I social media hanno risemantizzato la condivisione

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Qualche giorno fa, scrollando TikTok, mi sono imbattuta nel video di una persona che piangeva. Era stanca della continua condivisione (per qualcuno sovra-esposizione) delle vite degli altri sui social. Si tratta di un tema per niente scontato, dal momento che ci permette di riflettere sul senso del privilegio altrui, e confrontarlo con le proprie vite. 

Quando ci si accorge di non potersi permettere gli stessi vestiti, gli stessi viaggi, lo stesso stile di vita della gente che si osserva dall’altra parte dello schermo, questo genera frustrazione e smarrimento. In altre parole “consapevolezza di classe”.

Quando ci si rende conto che non si appartiene alla stessa realtà socioeconomica di chi si osserva online, si sperimenta un senso di distanza e di esclusione. Questo può portare a una riflessione critica sulla propria posizione nella società e sulle disuguaglianze strutturali che la caratterizzano. 

Ecco qui il primo problema

Secondo l’Accademia della Crusca, la definizione storica della parola “condividere”, deriva dal latino cum (insieme) e dividere (dividere), quindi “dividere con altri”. Sottolinea come il significato originario sia legato a un gesto di partecipazione e comunione. Si condivide un pasto. Si condivide una gioia. Si condivide un percorso.

Nell’era dei social media, tuttavia, il verbo subisce un’evoluzione semantica. Quando qualcuno ci propone il suo privilegio con un video, storie o immagini su Tiktok o Instagram, non vuol dire che lo divida con noi. Condividere, dunque, sembra stia assumendo delle connotazioni semantiche che lo avvicinano più al campo semantico del mostrare. E in certi casi dell’ostentare.

Per esempio, TIkTok fonda la sua fortuna sul mostrare attività quotidiane, dal cosiddetto “Preparati con me” in cui gli users si truccano, raccontano la loro vita o donano perle di filosofia, o al “Fit Check” in cui trionfano angoli di case, interni di palazzi o semplicemente strade e ambienti che si frequentano. Questo contribuisce a creare delle narrazioni in cui non si può “nascondere” il privilegio che si ha, e che in qualche modo permette di “sbirciare” nelle vite dei più ricchi.

Erano state Aestetica Sovietica e thePeriod ad aver criticato quel trend in cui dovevi indicare in quante delle grandi città nel mondo fossi stato. E no, non si trattava del libro di Vittorini. Semmai di quello che avevano definito un “trend classista”, che spopolava ad agosto. Si trattava di “Come Instagram ci ha rovinato le vacanze”, sollevando questioni che riguardavano il non potersi permettere neanche un piccolo viaggio, per poi “soffrire” dall’altra parte dello schermo. Soffrire guardando i viaggi che gli altri condividono sui social.

In questo senso, sembrerebbe anche che l’atto del condividere porti con sé una fatica emotiva, frustrazione e pesantezza.

Una delle problematiche attuali è che l’atto della condivisione non avviene simultaneamente, per quanto un social vada veloce. Nella maggior parte dei casi si condivide quando il fatto è già avvenuto. Esistono le dirette, è vero. Ma in ogni caso esse non garantiscono la possibilità di vivere la stessa esperienza del creator: anche se hai la possibilità di fare un tour virtuale di Tokyo in tempo reale, non puoi sentire gli odori, e nemmeno percepire l’essenza della città. Questa è una domanda che torna spesso nella mia testa ironicamente, retoricamente: siamo certi che i social siano in grado di farci cogliere l’essenza della quotidianità?

Giornalmente ingurgitiamo litri di informazioni, colori sgargianti, vite degli altri, ipotesi sul mondo, e inutile confronto. Quindi tanto vale elaborare una dieta sana.

Aboudia Abdoulaye Diarrassouba, Globalisation (1983)

Comunque

C’è stato un tempo in cui amicizia e condivisione erano cruciali per rinsaldare i legami sociali. Con buona pace di quello che suggeriva Aristotele (a parte la misoginia), l’amicizia era basata sulla virtù, e faceva stare bene le persone. Sembrerebbe che la teoria che viene applicata agli albori dei social sia proprio quella, quando su Facebook, per allargare la propria cerchia bisognava “chiedere l’amicizia”. Un gesto che per i primi avventori dei social era tremendamente strano, per il significato che si attribuiva alla cosa. Infatti, i più diffidenti, quando mandavi richieste di amicizia, subito ti chiedevano “chi sei? Come ti conosco?”, e i più selettivi difficilmente ti accettavano. 

Oppure alcuni, vedendo movimenti strani nella tua lista di amici, ti chiedevano perché avessi mandato la richiesta di amicizia a quel loro amico stretto, proprio perché erano più che sicuri che voi non facevate parte della cerchia delle loro amicizie nel mondo reale. 

Così per un periodo, abbiamo fatto la distinzione tra amici online –i cui legami erano più superficiali e meno controllati,– e amici reali. Criticando prontamente quei rapporti che pur potevano nascere, anche se non ci si era già visti per davvero. 

Era stato Jean-Jacques Rousseau che nel suo Discorso sull’origine della disuguaglianza, criticava il fatto che lo sviluppo culturale avesse generato una corruzione dei costumi. Si soffermava su quella disuguaglianza che decretava funesta, in quanto basata sulla «distinzione degli ingegni e dall’avvilimento della virtù». Poi proseguiva verso il rapporto tra cultura e potere politico. 

Rousseau affermava che sotto un’apparente benessere ideologico, spesso si nasconde una realtà oppressiva. Intanto, sono proprio le lettere e le arti, che operano sulla consapevolezza degli uomini, e possono essere complici dell’oppressione. I social alla fine hanno fatto proprio questo. Fanno parte del cosiddetto avanzamento tecnologico, e hanno cambiato tutto nelle nostre vite. 

Più che un Discorso, quello di Rousseau sembra una profezia. Infatti sottolinea che «non si è mai visto un popolo corrotto tornare alla virtù. […] Non vi è più rimedio, a meno di qualche grande rivoluzione quasi altrettanto temibile che il male che potrebbe guarire». 

Sembra quasi scontato citare Marx e Engels che nel Manifesto vedevano la condivisione, come una delle risorse necessarie per superare le disuguaglianze sociali ed economiche. Ma avvertivano anche del fatto che il capitalismo rischia di trasformare ogni aspetto della vita umana in merce. 

E i social media cosa hanno fatto?

Innanzitutto utilizzano spesso termini come “comunità”, “condivisione”, “collaborazione” e “accesso libero”, che richiamano ideali socialisti o comunisti. Ad esempio: la condivisione di contenuti può essere vista come una forma di “proprietà comune”. Inoltre, l’idea di una piattaforma aperta a tutti evoca il principio di uguaglianza e accesso universale. Eppure, questa è solo la facciata della chiesa.

I social media “risemantizzano” questi concetti, ovvero li adattano a un contesto capitalistico. Ad esempio: la condivisione, non è un atto disinteressato, ma diventa un mezzo per generare profitto attraverso la raccolta di dati e la pubblicità.

La “comunità” non è più un gruppo basato su legami autentici, ma un insieme di utenti da monetizzare. Non è una novità constatare che esista un capitalismo di sorveglianza e che sui social, il prodotto sono le persone.

Davvero credevamo che stare sui social gratis non potesse avere conseguenze? Tutti quanti si preoccupano e gridano allo scandalo quando si parla di raccolta e profilazione dei dati, tuttavia il vero problema è che cambiano il modo in cui intendiamo la relazione con l’altro. Quando qualcosa è capace di cambiare il senso delle parole che usiamo, parole importanti che sono alla base dell’umanità, proprio nel senso ciceroniano e terenziano, vuol dire che quell’umanità è già stata trasformata. Erroneamente crediamo che siano prima le parole a cambiare e poi noi. Ma in realtà esse mutano solo dopo che le abbiamo adoperate a lungo in modo diverso.

Cose di questo secolo: essere soli insieme.

I social media hanno trasformato la condivisione in una vetrina, dove spesso si mostra solo il lato migliore della propria vita, creando in chi non può permetterselo invidia e frustrazione. Naturalmente, più cose eccezionali, belle, cool, hai da mostrare, più seguito avrai (anche se non è così semplice e scontato). Tuttavia, la ricerca di consenso è assetata, e rischia di trasformare anche il gesto più spontaneo in una performance.

Sherry Turkle è una psicologa e sociologa del MIT che ha spiegato quanto «siamo soli ma abbiamo paura dell’intimità. Le connessioni digitali offrono l’illusione della compagnia senza le richieste dell’amicizia». Un elemento chiave della sua critica risiede nella superficialità delle connessioni. Molte interazioni online spesso mancano di profondità emotiva. Messaggi rapidi, likes e commenti sostituiscono conversazioni significative, creando un senso di connessione che è più quantitativo che qualitativo. Quindi, ci «aspettiamo di più dalla tecnologia e meno dagli altri», ribadisce l’autrice, e in qualche caso abbiamo paura dell’intimità, poiché la tecnologia ci permette di controllare quanto ci esponiamo agli altri, ma questo controllo può portare a evitare l’intimità reale, che richiede vulnerabilità e impegno. Per Turkle «la tecnologia è seducente quando ciò che offre incontra le nostre vulnerabilità umane. E a quanto pare, siamo davvero molto vulnerabili». Questo porta a una sorta di status che chiameremo “solitudine iperconnessa”.

Di fatto, era proprio questa la definizione del mondo globalizzato che dava la maestra ci dava: aprire le frontiere, generare interconnessione, accorciare le distanze. Ci siamo dimenticati di aggiungere le controindicazioni, il senso di solitudine e l’effetto preoccupante che può avere un mondo che funziona così sulla capacità di costruire comunità, sviluppare abilità sociali, e stringere relazioni autentiche e profonde. 

In questo TED Talk, Connected, but alone? Turkle riflette sulle tematiche del libro, ma ribadisce quanto questa tecnologia che adoperiamo giornalmente non cambia ciò che facciamo, (in un senso pratico ovviamente sì) ma trasforma chi siamo. Come ci relazioniamo con gli altri? Ma soprattutto, come ci relazioniamo con noi stessi? Tutto questo discorso mi ha fatto venire in mente un quadro chiamato Alone Together, di Maria Kreyn che era diventato famoso grazie a una serie prodotta da Shonda Rimes nel 2016. Lo avevo usato come immagine di copertina di Facebook perché ispirava una malinconica consapevolezza.

Mi piace guardarlo in modalità monotematica, con Alone Together di Chet Baker in sottofondo. La solitudine accompagnata diventa un leitmotiv, che annebbia tutte le teorie possibili. Restituisce la visione di un mondo in cui iperconnessione implica ipercondivisione, ma community non vuol dire necessariamente collettività. Non più.

Maria Kreyn, Alone Together (2012)

L’impressione delle cose è altalenante. Si muove al ritmo di un presentimento che ha gli occhi tristi. Si moltiplica attraverso l’impressione di un post, i cuori, i “mi piace”. Cambia il modo in cui parliamo. Cambia le narrazioni, le rende sottili, di quindici secondi. Oppure qualcosa in più. Giusto il tempo di una storia su Instagram. Poi un giorno ci siamo svegliati, e avevamo più spazio. Spazio illimitato su cui dilatare le nostre vite, le nostre esperienze, o i nostri gusti. Sì, anche le nostre battaglie. Un po’ meno le debolezze. Quando vogliamo sparire, ci prendiamo la cosiddetta “pausa dai social”. Reagire ai problemi di attenzione. Disinstallare l’app prima di un appello d’esame. Stare nel mondo reale. Distaccarci dall’impatto emotivo che ha un mondo immateriale. 

Per poi ricominciare il loop. Ritrovarsi nel buio di una camera alle tre di notte, persi nell’insonnia, a condividere video alle cerchie più strette. Fare restrizioni con i colori. Mettere i più stretti nel verde e tutto il resto altrove. Creare finta privacy. Qualcuno aveva bloccato i genitori su Instagram, e i parenti più prossimi perché non voleva essere controllato. Abbiamo sorriso quando ci abbiamo pensato.

I social hanno dato libertà? Dirette non stop a tutte le ore del giorno, a seconda del fuso-orario. Statistiche sui momenti migliori per condividere. Blocchi emotivi. Forum online. Era nato tutto dai blog di MSN. I trilli ci reclamavano al computer subito dopo aver finito il pranzo. C’era chi aveva Badoo, chi ancora non aveva internet in casa e utilizzava quello della migliore amica quando facevano i compiti insieme. 

Improvvisamente abbiamo iniziato a correre per stare al passo coi tempi. Non ci siamo più fermati. Abbiamo aggiornato lo stato su ogni profilo. Condiviso i contenuti, aspettato il conteggio dei like o quanto saremmo stati ignorati dall’algoritmo. Pensando che bastasse quello a farci sentire più sicuri di sé. E adesso dove siamo?

Autore

Sono pugliese ma ho studiato fuori. Sto imparando a prendere le cose fragili con le mani bagnate. Ho scritto due libri di poesie. Amo la letteratura e una volta ho litigato con un prete.

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