo stesso Pasolini ha fatto cose in vita non eccellenti, ma è innegabile il suo approccio all’arte, alla letteratura e alla capacità di uno sguardo critico nei confronti della società. Personaggi complessi che noi amiamo, che per le loro vite complesse e anche antistanti da noi, devono portarci a dei ragionamenti semmai sulla vita, e che non dovrebbero “contrastare” l’apprezzamento della loro arte.

È un esercizio difficile, ma va fatto. Io sono cresciuto ascoltando musica estremamente misoginia, omofoba, molto cruda e violenta. Ma non sono così. Lì bisogna avere anche la capacità di avere quei strumenti per la  comprensione del mondo e della cultura che ci circonda».

Autore

17 gennaio 2004 come data fatidica, e da quel momento sono immerso nei libri, nei paesaggi di Sezze e nelle canzoni di Kendrick Lamar. Napoletano di fede e di sangue, ricomincio pure io da tre cose: ascoltare, guardare e parlare, o su questa pagina, scrivere.

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