L’alluvione in Emilia-Romagna e la marginalità dei territori di provincia

Un reportage da Lavino di Mezzo

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Rimane una riga marrone sulle pareti a segnare il confine tra quello che si è salvato e quello che è stato sommerso. Ci sono poi grandi quantità di rifiuti lungo le strade, sui marciapiedi, che un po’ alla volta vengono portati via e ammassati altrove, prima di essere smaltiti. Le macchine sono piene di fango, fin sopra il tettuccio. L’asfalto e i prati tra i condomini qualche giorno fa erano sott’acqua.

Siamo a Lavino di Mezzo, una frazione di Anzola dell’Emilia che conta poco più di 300 abitanti e prende il suo nome dal Lavino, un torrente che nasce nell’Appennino emiliano, a Montepastore, e sfocia nel Samoggia quasi 37 km dopo. Dal centro di Bologna è raggiungibile in circa 40 minuti di autobus, direzione Borgo Panigale. Anche qui l’alluvione del 19 ottobre di quest’anno ha causato danni e disagi alla popolazione, anche se in questo territorio di provincia, lontano dalla visibilità del capoluogo, tutto appare ridimensionato e drammaticamente più lento: l’arrivo dei soccorsi, la pulizia delle cantine, le risposte che cercano i cittadini ormai devastati da quella che è stata definita una “calamità naturale”.

Il torrente Lavinio, foto di Greta Magazzini

Le piogge cadute tra il 19 e il 20 ottobre sulla zona metropolitana di Bologna sono state elevate: come riporta Arpae (Agenzia prevenzione ambiente energia Emilia-Romagna) ci sono state cumulate da 160 a 180 mm e intensità orarie anche superiori ai 30 mm/ora e ai 100 mm in 4 ore consecutive – quantità normalmente associate a temporali estivi di breve durata, mentre in questo evento si sono mantenute per diverse ore. Il torrente Lavino, come raccontano gli abitanti del paese, ha iniziato a ingrossarsi dalla sera: alle 22.30 alla trattoria Bellini, vicina al ponte sul Lavino e separata da esso da una strada, si sono fatti andare via i clienti, nel bel mezzo del servizio: «Non è sicuro, sta piovendo troppo, andate a casa». La veranda è stata sventrata dall’acqua, spiega Luca, cuoco del ristorante e ora amministratore del gruppo Telegram dei volontari accorsi in aiuto a Lavino di Mezzo: «Siamo stati fortunati, poteva andare peggio».

foto di Greta Magazzini

Il Lavino ha rotto gli argini nella parte sud del paese, ha invaso le prime strade che ha incontrato e le ha trasformate in corsi d’acqua. Via Guido Rossa è stata la via più colpita. I civici dal 24 al 35 hanno cantine, garage e taverne piene d’acqua fino al soffitto. Qualcuno, inoltre, non considerava quella a pian terreno “la stanza in più”, ma lì ci viveva.

Lorenzo ha visto entrare l’acqua da una fessura fra due muri portanti, generata dalla violenza del flusso che in pochissimo tempo ha riempito la stanza fino a un metro e mezzo. «Ho sentito il fiume arrivare per la strada e sono venuto giù a prendere un po’ di roba, cercando di salvare il possibile. Poi, un rumore fortissimo. Si è aperta all’improvviso una fessura: l’acqua ha sbattuto il mobile che era poggiato al muro alla finestra e ha iniziato a entrare. Son riuscito a scappare, mia moglie era già salita al primo piano. In un attimo ero sommerso dall’acqua e dal fango, che mentre andavo su è continuata a salire arrivando fino ai tre metri. Mi sono salvato grazie a Dio».

Lorenzo, foto di Greta Magazzini

Martina si è svegliata per l’allarme di una casa di fronte e quando si è affacciata alla finestra il fiume scorreva al posto della strada e trascinava via tutto. «Siamo  scesi al volo e abbiamo iniziato a suonare ai vicini di casa del piano di sotto per farli salire da noi. Il mio ragazzo è corso verso i garage per cercare di salvare le macchine, ma non c’era più niente da fare, era già tutto sommerso. Abbiamo passato la serata e la mattina dopo in attesa: continuava a piovere e piovere. Ho chiamato il 112 nella notte, ma i vigili e la protezione civile rimbalzavano l’un l’altro la chiamata e non sapevamo che fare».

Matteo racconta di vivere in via Guido Rossa con il fratello. «Sono stato svegliato da un amico che mi ha chiamato alle 1.30 di notte. Sono andato fuori per andare a tirar fuori la macchina dal garage ma niente, c’era già acqua. Siamo saliti su da mio fratello che sta al piano superiore, mentre giù abbiamo buttato via tutto: tavernetta, cantina, garage. L’acqua è arrivata a metà delle scale e continuava a salire».

Alberto abita al piano terra con la moglie, i figli di 31 e 37 anni stanno al piano superiore. Ha perso tutto: «È un disastro di grandissimo livello. Ci saranno polemiche, ed è giusto, come sempre. Ma dove è il buon senso? Noi l’abbiamo visto solo dopo, dopo il disastro, con tutti questi amici che ci aiutano a pulire e spalare il fango».

In tutte le voci si alternano tristezza e rammarico per come l’emergenza è stata gestita. Sul territorio era sì stata emessa l’allerta rossa, ma niente di più: «Tutti ci hanno detto che non pensavano che la situazione fosse così grave», spiegano. A Lavino infatti non si pensava che il torrente potesse arrivare a tanto, non ha mai destato problemi alle abitazioni, la manutenzione degli argini e la pulizia dell’alveo si facevano regolarmente.

«Quando ho chiamato i soccorsi mi è stato chiesto: “Dove si trova Lavino di Mezzo?”. Io intanto avevo l’acqua in casa e ho rischiato di morire», racconta Lorenzo. «Le forze dell’ordine e la protezione civile stavano monitorando il lato sbagliato del fiume, verso valle, mentre è venuto fuori dalla parte dell’Appennino», spiega Martina. Luca ricorda: «I soccorsi sono arrivati il terzo giorno, dal Friuli, non so perché, ma siamo stati giorni con l’acqua alta, i garage e le auto sommerse».

È sembrato per un po’ di giorni un posto dimenticato, Lavino di Mezzo. Le pompe idrovore dei contadini hanno dato una mano a svuotare le cantine e le braccia di amici e conoscenti hanno dato una mano ad accumulare i rifiuti. Intanto, le famiglie sono rimaste senza corrente, con le fosse biologiche che continuavano a buttare fuori acqua putrida, mettendo in serio pericolo la salubrità dei posti.

Luca e qualche vicino si sono attrezzati da soli: «Siamo andati al negozio più vicino e abbiamo speso 700€ di tasca nostra per comprare pompe, torce, mascherine, stivali, attrezzatura. L’Acer, proprietaria di alcuni dei condomini invasi dall’acqua, ha mandato il primo tecnico venerdì 25 ottobre. Prima abbiamo fatto da noi. Ma ci sono persone invalide, anziane, famiglie con disagi vari: non si possono lasciare le persone così».

Nelle cantine dell’Acer c’è ancora qualche centimetro di fango. L’acqua che è arrivata ha spaccato alcuni muri e ora restano voragini tra i corridoi in cui, appoggiate ai muri, sono rimaste solo le porte di lamiera piegate dalla forza dell’acqua. La maggior parte delle cantine è stata svuotata dai mobili, scatole ed elettrodomestici che le riempivano, ma c’è ancora molto da fare.

foto di Greta Magazzini

«Ora che tutto è sgomberato e i rifiuti sono ammassati fuori arriva la parte difficile: ripartire. Servono soldi». Lorenzo, ad esempio, non ha più la porta di casa: «Sono venuti i falegnami per montarne una nuova ma prima vogliono un acconto. Ma come faccio? Le banche dovrebbero venirmi incontro». Jessica, un’altra abitante di via Guido Rossa che ha lanciato per il suo paese una raccolta fondi, racconta che non ha più la macchina, e come lei tantissime altre persone. L’assicurazione, visto che il disastro è stato classificato come “calamità naturale”, non copre la maggior parte dei danni. E anche se li coprisse, spiega un altro cittadino «la rottamazione della macchina spetta a noi».

Alla palestra del paese è stato organizzato un punto di raccolta materiali e di primo soccorso, in cui le persone si fermano a pranzare. Ci si danno i turni per far continuare i lavori nelle cantine ancora da pulire, ci si passano carrelli della spesa presi ai supermercati, pieni di pale, bastoni, martelli. Ogni tanto passano carriole piene di fango o di oggetti da buttare: cd, libri, scarpe, “giubbotti dell’inverno”, ricordi di una vita. 

I garage dei condomini sono dei box verdi, cubici, sono quasi tutti aperti, uno di fronte all’altro, le persone sono appena fuori, sotto la porta di lamiera piegata dal fango, con grembiuli diventati marroni e la canna dell’acqua a lavare il recuperabile. Sembra che gli abitanti di via Guido Rossa siano diventati una piccola comunità, dove ci si dà una mano mentre il camion degli spurghi è parcheggiato in mezzo alla strada per tirar via l’ultimo fango rimasto.

foto di Greta Magazzini

A Bologna, la sera del 19 ottobre, l’allarme di “salire ai piani alti” è circolato dalle 18.30, a Lavino di Mezzo sono stati gli abitanti a chiamare il 112, con le stanze già allagate, la corrente saltata e il fiume che scorreva fuori dalle finestre al posto delle strade. Le vie della parte ovest di Bologna, in cui il torrente Ravone  è esondato causando danni gravissimi agli abitanti dei piani terra, sono state riaperte qualche giorno dopo, mentre code di 300 volontari, anche qui auto-gestiti, in particolare da Plat, la Piattaforma di intervento sociale bolognese che già per le alluvioni del 2023 si era mossa da subito per prestare i primi soccorsi, sgomberavano cantine con le loro forze.

Se da una parte l’alluvione di questo ottobre ha dimostrato, ancora una volta, quanto la crisi climatica sia attuale e non soltanto una minaccia futura e quanto le istituzioni non siano sufficientemente pronte a gestire eventi come questi, si conferma anche che certi territori, rispetto ad altri, faticano il doppio e sono marginalizzati nel percorso di ripresa, già lenta, che ci tocca come comunità.

Autore

Greta Magazzini

Greta Magazzini

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