Clarice Lispector e l’it delle cose

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«Dimmi di nuovo cos’è Lalande» implorò lui. «È come lacrime d’angelo». Sai cosa sono le lacrime d’angelo? Come dei piccoli narcisi, che la minima brezza fa incrinare da una parte e dall’altra. Lalande è anche il mare all’alba, quando non solo un solo sguardo ha ancora sfiorato la spiaggia, quando il sole non è ancora nato. Ogni volta che dirò Lalande, dovrai sentire la brezza fresca e salata del mare, dovrai camminare lungo la spiaggia ancora buia, lentamente, nudo. Fra poco sentirai Lalande… Puoi credermi, io sono una delle persone che più conoscono il mare».

La bacerei sulla fronte, se ce l’avessi davanti. Non Clarice Lispector, a lei vorrei poter solo fare delle domande. No, forse vorrei solo sentirla parlare, o sbirciarla, sì vorrei spiare Clarice Lispector alla macchina da scrivere, mentre si gratta la fronte per pensare meglio e fuma la sua ennesima sigaretta. La fronte, la bacerei alla donna che me l’ha fatta conoscere. Lei sa quanta luce mi ha fatto, lì dove ero diretta. Clarice Lispector è una tegola in testa, laddove le tegole in testa cadono come manna dal cielo. Clarice Lispector io non riesco a descriverla e mi avvicino a questo articolo, con l’assunto di partenza che possa essere un fallimento. Sarà di sicuro un fallimento. Se le parole non sono abbastanza trasversali, fluide e mutevoli per definire gli altri, con lei lo sono ancora meno. Avrei bisogno degli elementi naturali. Mi servirebbe un po’ di vento, un po’ di foglie, l’erba, mi servirebbe l’erba. Poi il sangue e i nervi. Avrei bisogno d’innervare gli elementi naturali e quelli anatomici in una corona d’alloro, allora forse potrei fornire un’idea, vaga e frammentata di quello che Clarice è stata. Non la sua scrittura, Clarice e la sua scrittura sono un insieme, un processo condannato a rinnovarsi sempre, per sempre. Le parole tradiscono il mio lavoro, perché sono d’accordo con lei:

“La parola ha un limite terribile. Oltre questo limite c’è il caos organico. Dopo la fine della parola comincia il grande grido eterno.”

Come può una scrittrice poter vincere l’impresa di dire quello che la parola non può dire? Come può impossessarsi dell’it delle cose? L’it è l’essere, prima che le cose già mutino e il tempo in questo è il nemico primo. Ora, ora, ora le cose sono già altro. Lei tenta di afferrare quello che non si può afferrare, tenta di definire col linguaggio quello che non si può definire. Crea nuove parole, le inizia alla vita, usa i suoni, la musica. Oh sì, la musica è perfetta per definire il suo pensiero. Suoni rizomatici, non gerarchici, non binari, solo intrecciati e interminabili. Clarice Lispector si serve del modello della parola solo per giungere a un processo che rifiuti ogni modello. La parola è il nemico, ma senza nemici non esiste liberazione. Lei non era una donna, un individuo, una persona, era quello che aveva: i movimenti che la rendevano sempre in un flusso transitorio.

“Come vedi, mi è impossibile approfondire e impossessarmi della vita, è aerea, è il mio fiato leggero. Ma so bene cosa voglio qui: voglio l’inconcluso. Voglio il profondo disordine organico che lascia comunque intuire un ordine soggiacente. La grande potenza della potenzialità.”

Bordeggiare i margini, osservare le cose dalla riva, se puntiamo lo sguardo verso il mare, al largo se l’obiettivo è la riva. La parola più importante della lingua, per lei, ha un’unica lettera: È.

Si è. Mi sono. Tu ti sei.

Bisogna scollarsi dal sé per avere l’intuizione del suo pensiero. Serve la disarticolazione, tramutarsi in piante, fiori, alberi, vento, mare, ma nessuno di questi elementi è sufficiente preso a compartimento stagno, nella sua pura essenza. Bisogna tramutarsi in natura in movimento: la pianta nel processo di fotosintesi, il fiore che sboccia, l’albero che mette le radici, il mare in tempesta. Bisogna essere un piano in mezzo ad altri mille piani. Deleuze lo suggerisce bene: è difficile pensarsi iniziati nel mezzo, anche i flussi che hanno il ruolo di fluire hanno inizio e fine. La vita e la morte sono inizio e fine, ma quello che si è sta in mezzo.

“Ho paura di scrivere, è molto pericoloso. Chi ha tentato di farlo, lo sa. Pericoloso di cadere nell’occulto e il mondo non va alla deriva, è occulto nelle sue radici sommerse nelle profondità del mare. Per scrivere devo collocarmi nel vuoto.”

Forse è una nuvola? ma pure le nuvole sono. Lispector è nelle cose che non sono, è il movimento, e il movimento, per definizione, non si afferra. Immagino allora un mondo senza parola, in cui la natura vale solo nella distrazione, nell’annullamento dell’ordine. Lispector è Lalande, la brezza fresca e salata del mare. E io vorrei essere quel vento di passaggio sulla riva, per spiarla per una volta sola, un’unica.

Autore

Cresciuta nella campagna Casertana, non a raccogliere margherite ma a catturare gatti, scrivo e leggo da quando posso ricordare. Ho studiato scienze cognitive perché le domande sono meglio delle risposte. Mi vedo cambiata, ma mi incastro sempre negli stessi ganci.

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