Una giornata a casa di Harry Styles: sushi, tatuaggi e un paio di bottiglie di Bordeaux

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«Excuse me, a green tea?» «Ah! Sure» rispondo, mentre butto le mie cose sul divano. 

Harry Styles… che roba. L’ultima volta che ci siamo parlati era la fine del 2019, proprio prima che scoppiasse la pandemia. Sembra un’altra vita. Ricordo bene quella conversazione, si parlava della frutta estiva. Io gli dissi che d’estate mangio solo pesche e qualsiasi cosa sappia anche solo lontanamente di cocco, lui invece amava il cocomero e i kiwi. Strano argomento da trattare a dicembre, ma con lui è sempre così: ci si racconta un po’ di tutto, senza render conto del tempo che fa, del mese dell’anno o di quanto fa male. Chissà se è cambiato. 

La casa di Harry. «Harry’s House», direbbe lui, che è inglese di Redditch ma è cresciuto nel Cheshire. È la prima volta che mi invita qui e la prima cosa che fa è offrirmi del tè come un vero britannico. Ha aperto la porta di casa a tutti, ultimamente. Mi guardo intorno, senza sapere dove posare prima lo sguardo. È un posto assurdo, con tante foto in bianco e nero sulle pareti, cimeli raccolti da ogni parte del mondo e una piscina che adesso, a inizio giugno, fa proprio gola. Harry nota il mio sguardo che vola da una parte all’altra della stanza e mi propone un tour della casa. «Prima ordiniamo il sushi» dico io, «you promised».

Mentre attendiamo il nostro rider, mi porta in giro tra una stanza e l’altra e con calma mi aggiorna sulla sua vita degli ultimi due anni. Ha sofferto per il lockdown, per amore e per l’ansia da prestazione. Gli chiedo di spiegarmi quest’ultimo punto, che mi coglie di sorpresa più degli altri due. Dopo tutto, l’isolamento è un male comune a tutti di questi giorni e l’amore pure, danno senza tempo. Il fatto è che da quando ha smesso di fare musica con i One Direction per concentrarsi sulla carriera da solista, il salto non è stato indifferente. Il ragazzino fresco di X-Factor è stato sostituito da un artista serio, rispettato e rispettabile, di quelli che è facile elogiare. La sua paura – mi dice – è di non riuscire a tenere il passo con le aspettative che il mondo ha costruito attorno a questo meraviglioso giovane tutto eleganza e tatuaggi. Tento di rassicurarlo ma temo si sia incupito. D’improvviso prende un paio di occhiali da sole con le lenti gialle da un mobiletto, si volta a guardarmi e sorride. Siamo nella sua camera. Perché c’è un divano sul soffitto? “Here, I’ll show you something. Questo va a piacerti”. Il suo italiano è divertente. 

Eccome se va a piacermi. È il suo armadio. Ci sono un po’ di completi vintage, tante camice assurde e un numero incalcolabile di pezzi Gucci, testimoni dell’amicizia tra lui e Alessandro Michele, il direttore creativo della mitica maison fiorentina. Neanche il tempo di provarmi qualche pelliccia che suonano al citofono. È arrivata la cena. Saluto con riverenza l’abito nero del suo primo Met Gala. Corriamo giù per le scale, io con la mia tazza di tè e lui con i suoi occhiali gialli. 

Affoghiamo pezzi di tonno nella salsa di soia come se tentassimo di riportarlo in vita, con il telegiornale in sottofondo che nessuno di noi due sta ascoltando. Ci facciamo complimenti sullo smalto (il suo è rosso, il mio blu).

Parliamo della casa che ha comprato in Italia e del videoclip che ha girato in Costiera Amalfitana; poi tento di strappargli qualche spoiler sul sequel di Eternals e sul suo personaggio, Eros, che però non riesco ad ottenere. «It’s top secret», fa lui. Al centesimo uramaki gli chiedo se sta ancora soffrendo per amore, oltre che di un imminente mal di stomaco. «I don’t wanna talk about it» è l’unica risposta che ricevo. Gli lascio il suo spazio, mentre lui lascia la sedia per andare ad accendere la tv. Vuole vedere un film e fare i pop corn, anche se stiamo entrambi esplodendo da tutto il pesce crudo che ci nuota nello stomaco.

La scelta del film ricade su Dunkirk. Quando l’ho proposto lui ha alzato gli occhi al cielo e ha riso, ma mi ha accontentata. Suppongo capisca che la possibilità di guardare un film assieme a un membro del cast è un’occasione da cogliere al volo. E poi, che cazzo, gli sarà pur concesso vantarsi almeno un po’ di aver ottenuto una parte in un film di Christopher Nolan. D’altronde, non gli è stata regalata. Nolan lo ha scelto tra centinaia di audizioni perché trovava che il suo volto avesse un non so che di “storico”. Non so ben spiegare perché, ma sono d’accordo. Harry ha decisamente un fascino senza tempo. 

Nessuno dei due sta guardando il film. Immagino che lui lo sappia a memoria e io sono distratta dalla sua aria assente. Insisto. Harry, darling, se ti fa male il cuore tanto vale dirmelo, santoddio. C’è qualcosa che nasconde, è da quando sono arrivata che si comporta come se tentasse di trattenere un gran letto d’acqua che vorrebbe solo fluire.  Questo ragazzo è una canzone col ritmo allegro e un testo straziante. Lo convinco a spegnere la tv, per parlare davvero. «1982. Best year for Bordeaux». Decidi tu, mio caro, io di vino so poco e niente. 

La bottiglia che ci troviamo a condividere la stava conservando per un’occasione speciale, ancora indefinita ma possibile, che invece è andata in frantumi. Avrebbe dovuto aprirla prima, una sera qualsiasi, come sta facendo adesso. Capisco che questo vino non avrei dovuto berlo io, ma una persona che non c’è più, e mi sento come se stessi rubando un ricordo felice a qualcun altro. Harry mi assicura che è un piacere, che è contento di stare qui con me a bordo piscina, malgrado io non sia l’amore della sua vita e l’amore della sua vita non abbia più idea di dove sia. 

Parliamo dei suoi e dei miei drammi d’amore, intervallando il nostro stupido piagnucolare con qualche scambio di idee sui prossimi tatuaggi da fare. Ne abbiamo molti entrambi, di problemi e di tatuaggi. 

«It was like living in a daydream», dice al terzo bicchiere. «She was the love of my life». 

Parla di una ragazza senza nome, anche se ogni tanto fa riferimento a una certa Matilda, che però non mi sembra sia la protagonista delle sue sventure. O forse è solo una delle tante. Comincio a credere che Harry, di “loves of his life“, ne ha continuamente. Lo capisco e gli parlo dei miei fidanzati, un po’ perché con lui ci si apre facilmente, ma anche perché ormai siamo belli andati. «Boyfriends… they think you’re so easy, they take you for granted…» dice sottovoce, non tanto a me quanto a se stesso, come a rimproverarsi una negligenza passata. 

Seconda bottiglia. Harry è caduto in piscina e ora è bagnato fradicio, io ho tutto il vino sulla camicia e balliamo in giardino al suono di It’s No Big Deal, un brano che voleva farmi ascoltare. Siamo entrambi scalzi. Le nostre scarpe fanno una pausa sul fondo della vasca. 

Lo trattengo dall’aprire il terzo Bordeaux. Anche perché sta piangendo. Chiunque sia questa tipa, che si chiami Matilda oppure no, deve avergli scombinato parecchio i piani. Gli butto un asciugamano in faccia, gli dico di asciugarsi e mi siedo affianco a lui. Mi viene in mente una frase che disse a me la primissima volta che ci eravamo parlati, sarà stato il 2017 e la scena era uguale, ma al contrario. Quella volta piangevo io. Gliela ripeto, sperando che la ricordi anche lui. «Just stop your crying, it’s a sign of the time». Da come si gira a guardarmi, credo abbia colto eccome. 

Mi stringe la mano, sorride. Si alza di scatto e si tuffa in piscina. Riemerge dopo qualche secondo con le mie Nike e i suoi stivali tra le mani. Lancia le scarpe verso di me, mi guarda dal bordo vasca e fa: «You know… we gotta get away from here». Ha proprio capito a cosa mi riferivo. 

Mezz’ora dopo sto guidando una delle sue auto lungo una strada che non conosco ma che porta al mare, almeno a detta sua. Non voleva mettersi al volante perché è davvero troppo ubriaco e lo metto in chiaro: io non sono né sobria né sicura che quella del giro in macchina sia stata una grande idea, ma avevamo entrambi bisogno di prendere aria e sta per arrivare l’alba, quindi ignoro le mie condizioni e vado avanti, seguendo il navigatore.

Mezz’ora dopo ancora siamo al mare. C’è una gran luce dorata che ci fa sentire come se non vedessimo il sole da cent’anni, dopo una notte che è sembrata infinita. Restiamo in silenzio, seduti in auto a osservare la grande palla di fuoco. Ecco com’è, passare il tempo con Harry. Come trovarsi in presenza di una grande palla di fuoco con cui puoi restare assieme, perché malgrado possa dare quell’impressione, non ti brucia. Ti scalda quanto basta per farti stare a tuo agio. Cazzo, mi era mancato. Gli domando se vuole andare a fare colazione da qualche parte. Mi confessa che gli ci vorrà un po’ prima di tornare a mangiare pancakes con una ragazza. Anche i pancakes platonici. «Allora che si fa?» Chiedo in italiano, troppo stanca per tradurre. Harry sorride. 

«Should we just keep driving?».

Autore

Del cinema amo i film ambientati in un posto solo, il gossip hollywoodiano e il faccione di Bong Joon-Ho. Passo le domeniche a Porta Portese e il resto della settimana a mischiare il Martini alla tonica. In una vita passata ero un pirata.

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