Dare la vita, opera postuma di Michela Murgia edita da Rizzoli e pubblicata lo scorso 9 gennaio, contiene l’essenziale eredità di Murgia:
L’invito a mettere tutto, sempre, in discussione.
Con la lucidità, il fervore e la schiettezza che continuano a contraddistinguerla, nel suo ultimo lavoro l’autrice recupera e approfondisce sotto nuovi punti di vista e con nuove consapevolezze un percorso che ha attraversato l’arco di una carriera e, soprattutto, di una vita. Quest’ultima e necessaria pubblicazione rappresenta, ancora una volta, quella spinta di cui avevamo bisogno, quelle parole che spesso ci mancano (e che a lei non sono mai mancate), e quello stimolo ad ampliare, o meglio, a distruggere i nostri orizzonti che non sono altro se non linee di confine che, come un «muretto a secco», ci obbligano a vedere le cose da un lato o dall’altro della barricata.
Dare la vita più che un manifesto, parola che dà l’idea di qualcosa di programmatico, prescrittivo e definitivo (tutto ciò che Murgia non ha mai preteso o desiderato essere), è un punto di partenza o meglio di ri-partenza.
Come Murgia spesso ci ricordava: cambiare materialmente le cose è una questione di metodo, ed è proprio con metodo che, anche questa volta, l’autrice procede. Ovvero per analisi.
Dare la vita è un testo che analizza, nel senso etimologico della parola (greco ἀναλύω ‘analuo’): scioglie, scompone, disfa e infine libera.
Proprio in questi termini, nel presente libro, Murgia continua a esplorare i rapporti umani, concentrandosi su quella, non direi condizione, ma piuttosto relazione umana che per secoli si è preteso fosse interesse e appannaggio di tutt3, Stato compreso: la maternità.
E lo fa domandandosi sempre «chi sia una madre e mai di chi sia».
Ribadendo il concetto di queerness come pratica della soglia, tema già trattato nel precedente saggio edito da Einaudi God Save the Queer, l’autrice rivendica fermamente il diritto all’indefinitezza non come forma d’ignavia ma, piuttosto, come esercizio di libertà.
Da questa necessità, non di ridefinire (perché come afferma Chiara Valerio: «nominare significa escludere»), ma di ridisegnare la struttura delle norme e del normale, riprende la sua riflessione sia sulla propria esperienza di maternità, che in più occasioni lei stessa ha definito maternità d’anima, che sull’ancora acceso e vivo dibattito riguardo alla gestazione per altr3 (GPA), sulla quale più volte si è espressa negli ultimi otto anni.
Murgia delucida qualsiasi dubbio, o meglio, libera da qualsiasi pregiudizio si possa avere sentendo parlare di famiglie prive di legami di sangue e di ruoli gerarchici, e lo fa raccontando esplicitamente la propria realtà; una realtà nella quale si vivono legami altri per cui si rivendica la possibilità di vivere una maternità d’elezione, scegliendo e venendo scelt3 dai propr3 figl3. Perché la famiglia, proverbi a parte, hai il diritto di scegliertela.
L’autrice scioglie i limiti biologici della genealogia e disfa l’assetto binario eteronormativo su cui si fondano le strutture dello Stato, per il quale le relazioni familiari che non siano generate tramite passaggio di sangue e la maternità che non sia stata rivendicata tramite gestazione sono dimensioni che non esistono semplicemente perché non regolamentate tramite i corpi.
Ed è proprio la mancanza di regolamentazione, invece, che l’autrice discute quando si tratta di gestazione per altr3.
Attraverso uno stimolante esercizio di riflessione, privo di fuorvianti retoriche paternaliste, Murgia scompone l’argomento costringendoci a vedere le cose con occhi sempre nuovi, senza mai imporre arbitrariamente il proprio punto di vista. Ricordandoci che: una legge che riconosce un fenomeno è una legge in grado di definire anche l’abuso il quale, senza legge, smetterebbe di esistere sulla carta (e non nella realtà) per il semplice fatto di non essere giuridicamente riconosciuto come tale.
Il lavoro di Murgia, dunque, si rivela un inno al mutamento rivolto a ciò che lei stessa chiama «lo stato statico dello Stato».
Che si tratti del diritto a rivendicare un legame familiare altro rispetto al cruento modello patriarcale (cruento perché letteralmente ‘di sangue’), o che si tratti di tutelare i corpi e gli individui (generanti e generati) nell’esercizio delle proprie libertà, l’autrice ci invita ad accogliere «il cambiamento come strutturale».
Perché, come nel rapporto personale tra individui così nel rapporto legale tra Stato e cittadinə: «se non cambia, anzi, se pretende di non cambiare, il rapporto […] nasconde al proprio interno strumenti di oppressione dell’altrə».
Autore
Elena Tronti
Autrice
Nata nel 1998, laureata in Linguistica. Amo i boschi e guardare film. Credo ancora che parlare sia l’atto più rivoluzionario di cui siamo capaci. Parlare di femminismo ancora di più.