Gli standard di bellezza e la grassofobia ci hanno rotto il ca**o

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Un ragazzo va in discoteca con gli amici e per divertirsi sceglie la ragazza, a suo parere, più grassa nel locale e la rimorchia, mentre gli amici lo filmano senza il consenso della diretta interessata. Il video viene poi caricato su Tiktok, dove al giovane viene dato un punteggio in base all’ipotetico peso della ragazza. Il premio per chi raccoglie più punti? Un ingresso in discoteca. Questa è la Boiler Summer Cup ed è la dimostrazione che la grassofobia esiste. 

Che cos’è la grassofobia

La grassofobia è la paura, il disprezzo e la discriminazione verso le persone con un corpo grasso. Comprende la percezione negativa del grasso e la sua origine risiede in quei pregiudizi per cui le persone con un corpo grasso sono pigre, mancano di forza di volontà, sono sporche e non in salute, hanno un basso livello di intelligenza, vengono dipinte come brutte e ridicole. 

Quando andate a fare shopping vi dovete preoccupare del fatto che non ci siano indumenti della vostra taglia? Vi vestite come volete perché vi viene garantita ampia scelta e, quindi, riuscite ad esprimere il vostro stile e la vostra personalità? Quando prendete un volo low cost (i cui sedili sono stretti e scomodi anche per Pollicina) vi dovete preoccupare dell’ampiezza delle sedute? Quando andate dal medico trovate davanti a voi qualcuno pronto ad ascoltarvi e a capire cosa avete in base ai sintomi descritti? Alle persone con un corpo grasso spesso viene detto, senza alcun esame o accertamento, che devono solo dimagrire. 

Nella prefazione a Belle di Faccia. Tecniche per ribellarsi a un mondo grassofobico di Chiara Meloni e Mara Mibelli, Irene Facheris fa un esercizio di immedesimazione che vorrei provare a replicare. 

Io sono bassa, non più bassa della media, ma posso con certezza affermare di essere in quel gruppo di persone che, ironizzando, si definiscono “diversamente alte” e indossa le Vans con il platform per sentirsi più a suo agio. Nel corso della mia vita questa caratteristica mi ha accompagnato nei commenti di amicə, fidanzati e sconosciutə, ma, vuoi perché vista l’altezza dei miei genitori non potevo sperare di meglio, vuoi perché crescendo mi sono convinta che il detto «nella botte piccola c’è buon vino» fosse dalla mia parte, non ho mai vissuto l’essere bassa come qualcosa di limitante. 

Immaginiamo per un attimo che le cose siano andate diversamente. Che la mia (non) altezza diventasse oggetto di prese in giro e vessazioni continue, che mi sentissi ripetere h24 «Ehila, da laggiù com’è il mondo?», «Dove hai preso casa? Alla Contea? (che per chi non lo sapesse è dove nel Signore degli Anelli abita il popolo degli Hobbit)» «I vestiti dove li prendi, nel reparto bimbi?». Come mi sarei sentita se accendendo la TV, aprendo uno dei mille social mi fossi trovata di fronte a pubblicità che propongono soluzioni pronte all’uso: «10 trucchi per allungare le tue gambe», «Fai questo esercizio 4 volte a settimana e vedrai che ti alzerai di 5 mm», «Con questa crema finalmente potrai vedere il mondo da quassù» e via dicendo. Dopo rabbia, tristezza e pena, subdolamente, avrei iniziato a interiorizzare a tal punto lo sguardo degli altri e della società, da iniziare a dubitare io stessa del mio valore e probabilmente le avrei provate tutte per alzarmi anche solo di 5 mm. 

Per me, come per Irene Facheris, non è andata così. Per tante altre persone invece sì, per tutte quelle persone che hanno un corpo grasso. Così la grassofobia agisce sulla loro mente, psicologia, vita, considerate prodotto difettoso di un mondo in cui capitalismo e patriarcato le vorrebbero magre, alte e toniche (ma non troppo). In una parola: conformi.

Malatə di bellezza

Accanto alla grassofobia, che l’accompagna a braccetto, c’è quella che Renee Engeln, in Beauty Mania. Quando la bellezza diventa ossessione, definisce la malattia della bellezza. Si tratta di una patologia che colpisce soprattutto le donne e la cosa non dovrebbe stupirci: 

Le aggrediamo con uno standard che non potranno mai rispecchiare e poi, quando si preoccupano del loro aspetto, le accusiamo di superficialità; o, peggio ancora, ne minimizziamo le ansie con un banale «Siamo tutti belli a modo nostro», invitandole ad accettarsi così come sono.

Nel primo capitolo l’autrice risponde ad una domanda che probabilmente tuttə noi almeno una volta ci siamo postə: «A che età iniziamo a desiderare di essere bellə?». Spoiler: troppo presto. Qui Engeln intervista Leigh, una bambina di sette anni, la quale, alla domanda di descrivere una donna bella, risponde:  

Ha i capelli lunghi e lisci e si trucca tanto. Porta i tacchi alti. È magra. Ha braccia e gambe magre.

E più avanti aggiunge: 

Non so quanto sia grande la sua testa.

Perché poco importa della testa e di quello che c’è dentro, tutta l’attenzione si focalizza sul corpo. Ma Leigh è più libera di quanto pensiamo: 

«Ti piace il tuo corpo?». Lei annuì e diede una risposta meravigliosa. «Corro, mi arrampico e salto un sacco. E poi nuoto e tirando calci le gambe diventano forti». «È più importante che il tuo corpo sia in grado di fare cose belle o che sia bello?». «Che faccia delle cose» ribatté senza esitare. 

Con Leigh riscopriamo il nostro corpo come un oggetto attivo, uno strumento che ci permette di fare cose. La proposta di Engeln per guarire dalla malattia della bellezza è quella di cambiare la percezione del nostro corpo, trasformarlo da oggetto passivo, che chiunque può giudicare e valutare, a mezzo attraverso il quale possiamo influenzare lo spazio che ci circonda. Il corpo è da sempre considerato come un biglietto da visita, a seconda di quanto ben fatto determina la nostra possibilità di riuscita nel mondo e la nostra probabilità di sopravvivere. Ma forse dovremmo iniziare a guardarlo come ciò che ci permette di correre, ballare, saltare, arrampicarci e di conoscere lo spazio che ci circonda. Dal giudicare costantemente i nostri corpi e quelli degli altri dovremmo, semplicemente, iniziare a viverli. 

Perché in fondo gli standard di bellezza, le creme anticellulite e i fanghi che ti fanno sentire un cotechino sulla tavola imbandita del pranzo di Natale, quelli che credono che sia bello sentirsi dire «Ti vedo bene! Sei dimagritə?», quelli che si sentono in diritto di dispensare consigli per “rimanere in forma” hanno rotto il ca**o. 

I ragazzi che, soffrendo di deliri di onnipotenza, credono di poter schiacciare la dignità, la privacy e la salute mentale di una ragazza, solo perché non rispetta determinati standard di bellezza, hanno rotto il ca**o. Chi definisce una cosa del genere una “bambinata”, una “ragazzata” ha rotto il ca**o. 

Sentitevi liberə di continuare l’elenco di rotture di ca**o e, per riprendere Chiara Meloni e Mara Mibelli di Belle di faccia, «date un calcio alla grassofobia fuori e dentro di voi». 

Autore

Nata a Ferrara, tra la nebbia e le biciclette. Quando non ho la testa tra le nuvole, mi piace nascondere il naso nelle pagine di un libro o dietro una macchina fotografica. Scrivo di lotte e diritti, mi piace raccontare dei posti e della gente di cui nessuno parla mai. Frequento assiduamente i mercatini dell’usato e al tiramisù non dico mai di no, queste sono le uniche regole di vita che mi so dare.

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