Alla fine, la manovra a tenaglia portata avanti dall’amministrazione Trump ha piegato la Columbia University di New York: dalle agenzie di stampa arriva oggi infatti la notizia del raggiungimento di un accordo tra l’ateneo newyorkese e il governo federale statunitense per la chiusura della controversia scoppiata nei mesi scorsi attorno ai fondi e ai finanziamenti bloccati da Donald Trump – stimati attorno ai quattrocento milioni di dollari – per la mancata conformità dell’ateneo nel contrasto all’antisemitismo tra i propri campus universitari.
Stando a quanto riportato nei termini dell’accordo, la Columbia University provvederà a pagare una multa di duecento milioni di dollari in tre anni all’amministrazione Trump per chiudere la questione e per riottenere i finanziamenti e le sovvenzioni federali bloccate lo scorso 7 marzo dall’intervento della Casa Bianca attraverso un’azione congiunta del Dipartimento di Giustizia, del Dipartimento della Salute e dei Servizi Umani, del Dipartimento dell’Istruzione e dalla U.S. General Services Administration (GSA) [1].
A questo si aggiungerà un ulteriore pagamento aggiuntivo di venti milioni di dollari per la chiusura di un contenzioso con la Commissione Federale per le pari opportunità di lavoro.
Con l’accordo raggiunto dalla Columbia, si chiude così uno degli scontri avviati dal presidente Trump contro le università ribelli, al termine di mesi turbolenti tra la Casa Bianca e gli studenti dell’ateneo preso in causa. Uno scontro in cui la fortissima pressione di natura economico-finanziaria esercitata dal presidente statunitense ha sortito l’effetto desiderato e l’ateneo, con l’ingresso di nuove figure alla guida come l’attuale rettrice ad interim Claire Shipman (subentrata alle dimissionarie Katrina Armstrong e, ancor prima, Minouche Safik), ha provveduto in tempi rapidi a “conformarsi” al volere della Casa Bianca.
I motivi dietro allo scontro tra la Columbia University e Donald Trump
È utile a riguardo riavvolgere i nastri della vicenda, ripercorrendo brevemente quanto avvenuto nei mesi precedenti all’accordo raggiunto ieri tra la Columbia University e l’amministrazione Trump.
L’oggetto della contesa tra Donald Trump e la Columbia, infatti, si inserisce in una più ampia visione presente nell’agenda politica trumpiana volta a cambiare radicalmente l’assetto del sistema educativo della Nazione e – in particolar modo – quello delle università.
Un obiettivo preciso: i college della c.d. “Ivy League” [2], l’eccellenza accademica statunitense situata all’interno di città e Stati a guida democratica, e quelli della costa occidentale (in particolar modo nello stato della California, anch’esso a guida democratica).
Nei mesi scorsi è stato possibile osservare come la questione fosse un capitolo rimasto in sospeso al quale Trump ha voluto da subito rimettere mano in maniera ancora più pervasiva rispetto a quanto già compiuto durante il suo primo mandato presidenziale (2017-2021).
L’attacco trumpiano alla c.d. “cultura woke” permeata all’interno della cultura accademica e il richiamo alla libertà di espressione (“free speech”) negli spazi universitari hanno presto però fatto largo ad altre ragioni legate agli interessi statunitensi in termini di politica estera.
In poche parole, al sostegno incondizionato e bipartisan da parte di Washington D.C. e della sua classe politica allo stato d’Israele.
“A contribuire a questa netta accelerazione […] sono state evidentemente le proteste e le manifestazioni scoppiate lo scorso anno all’interno dei principali campus universitari d’America per scuotere e mobilitare l’opinione pubblica sul genocidio in atto nei confronti del popolo palestinese e sui massacri quotidiani della popolazione per mano israeliana.”
(da “Dalla “cancel culture” alla “MAGA culture” – Trump contro le università ribelli” in “Generazione Magazine”, 31/05/2025, ultima consultazione il 24/07/2025)

Fonte immagine: @SenSanders/X (opera di dominio pubblico)
La guerra tra Israele e il popolo palestinese nei Territori Occupati e lungo la Striscia di Gaza è da mesi il motivo catalizzatore della massiccia opera d’ingerenza della politica trumpiana all’interno delle università statunitensi, teatro delle proteste degli studenti ma anche di ingenti parti della società civile.
Gli stessi studenti che, dopo le manifestazioni di protesta culminate in scontri contro le forze di polizia e in numerosi arresti e dopo l’ulteriore arresto preventivo di una delle figure chiave delle contestazioni, ovvero lo studente e attivista Mahmoud Khalil (a sinistra, NdA)[3], avevano osservato i vertici dell’università mentre alzavano bandiera bianca dinnanzi alle fortissime pressioni portate in essere dall’amministrazione Trump, sia dallo stesso presidente che dal suo Segretario di Stato Marco Rubio (a riguardo, la furente reazione della comunità studentesca nei confronti della rettrice ad interim della Columbia University in occasione della cerimonia di laurea dello scorso 20 maggio è uno degli esempi più lampanti).
Oggi la Columbia…e domani?
L’accordo raggiunto dalla Columbia University con la presidenza Trump può rappresentare concretamente “un punto di non ritorno”, nel momento in cui altri atenei sotto il mirino dell’amministrazione presidenziale e ugualmente oggetti delle minacce di blocco dei finanziamenti federali (in questi mesi la Harvard University, come la Columbia University, è stata oggetto di ordini esecutivi e azioni da parte della Casa Bianca) potrebbero giungere alla stessa risoluzione.
Al momento il condizionale è d’obbligo, ma resta il fatto che scenari di questo tipo possono ora considerarsi possibili a tutti gli effetti.
Note e ulteriori riferimenti
[1] Si rimanda a “DOJ, HHS, ED, and GSA announce initial cancellation of grants and contracts to Columbia University worth $400 million” (U.S. General Services Administration, 07/03/2025, data ultima consultazione 24/07/2025)
[2] La “Ivy League” comprende le otto università private più antiche degli Stati Uniti d’America, ovvero le università di Harvard, Yale, Princeton, Columbia, Cornell, Brown, Dartmouth e la UPenn.
[3] Dopo essere stato trascorso più di tre mesi di detenzione in regime di massima sicurezza in un penitenziario federale ed essere stato rilasciato in seguito all’intervento di un giudice federale che ha dichiarato il suo arresto “incostituzionale”, poche settimane fa Mahmoud Khalil ha citato in causa l’amministrazione Trump con una richiesta di circa venti milioni di dollari di risarcimento danni.
Nell’immagine di copertina: “La statua “Alma Mater” posta dinnanzi alla Low Memorial Library della Columbia University.
Fonte immagine: Nowhereman86/Wikimedia Commons (opera propria e di dominio pubblico)”