Da che parte stanno i giornali?

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Non sono molte le professioni che, pur ricoprendo un ruolo pubblico, vengono discusse nei loro metodi e meriti. Da qualche anno, il giornalismo si è fatto spazio tra queste, tracciando un doppio binario di racconto: fuori di sé e dentro di sé. Non solo l’informazione è più accessibile e variegata nelle sue espressioni, ma è sempre più frequente incrociare discorsi su come dovrebbe essere e sulla correttezza dei suoi meccanismi. 

Questo è un esercizio utile per qualsiasi lavoro, sintesi di come, collettivamente, siamo capaci di progredire: esercitando una critica verso ciò che è pubblico e che, quindi, occupa un ruolo imprescindibile nello spazio di tutti. Capire le richieste e le esigenze di chi usufruisce dell’informazione non significa abbattere gli schemi che hanno portato la stampa fino a qui, garantendo la sua sopravvivenza ed evoluzione, quanto più essere capaci di osservare come cambiano le cose intorno a noi, raccogliendo i sintomi di un tempo che ci passa sopra e che, per certi e molti versi, è difficile da afferrare e capire. 

Ci sono stati – ad aiutarci in questa ricerca e rappresentarne le manifestazioni – alcuni momenti specifici che hanno fatto emergere chiaramente la crisi tra la domanda e l’offerta di una certa stampa. Il genocidio del popolo palestinese, tra tutti, è servito da perno per svelare la faccenda, magari in maniera scomposta, ma assoluta. Proprio in virtù dei nuovi spazi abilitati a luoghi d’informazione, dal 2023 l’inadeguatezza del giornalismo è venuta a galla. Per tutti, certe immagini, certi suoni e certi racconti sono diventati reali, ci hanno raggiunto senza mediazione ed hanno sostituito qualsiasi cronaca ben scritta da qualsiasi scrivania. La rottura di questa quarta parete poteva esprimersi in due modalità: servendo i giornalisti nel proprio racconto, cioè aiutandoli e facilitandoli nella possibilità di afferrare quel che accadeva, oppure creando una cesura narrativa tra quel che tutti testimoniavano e quel che, invece, tutti leggevano. È successa la seconda cosa.

Lo sconforto dei lettori non era solo radicato nell’ambivalenza delle informazioni che ricevevano, ma nella completa assenza di strumenti interpretativi del reale, mal predisposti dall’inizio di questa storia. La questione palestinese, raccontata, appunto, come questione dai contorni sfuggevoli, non solo è stata tratteggiata in maniera soffocata in tempo di genocidio, ma ne è stata scoraggiata la comprensione in nome della sua complessità, allestendo una situazione forse inedita: c’è stato un massacro che tutti hanno visto e potuto consumare, ci sono stati dei corpi aperti a metà e delle persone morte di fame, c’è uno Stato genocida e poi c’è stato, da quest’altro lato, un giornalismo inadeguato e mediocre, che ha negato il proprio ruolo, sottraendosi alle proprie responsabilità.

Quali queste siano, per altro, è stato ridefinito proprio in questo tempo. Mentre alcuni hanno saputo ricostruire attorno a sé un mondo di giustificazioni semanticamente perfette, per potersi raccontare le proprie decisioni, altri hanno assunto una postura che – a giudizio dei primi – è stata troppo simile a chi il mondo non vuole raccontarlo ma cambiarlo.

Interrogandosi sulla possibilità che i giornalisti scelgano, non sempre ma quando necessario, un modo di fare simile a quello degli attivisti, tre ricercatori della University of Texas at Austin, hanno scritto che: “Impedendo loro di schierarsi a favore di ciò in cui credono, i giornalisti sono messi in una posizione iniqua, costretti a scegliere tra ciò che ritengono giusto e il mantenimento del proprio posto di lavoro. Si potrebbe anzi sostenere che esprimere apertamente le proprie convinzioni politiche da parte dei giornalisti non fa che accrescere la loro trasparenza, anziché renderli scatole vuote con un tesserino al collo”.

Il tentativo di avvicinarsi alla neutralità come osservatori capaci di raccontare la realtà è un esercizio complesso: è facile ricadere in false equivalenze morali e compiere errori tutt’altro che neutrali. Volendo, quindi, dare per scontato che il concetto di neutralità assoluta non esista, l’unica cosa che si può chiedere ai giornalisti è che che utilizzino una metodo scientifico nella costruzione della loro narrazione.

Supponendo, per un momento, che la neutralità sia un’ambizione cui tendere, è interessante provare ad afferrare la sua definizione. Le implicazioni geografiche, storiche e culturali che ciascun giornalista si porta dietro, modificano sensibilmente la visione personale che si ha di un’ipotetica imparzialità. Qui in occidente è diffuso credere che per neutralità si intenda una sorta di equilibrismo tra parti, in cui potersi ricavare una posizione di mezzo da cui osservare le storie che raccontiamo, i protagonisti e i ruoli che ricoprono. Peccato che, la nostra stessa posizione su questo scacchiere immaginario, impedisce la possibilità di essere – appunto – a metà. Vale la pena, quindi, domandarsi se l’imparzialità sia anch’essa una condizione necessaria per poter valutare un buon lavoro giornalistico e cosa ne consegue.

Barbero, in un ambito affine, ha offerto più volte un punto di vista interessante: da un lato, lo storico deve poter comprendere le ragioni di tutte le parti coinvolte nel fenomeno che studia. Dall’altro, con riguardo ad eventi particolarmente recenti e moralmente univoci, ritiene non solo legittimo, ma necessario, riconoscere che esista una parte giusta e una sbagliata, senza che questo infici in nessun modo il lavoro accademico.

È proprio lo studioso che conosce l’ingiustizia che non dovrebbe rivendicare l’astrazione per evitare l’impegno: la conoscenza implica intrinsecamente delle responsabilità. Con ciò non si sottintende una rinuncia al rigore, alla verifica delle fonti o alla molteplicità delle prospettive. Al contrario, significa essere più scrupolosi, riconoscendo di agire in un contesto temporale, dunque sociale e politico, da cui non ci possiamo astrarre. È più appropriato dichiarare apertamente da quale punto si parla, piuttosto che fingere di non avere alcuna posizione o, peggio, celarla pensando che ciò possa aggiungere credibilità al nostro lavoro: con buone probabilità, una posizione non presa è comunque una posizione.

Come in ogni lavoro poi, c’è chi lancia attacchi dettati dai sentimenti e chi, al contrario, cerca di sostenere la propria tesi applicando quella “metodologia scientifica” che sta alla base di ogni forma di conoscenza. È evidente che la rigorosità richiede onestà e apertura all’evidenza e al ragionamento, ma non necessariamente prevede l’astensione dal giudizio, specie di fronte alla sofferenza umana.

Nel contesto della crisi umanitaria a Gaza, e all’interno del un panorama mediatico occidentale condizionato da una narrazione parziale, ogni denuncia esplicita delle violazioni israeliane è stata spesso percepita da una parte del pubblico come un attacco radicale e fazioso a prescindere. Il “prendere posizione” è diventata un’espressione dispregiativa, utilizzata per screditare il racconto e poter etichettare chi lo proponeva come radicalizzato, senza considerare il contesto in cui tale narrazione si stava sviluppando né la lunga storia di distorsioni che ha caratterizzato questo tema.  

Prendere posizione non è un tradimento del ruolo giornalistico, ma un modo di interpretarlo, che quando sostenuto da rigore e trasparenza ne è un’espressione altissima.

Le modalità narrative scelte dalla stampa italiana nel periodo cui facciamo riferimento, erano piene, manifestamente, di meccanismi iniqui e scorretti di cui era, invece, priva certa stampa estera. Non potendo, seppur venendone fortemente tentati, considerare le testate nazionali meno competenti, per esempio, di quelle anglosassoni o francesi, il ragionamento in merito a questa questione è spinto un po’ più in là. Si è resa evidente una traccia sottesa nel racconto del genocidio, fortemente legata ai sistemi culturali cui i giornalisti facevano e fanno riferimento, capaci di avallare certi discorsi e sfavorirne altri.

Come possiamo, da questa parte, giudicarci capaci o tendenti alla neutralità, quando, nella migliore delle ipotesi, il nostro sguardo è condizionato da un’istruzione pubblica, un sistema culturale ed una classe intellettuale che non ha mai fatto i conti con le pratiche decoloniali?

È fondamentale, nell’ipotesi in cui decostruire il proprio racconto sia di interesse delle redazioni e dei singoli giornalisti, considerarsi portatori di pregiudizi, antipatie e preconcetti che inficiano, senza alcun dubbio, le possibilità di neutralità. Non si tratta di un movimento intellettuale volto all’auto-assoluzione – che certamente non aiuterebbe la causa e non offrirebbe possibilità di miglioramento alcuno – quanto una nuova postura. Considerare il lavoro altrui come fazioso ed incompleto, solo perché superficialmente aperto verso una parte, è piuttosto cieco nei confronti di un meccanismo che si è rivelato fondamentale nella storia di tutte le questioni che hanno riguardato l’uomo: per dare una possibilità alla giustizia, bisogna raccontarla.

Farsi costruttori di questa possibilità, che va abitata con coraggio, significa mettere in gioco una serie di cose, nei casi come quello di cui sopra. Entrare in contatto con un dolore inedito, che altrimenti non vedremmo, ma anche prevedere la possibilità che coloro che ci somigliano di più possano non essere i giusti della storia. Significa, spesso, liberarsi dei meccanismi cui siamo abituati, ri-cablare il sistema intellettuale di cui ci fidiamo, aprirsi alla possibilità che le persone che contribuiscono ogni giorno a raccontare il mondo in cui viviamo siano, in certi casi, non adatti.

Nella redazione di Generazione questo tentativo ci è costato una serie di cose, di cui oggi raccogliamo unicamente i frutti. Le persone che avrebbero, naturalmente, scritto di questa storia, hanno deciso di non farlo e di lasciare che l’urgenza passasse tra le mani di chi – per le stesse ragioni di cui sopra – conserva uno sguardo diverso da quello occidentale. Affidare, quasi interamente, la linea editoriale di una redazione composta da oltre 70 persone, in un momento di grande crescita e sviluppo, è stato un rischio che non abbiamo corso con leggerezza, ma che abbiamo ricercato per elevare le possibilità di raccontare nel modo più giusto il genocidio di un popolo. Ci siamo, tutti insieme, aperti alla possibilità che ci fosse dell’altro oltre ai racconti firmati dalla parte di mondo in cui siamo nati, che non è esattamente una cosa facile da fare: inevitabilmente, abbiamo testimoniato la disfatta del giornalismo italiano.

Ci pare possibile, reduci dal lavoro che abbiamo condotto negli ultimi due anni – e che prosegue – incarnare un’alternativa. Saperci incapaci di neutralità non esclude saperci capaci di altri sforzi: dare credibilità ad un’altra parte, affidarci ad altre fonti, ascoltare altri racconti e delegare gli spazi. Non è un procedimento che sottrae, ma semmai aggiunge: ci si guadagna in sguardo, conoscenza, possibilità. I nostri cervelli si sono, letteralmente, espansi, le nostre prassi collettive cambiate per sempre. 

Informarsi, indagare e raccontare spesso include il presupposto che la conoscenza abbia la forza di cambiare l’ordine delle cose, potenzialmente migliorandole, almeno dalla prospettiva di chi scrive. L’inchiesta giornalistica, nella grande maggioranza dei casi, si fonda proprio su questa tendenza: individuare un’ingiustizia o una discrepanza e pensare che la sua rivelazione possa portare ad un beneficio pubblico.

A dimostrazione del fatto che un buon lavoro giornalistico non debba necessariamente astenersi dal prendere posizione, l’articolo scelto come “Top Work of Journalism of the Decade” dalla NYU è stato “The Case for Reparations” di Ta-Nehisi Coates. L’articolo è un’analisi dettagliata, accompagnata da una rigorosa ricerca storica, per supportare la tesi a favore delle riparazioni a beneficio degli afroamericani, concentrandosi non solo sull’eredità della schiavitù, ma soprattutto sulle politiche discriminatorie successive che hanno sistematicamente depredato le comunità nere. Dimostrando che un giornalismo posizionato può essere altrettanto rigoroso, rispetto ad uno che si dice non schierato. 

Questo, come molti altri casi, svelano che non esiste un modo univoco di fare giornalismo, al massimo esiste un processo di scrittura giusto, basato su fatti e fonti attendibili a cui, come pubblico, dovremo aspettarci che tutti aderiscano a prescindere da quale tesi o posizioni sostengano. 

Il giornalismo contemporaneo, come servizio pubblico, non può limitarsi all’ambizione di raccontare i fatti nella maniera più asettica possibile. Deve sviluppare una consapevolezza critica dei bias sistemici che influenzano il modo in cui raccontiamo la realtà, con la certezza che ogni narrazione riflette scelte consapevoli o inconsce su cosa amplificare, cosa escludere e come inquadrare gli eventi. Questo richiede una pratica consapevole di decostruzione, evidenziando i meccanismi attraverso cui certi soggetti rimangono invisibili e come potrebbero essere resi visibili.

La funzione più importante che dovrebbe svolgere il giornalismo è forse proprio questa: smontare narrazioni viziate e cercare di dare voce a chi, almeno in questa parte di mondo, è stato misrappresentato o non rappresentato affatto, anche da noi stessi.

Rinunciare a difendere una posizione che si ritiene ragionevole, se fondata su ricerca e argomentazione logica, non è la soluzione al problema che stiamo sollevando. Ciò che conta, metodologicamente, è rendere chiaro il proprio percorso argomentativo e mantenere un metodo di lavoro trasparente. D’altronde, il consenso sui fatti che riteniamo “evidenti” (quasi sempre un miraggio) nasce proprio dalla discussione informata tra punti di vista distinti. Non esistono assiomi a priori universali, sono la verifica e il confronto tra interpretazioni diverse che determinano cosa resiste nel tempo. In altre parole, la condivisione di dati affidabili e il consenso sul “reale” sono spesso processi sociali continui, non stati di fatto precostituiti.

Posto, quindi, che la neutralità non è una disposizione universale che si può pretendere di soddisfare, è necessario ri-definire le ragioni del giornalismo, quali siano le necessità di cui si fa risposta. Sono cambiati i luoghi di espressione della stampa, le persone con cui interagisce, i criteri che soddisfa quando programma il proprio lavoro, le strade che incrocia quando deve sponsorizzarsi e pagare i propri giornalisti: è, indubbiamente, cambiato anche il ruolo che ricopre nello spazio comune, e come interagisce con quello spazio.

È essenziale continuare ad immaginarsi il giornalismo come spazio di informazione e spiegazione, luogo in cui cercare coerenza nei fatti che si presentano frammentati. Allo stesso tempo, il giornalismo nazionale non è più l’unico riferimento capace di soddisfare questa esigenza. Le possibilità di informare e spiegare si sono moltiplicate, sono diventate quasi-universali, sono cresciute coerentemente con una domanda.

Allargando, piuttosto democraticamente, le possibilità di informazione delle persone, si allarga l’offerta, la domanda cresce di qualità, si affina il fiuto generale rispetto alla ricerca della verità, c’è una richiesta precisa rispetto al linguaggio che si desidera leggere e non diventa più accettabile utilizzare il pretesto della neutralità per segare le gambe alla ricerca di giustizia, anche attraverso il lavoro dei singoli giornalisti. 

Le richieste di chi legge e non scrive rispondono alla sollecitazione che abbiamo riportato all’inizio di questo articolo: il giornalismo ha ormai un doppio binario di racconto, fuori di sé e dentro di sé. Le discussioni che avvengono fuori dalle redazioni restituiscono l’esistenza di nuova ricerca collettiva, urgente da comprendere e soddisfare: non è più accettabile parlare con un inesistente linguaggio neutrale, perché spesso si fa complice di una parte avallandone le ragioni, che se vengono riportate senza i filtri di un giornalismo pesante diventano manipolazione, uccidendo il motivo stesso per cui il giornalismo esiste.

Autori

Benedetta Di Placido

Benedetta Di Placido

Vicedirettrice e responsabile editoriale

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